Piropeschereccio e nave frigorifera di
613,72 tsl, 240,77 tsn e 654 tpl, lungo 54,40 metri, largo 8,64 e
pescante 4,58, con velocità di 9 nodi.
Di proprietà della Compagnia Generale Italiana Grande Pesca (Genepesca) con sede a Livorno, iscritto con matricola 219 al Compartimento Marittimo di Livorno, nominativo di chiamata radio IBAM.
Aveva una stiva frigorifera, della capacità di 260 metri cubi.
Di proprietà della Compagnia Generale Italiana Grande Pesca (Genepesca) con sede a Livorno, iscritto con matricola 219 al Compartimento Marittimo di Livorno, nominativo di chiamata radio IBAM.
Aveva una stiva frigorifera, della capacità di 260 metri cubi.
Breve e parziale cronologia.
1921
Costruito come rimorchiatore Le Lutteur dalla Compagnie Générale de Matériel Naval di La Rochelle per il Governo francese. Dislocamento 413 tonnellate, stazza lorda e netta 445 tsl e 51 tsn, velocità 11,5 nodi; porto di registrazione Bordeaux.
Fa parte di una serie di 21 rimorchiatori da 1000 CV, ordinati durante la prima guerra mondiale per rimorchiare chiatte in cemento adibite al trasporto di carbone dal Regno Unito alla Francia. La fine del conflitto non ha arrestato il programma di costruzioni; molti dei rimorchiatori verranno rivenduti a privati entro pochi anni dall’entrata in servizio.
1926
Venduto alla Société Anonyme Les Chalutiers Bretons, con sede a Saint-Nazaire, e trasformato in piropeschereccio oceanico, con il nuovo nome di Jean Hamonet. Stazza lorda 619 tsl, netta 228 tsn; porto di registrazione Saint-Nazaire, nominativo di chiamata OTWN.
29 maggio 1930
Il marinaio Louis Auguste Anger, rammendatore di reti da pesca sul Jean Hamonet, muore per malattia a 47 anni nell’ospedale di Saint-Pierre (Saint-Pierre e Miquelon).
1931
Il Jean Hamonet viene sottoposto presso gli Ateliers et Chantiers du Sud-Ouest di Bordeaux a lavori di modifica in seguito ai quali viene dotato di stive frigorifere, con apparato di refrigerazione SACIP (dotato di due compressori che permettono di sviluppare 90.000 frigorie-ora ciascuno e di congelare da 10 a 12 tonnellate di pesce al giorno mantenendo la cella frigorifera alla stessa temperatura della salamoia fredda, cioè -20° C, grazie ad un'installazione di espansione diretta dell'acido carbonico). Il Jean Hamonet ed un altro piropeschereccio oceanico, il Marie-Hélène, sono i primi grossi pescherecci d’altura ad adottare tali apparati, dopo la sperimentazione iniziale condotta nel 1929 sul piccolo peschereccio Sacip.
Maggio 1931
Appena completati i lavori di adattamento delle stive frigorifere, il Jean Hamonet si reca sul Great Sole Bank per alcuni giorni di prove, dopo di che viene inviato in Groenlandia per una campagna di pesca.
Novembre 1931
Il Jean Hamonet ed il Marie-Hélène salpano da La Pallice per recarsi nelle acque dell’Africa Occidentale, in cerca di nuovi territori di pesca dinanzi all’impoverimento dei “terreni” tradizionali della pesca a strascico, che non rende più come un tempo. Loro compito è esplorare i fondali di pesca dell’Africa Occidentale fino a Cap Blanc: la spedizione ha successo, i due piropescherecci rientrano confermando l’abbondanza del pesce in queste acque. Con cale di due ore, riescono a pescare diverse tonnellate di occhioni, ombrine bocche d’oro, perchie, dentici ed altri pesci.
Il successo di questa spedizione dà il via ad una nuova stagione di pesca a strascico nelle acque del Rio de Oro e della Mauritania, da parte di pescherecci che partono da La Rochelle e, grazie ai progressi nelle tecnologie di refrigerazione, possono conservare il pescato per lunghi periodi prima di fare ritorno.
4-10 dicembre 1931
Battuta di pesca al largo di Cap Blanc, tra 20°44' N e 21°05' N. Con le cale a bassa profondità (40-60 metri) non vengono catturati naselli, ma l’ultima cala, effettuata a profondità elevata (310-330 metri), ne porta in superficie circa 500, di dimensioni comprese tra i 36 ed i 60 cm.
Dicembre 1931
Il Jean Hamonet conduce una crociera di studio al largo delle Canarie e della Mauritania, nel corso della quale gli studiosi Jean Cadenat e Gérard Belloc raccolgono tra l’altro diversi esemplari di dragoncello rosa sul banco Conception, a nordest delle Canarie, e pescano un gran numero di Chaunax pictus a 350 metri di profondità al largo di Cap Blanc, nonché, nelle stesse acque, vari gronghi. Viene anche catturata una sogliola del Senegal lunga ben 63 centimetri.
Gennaio 1932
In una nuova battuta di pesca al largo di Cap Blanc, il Jean Hamonet pesca naselli a 260 metri di profondità.
Febbraio 1932
Altra battuta di pesca nelle acque di Cap Blanc: i naselli vengono trovati a 250 metri di profondità.
Marzo 1932
Ulteriore battuta di pesca al largo di Capo Blanc: stavolta i naselli vengono pescati a 210 e 100 metri di profondità. Da dicembre in poi questo pesce sembra quindi avvicinarsi progressivamente alla costa.
1932
Complessivamente, nel corso dell’anno il Jean Hamonet compie nove campagne di pesca nelle acque tra il Rio de Oro ed il Senegal, della durata di circa 35 giorni e con un pescato medio di 125 tonnellate di pesce a campagna. Vengono pescate orate, merluzzi, ombrine, sogliole, pesci San Pietro, pagri, corvine, cernie, razze, capitani, sgombri, false aringhe, gallinelle, triglie e salmerini.
1932/1933
Durante una battuta di pesca nelle acque della Mauritania, al comando del capitano di lungo corso Isidore, il Jean Hamonet individua l’isobata di 200 metri a 37 miglia dalla costa per 18°36' di latitudine Nord, 29 miglia per 18° e 30 miglia di fronte a Saint-Louis (Senegal).
Sempre nel corso di queste battute di pesca, il Jean Hamonet spinge la sua ricerca del nasello europeo verso sud, dal largo del delta del Senegal fino al parallelo del villaggio di N'diago, pescando naselli lungo tutto il percorso: in prossimità di Cap Mirik a 280 metri di profondità, nella zona di Portendick a 240 metri di profondità, e nella zona del Senegal tra 215 e 320 metri. Il punto più meridionale in cui viene pescato è in latitudine 16°25' N, circa 250 miglia più a sud rispetto a quanto previsto dal naturalista Théodore Monod, e vari esperti ritengono che il limite meridionale della sua distribuzione si trovi ancora più a sud, in quanto l’abbondanza rilevata dal Jean Hamonet (320 kg in una sola cala) sembra poco compatibile con la densità che si dovrebbe riscontrare ai limiti dell’areale.
6-19 aprile 1933
Il Jean Hamonet conduce una battuta di pesca nelle acque mauritane, tra i paralleli 20°15' N e 20°52' N, su fondali compresi tra gli 80 e i 110 metri, nel corso della quale cattura 130 tonnellate di pesce. Tra i pesci pescati vi sono un’aringa, gronghi (pochi), murene (poche, non vengono conservate), tonni (pochi), leccie stellate, pesci serra (in abbondanza), sugarelli (molto abbondanti, non vengono conservati), cernie (in abbondanza), cernie di fondale, ombrine, ombrine boccadoro (molto abbondanti), branzini (pochi), ombrine senegalesi (parecchie), orate (molto abbondanti), pagri (in abbondanza), salpe, dentici (molti), gallinelle (poche), caponi cocci, caponi Lira (pochi), scorfani rossi (pochi), scorfani neri (pochi), pesci San Pietro (in abbondanza), halibut (pochi), sogliole (molte), merluzzi (molti), rane pescatrici (non molte), gattucci (molti, non vengono conservati), spinaroli (molti, non vengono conservati), squali martello (pochi), pesci angelo (molti, non vengono conservati), torpedini (poche), razze bavose (molte), razze chiodate (poche), pastinache (non molte), calamari (molti), seppie (molte), polpi (molti, non sono conservati), aragoste di roccia (in abbondanza: tremila in una sola mattina), buccine, ostriche e volutidi. In due cale viene pescato un gran numero di ombrine della varietà detta nelle Canarie berrugat: anche l’anno precedente ne è stato catturato un gran numero nella stessa zona e nello stesso periodo, mentre il resto dell’anno sono molto rare.
In un’altra battuta all’inizio dell’inverno, il Jean Hamonet pescherà nelle stesse acque un centinaio di tonnellate di naselli.
1934
Acquistato dalla Compagnie Anonyme Française de Pêche et d'Armement, con sede a Boulogne, e ribattezzato Sacip II.
1936
Acquistato dalla Compagnia Generale Italiana della Grande Pesca, con sede a Livorno, e ribattezzato Addis Abeba.
Insieme ad esso la Genepesca compra dalla Compagnie Anonyme Française de Pêche et d'Armement un gemello, il Sacip III ex Le Sportif, che ribattezza Ascianghi.
10 giugno 1940
L'Italia entra nella seconda guerra mondiale. L'Addis Abeba non verrà mai requisito dalla Regia Marina, né iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato.
27 maggio 1941
L'Addis Abeba viene scelto per essere una delle unità della flottiglia che trasporterà da Rodi a Creta il corpo di spedizione italiano inviato sull’isola per dare manforte alle truppe tedesche impegnate da giorni in duri combattimenti contro le truppe del Commonwealth, che stanno perdendo terreno ma hanno inflitto pesantissime perdite agli invasori, sbarcati dal cielo pochi giorni prima (operazione "Merkur").
L'invio di un corpo di spedizione italiano, al comando del colonnello Ettore Caffaro del 9° Reggimento Fanteria (definito dal capitano di vascello Aldo Cocchia “un ligure sbrigativo con molto azzurro sul petto”) coadiuvato dal maggiore Alessandro Ruta per i collegamenti con Egeomil, è stato deciso da Mussolini quando le sorti della battaglia apparivano ancora incerte, ed è stato accettato dai tedeschi nella speranza che possa distrarre, se non truppe Alleate, quanto meno i partigiani cretesi che hanno preso a loro volta le armi contro gli invasori.
La possibilità di un intervento italiano è stata prospettata per la prima volta in una riunione tenutasi ad Atene il 22 maggio, presso il comando della 4. Luftflotte, alla presenza del generale Alexander Löhr (comandante la 4. Luftflotte), dell’ammiraglio Karlgeorg Schuster (comandante navale tedesco in Egeo), del capitano di vascello Corso Pecori Giraldi (comandante di Marisudest, il Comando Gruppo Navale dell’Egeo Settentrionale) e del tenente di vascello Fellner, ufficiale di collegamento tedesco presso il Comando Forze Armate dell’Egeo (Egeomil). Fellner, giunto in aereo da Rodi, ha chiesto a Pecori Giraldi di interessarsi per una partecipazione italiana alla battaglia di Creta, da concretizzarsi mediante uno sbarco nella parte orientale dell’isola (i combattimenti in corso sono concentrati invece nella parte occidentale: si spera appunto che questo sbarco possa costringere gli Alleati a distogliere truppe dal fonte principale per farvi fronte) da attuarsi con truppe e mezzi prelevati dal Dodecaneso. La proposta ha incontrato l’iniziale perplessità di Pecori Giraldi, preoccupato dalla continua presenza di consistenti forze navali britanniche nelle acque in cui si dovrebbe svolgere lo sbarco.
Durante la riunione il generale Löhr ha detto che “la situazione delle truppe a Creta non è chiara e pertanto l’intervento italiano sarebbe assai gradito”, augurandosi “che possa verificarsi entro il minor tempo possibile”. La sera del 22 maggio Egeomil ha ricevuto un telegramma dal capo di Stato Maggiore generale, generale Ugo Cavallero, con la richiesta “Telegrafate se ritenete possibile partecipare operazioni Mercurio con un Reggimento fanteria rinforzato aut con forze maggiori alt Caso affermativo prendere diretti accordi con comando tedesco alt scegliete i migliori reparti che debbono in questa occasione tenere alto come sempre prestigio nostra bandiera alt Cavallero”; l’indomani il generale Ettore Bastico, governatore del Dodecaneso, ha risposto di aver già detto a Fellner che per un’operazione del genere occorrerebbe sguarnire le difese del Dodecaneso, dal momento che in caso contrario non sarebbero disponibili che due battaglioni rinforzati di fanteria. Bastico ha anche ribadito che la presenza della flotta britannica renderebbe l’operazione difficile e rischiosa, e che sarebbe meglio aspettare prima che la situazione migliori a favore dei tedeschi; ma ciò vanificherebbe il senso stesso dell’intervento italiano, richiesto urgentemente dai tedeschi proprio per migliorare la difficile situazione. Cavallero ha risposto la sera stessa del 23 maggio ordinando a Bastico di procedere con la spedizione mediante due battaglioni di fanteria rinforzati e da servizi, prendendo accordi diretti con i Comandi tedeschi; il 24 maggio Egeomil ha informato il Comando della 4. Luftflotte che il corpo di spedizione italiano, che dopo lo sbarco passerà alle dirette dipendenze del Comando tedesco, sarà composto da 80 ufficiali, 2200 tra sottufficiali e soldati, dodici cannoni da 47/32; una batteria di cannoni da 65/15, sei mortai, tredici carri armati L. 13, sette automezzi, 226 quadrupedi, cinque giornate di viveri e munizioni e tre tonnellate di carburante.
Il 25 maggio Bastico, su richiesta di Cavallero, ha riferito al Comando Supremo che il corpo di spedizione partirà da Rodi alle 18 del 27, per sbarcare nel pomeriggio del 28 nella baia di Sitia (la più orientale della costa settentrionale di Creta, a quindici miglia da Capo Sidero) da dove le truppe avanzeranno poi verso sudovest per occupare Ierapetra, come richiesto dai tedeschi, che vogliono così evitare un possibile sbarco di truppe britanniche in quella zona. La scelta di sbarcare nel primo pomeriggio, anziché all’alba come abituale per gli sbarchi, è stata dettata dall’esigenza di fare il modo che il convoglio si trovi nel Canale di Caso ad un’ora in cui la ricognizione aerea diurna potrà garantire che il Mediterraneo orientale sia libero da naviglio nemico: è l’ammiraglio Biancheri a fissare personalmente l’orario di sbarco, tenendo conto oltre che di quanto sopra accennato, anche che soltanto effettuando lo sbarco nel pomeriggio le navicelle del convoglio potranno compiere il viaggio di ritorno isolate durante la notte, eludendo più facilmente eventuali ricerche nemiche.
Bastico ha anche sollecitato Cavallero ad inviare altre unità navali per rimpiazzare le unità danneggiate da attacchi aerei nei giorni precedenti, ma il capo di Stato Maggiore generale ha risposto il 26 che “Imprescindibili necessità operative degli altri scacchieri impediscono attuale sostituzione o rinforzo vostre unità navali. Sono certo che Comandanti Ufficiali ed equipaggi sapranno supplice con volontà e l’animo alla scarsità dei mezzi”. Non molto migliore è stata la risposta alla richiesta di Bastico, avanzata il 23 maggio, di ricevere rinforzi di aerei d’attacco e da caccia: sono stati inviati a Rodi soltanto sei bombardieri CANT Z. 1007 bis.
(Ciò secondo lo storico Francesco Mattesini; secondo il volume USMM "La difesa del traffico con l’Albania, la Grecia e l’Egeo", invece, l’idea di una partecipazione di truppe italiane alla battaglia di Creta sarebbe stata inizialmente avanzata dai comandanti della Marina e dell’Aeronautica del Dodecaneso, ammiraglio Luigi Biancheri e generale Ulisse Longo – anche il capitano di vascello Aldo Cocchia, all’epoca presente a Rodi, avrebbe ricordato in un articolo pubblicato sulla “Rivista Marittima” del luglio 1951 di aver avuto modo di
(Ciò secondo lo storico Francesco Mattesini; secondo il volume USMM "La difesa del traffico con l’Albania, la Grecia e l’Egeo", invece, l’idea di una partecipazione di truppe italiane alla battaglia di Creta sarebbe stata inizialmente avanzata dai comandanti della Marina e dell’Aeronautica del Dodecaneso, ammiraglio Luigi Biancheri e generale Ulisse Longo – anche il capitano di vascello Aldo Cocchia, all’epoca presente a Rodi, avrebbe ricordato in un articolo pubblicato sulla “Rivista Marittima” del luglio 1951 di aver avuto modo di «vedere l’idea stessa nascere, per così dire sotto i miei occhi in un colloquio che, il 21 maggio, ebbero fra loro il contrammiraglio Luigi Biancheri ed il generale A. A: Ulisse Longo»-, raccogliendo subito il consenso del locale comando dell’Esercito e del governatore Bastico. I comandi tedeschi, cui venne offerta la partecipazione delle truppe del Dodecaneso il 21 maggio, avrebbero inizialmente respinto tale proposta, salvo poi mutare del tutto avviso in seguito al fallimento dei tentativi d’inviare a Creta truppe via mare ed all’aggravarsi della situazione delle truppe paracadutate ed aerotrasportate impegnate nei combattimenti, finendo col sollecitare l’invio di rinforzi da parte italiana il 26 maggio.
“ULTRA” doveva avere intercettato delle comunicazioni relative alle iniziali proposte di partecipazione italiane, visto che già il 22 maggio, prima ancora che venissero accettate, segnalò ai Comandi britannici che un reggimento italiano sarebbe probabilmente sbarcato a Capo Sidero).
Il 25 maggio è stata condotta un’esercitazione di sbarco a Rodi – allo scopo di familiarizzare i soldati con il mare, le navi e le operazioni di sbarco e mettere alla prova il funzionamento delle installazioni di fortuna delle varie unità – con esiti tutt’altro che soddisfacenti, ma si è deciso di procedere ugualmente. Alla fine il corpo di spedizione risulta così composto: il I e II Battaglione del 9° Reggimento Fanteria della 50
Il 25 maggio è stata condotta un’esercitazione di sbarco a Rodi – allo scopo di familiarizzare i soldati con il mare, le navi e le operazioni di sbarco e mettere alla prova il funzionamento delle installazioni di fortuna delle varie unità – con esiti tutt’altro che soddisfacenti, ma si è deciso di procedere ugualmente. Alla fine il corpo di spedizione risulta così composto: il I e II Battaglione del 9° Reggimento Fanteria della 50a Divisione Fanteria "Regina", al comando rispettivamente dei maggiori Alessandro Ruta e Francesco Lillo; due compagnie di marinai (queste ultime, alle dirette dipendenze del comandante navale, dovranno fungere da reparti da spiaggia e presidiare la testa di sbarco quando le truppe dell’Esercito inizieranno la marcia verso l’interno); un drappello di carabinieri; un reparto di camicie nere; la 3a Compagnia Carri L3/35 del CCCXII Battaglione Meccanizzato Misto dell'Egeo con un totale di tredici carri armati leggeri L3/35; la 50a Compagnia Cannoni Controcarro da 47/32 mm con un totale di sei cannoni M35 di tale calibro; una compagnia mortai da 81 mm con un totale di 6 mortai Mod. 35 da 81/14 mm; un plotone di fanti di Marina del Reggimento "San Marco", per un totale 2585 uomini dell’Esercito e 500 della Marina con equipaggiamenti, viveri e munizioni per cinque giorni, tra 205 e 400 muli a seconda delle fonti, due automobili Fiat 508C, due autocarri SPA Dovunque 35, nove motociclette Moto Guzzi, sei cannoni Mod. 13 da 65/17 mm, 46 mitragliatrici Fiat-Revelli Mod. 35 da 8 mm e 18 mortai Brixia Mod. 35 da 45 mm.
Il capitano di vascello Aldo Cocchia, che si trova di passaggio a Rodi nel corso di un trasferimento dall’Italia a Lero (dove dovrà assumere il comando dell’isola), si offre volontariamente di organizzare e guidare la spedizione: sotto la guida, non essendo disponibili mezzi specificamente concepiti per operazioni da sbarco, viene messo insieme un eterogeneo ed improvvisato convoglio, formato dai una moltitudine di piccole unità frettolosamente racimolate nel Dodecaneso ed adattate alla meglio: oltre all’Addis Abeba, lo compongono i piroscafetti costieri Giorgio Orsini e Tarquinia, il piroscafetto lagunare Giampaolo, i rimorchiatori Aguglia ed Impero, il piroscafo fluviale Porto di Roma (trasformato in nave da sbarco carri armati), la piccola motonave frigorifera Assab (anch’essa appartenente alla Genepesca), i motopescherecci Sant'Antonio, San Giorgio, Plutone e Navigatore, la piccola nave cisterna Nera ed i cisternini portuali CG 89 e CG 167. Parte di queste unità si trovano già a Rodi, altre – i motopescherecci, le navi cisterna, il Porto di Roma – vi affluiscono rapidamente da altre isole.
Il capitano di vascello Cocchia, nelle sue memorie, descriverà questa improvvisata flottiglia come “
Il capitano di vascello Cocchia, nelle sue memorie, descriverà questa improvvisata flottiglia come “insieme eterogeneo e pittoresco del quale facevano parte navi mercantili requisite, altre noleggiate, alcune iscritte regolarmente nei quadri del R. Naviglio, certo le più modeste e le più brutte navi che abbiano mai solcato i mari… piuttosto che una spedizione bellica sembrava la materializzazione d’una fantasia uscita dalla matita d’un disegnatore di cartoni animati”; la storia ufficiale dell’USMM non si esprime molto diversamente: “…un convoglio che era quanto di più vario, raccogliticcio ed “arrangiato” si potesse immaginare: i gazolini [motopescherecci], lenti e di scarsa capienza; le due [navi] frigorifere [Assab ed Addis Abeba], di discreto tonnellaggio, utilizzabili solo in coperta essendo le stive suddivise in celle; il vaporetto lagunare, dotato, sì, di un cannone da 76, ma inadatto alla navigazione in mare aperto; la cisterna, piccolissima e anch’essa inadatta al mare aperto; i due rimorchiatori requisiti, lenti e privi di stive. Ottimi invece i due piroscafetti, l’Orsini ed il Tarquinia (…) Ottima anche la nave fluviale, il Porto di Roma, sulla quale furono imbarcati i carri armati leggeri. Da tenere inoltre presenti le mancanze o insufficienze di locali adatti al riparo delle truppe (la navigazione richiedeva circa 24 ore), di servizi igienici, di cucine, e infine, di mezzi di comunicazione R.T. tra nave e nave”. In riferimento ad Addis Abeba ed Assab, Cocchia commenterà in un articolo del 1951 che erano due unità “di discreto tonnellaggio, ma dalle stive per noi inutili perché suddivise in celle frigorifere”.
La decisione di impiegare questi mezzi è stata presa in considerazione del fatto che navi di grande tonnellaggio, oltre ad essere più vulnerabili, dovrebbero fermarsi al largo della costa e trasbordare truppe e materiali sulle imbarcazioni per effettuare lo sbarco; pertanto si è preferito utilizzare navicelle in grado di portarsi direttamente all’incaglio sulla spiaggia, onde sbarcare più rapidamente truppe e mezzi corazzati. Cocchia ha tentato senza successo di ottenere anche altre navi da aggregare al convoglio: il grosso motoveliero
La decisione di impiegare questi mezzi è stata presa in considerazione del fatto che navi di grande tonnellaggio, oltre ad essere più vulnerabili, dovrebbero fermarsi al largo della costa e trasbordare truppe e materiali sulle imbarcazioni per effettuare lo sbarco; pertanto si è preferito utilizzare navicelle in grado di portarsi direttamente all’incaglio sulla spiaggia, onde sbarcare più rapidamente truppe e mezzi corazzati. Cocchia ha tentato senza successo di ottenere anche altre navi da aggregare al convoglio: il grosso motoveliero Nettuno, di cui era previsto l’arrivo dal Pireo e che invece non arriva; il piroscafetto Apuania, adibito ai traffici tra le isole e che gli viene negato perché non si vuole rischiare di perderlo; il versatile posamine Legnano, dotato di buoni apparati radio e che Cocchia vorrebbe come nave capo convoglio, negato perché a disposizione del governatore ed anche in questo caso per non rischiare di perderlo; la vecchia cannoniera Sebastiano Caboto, negata perché non si vuole che in caso di perdita i britannici possano rivendicare l’affondamento di una nave da guerra (Cocchia commenterà in proposito nelle sue memorie: “Come si vede, la fiducia nel successo della spedizione non era molto grande nelle alte sfere egee...”).
Le unità prescelte sono state racimolate e concentrate a Rodi in sole quarantott’ore – questo il tempo intercorso tra la decisione di agire e l’ora fissata per la partenza del convoglio – dal locale Comando della Zona Militare Marittima; ad ognuna di esse è stato assegnato un ufficiale di Marina (in gran parte provenienti dal presidio di Lero) come comandante militare. L’unità più “grande” è il Tarquinia, di 749 tsl; la più piccola il Plutone, di 50 tsl.
La scorta di questa bizzarra flottiglia d’invasione è costituita dal cacciatorpediniere Francesco Crispi (caposcorta, capitano di fregata Ugo Ferruta), dalle torpediniere Lince, Libra e Lira e dai MAS 520, 523, 536, 540, 542 e 546: ossia da tutte le siluranti disponibili in quel momento nel Dodecaneso (altre due, il cacciatorpediniere Quintino Sella e la torpediniera Lupo, sono indisponibili perché danneggiate).
Data la scarsa efficienza delle unità di scorta, e ritenendo che il rischio di un attacco navale britannico sia maggiore nelle ore notturne, è stato deciso che la navigazione del convoglio da Rodi a Sitia dovrà avvenire in modo da attraversare il Canale di Caso di giorno, in modo da fruire della protezione dell’Aeronautica dell’Egeo e della Luftwaffe, con arrivo previsto a Sitia per le 16 del 28 maggio, dopo 137 miglia di navigazione (seguendo una rotta diretta il tragitto sarebbe di 122 miglia, ma l’ammiraglio Biancheri, in considerazione delle condizioni dei natanti, ha ritenuto più opportuno far costeggiare al convoglio le isole di Caso e Scarpanto per tutta la loro lunghezza e puntare su Capo Sidero soltanto all’ultimo momento, a costo di allungare il percorso di 15 miglia, in modo da dare a navi e uomini maggiori possibilità di salvarsi raggiungendo la vicina costa in caso d’incontro con forze navali nemiche). Le navi devono quindi costeggiare Rodi, Scarpanto, Caso e poi la costa nordorientale di Creta fino a Sitia.
La scelta di sbarcare le truppe all’estremità orientale di Creta (la più vicina al Dodecaneso), benché la battaglia si stia svolgendo nella parte occidentale, è dovuta alla necessità di ridurre al minimo la lunghezza della navigazione, data la scarsa adeguatezza dei mezzi scelti ad una lunga navigazione con truppe a bordo. I motopescherecci ed i cisternini, dotati di minor pescaggio, sono stati muniti di passerelle di sbarco con le quali sbarcare le truppe a riva dopo essere state mandate ad incagliare in spiaggia (poste sulla prua, si riveleranno di scarsa utilità, perché le navi nel portarsi all’incaglio non riusciranno ad avvicinarsi alla battigia a sufficienza da poterlo usare, avendo comunque un pescaggio eccessivo), ed in generale le navi sono state adattate alla meglio per la bisogna; i soldati sono sistemati dove c’è spazio in coperta (si confida nel bel tempo e nella brevità della navigazione), con i salvagente indosso, senza adeguati servizi igienici.
Il 26 maggio truppe e mezzi del convoglio sono pronti, mancano solo le siluranti incaricate di scortarlo, trattenute al Pireo fino al giorno seguente: di queste ventiquattr’ore approfitta il capitano di vascello Cocchia per condurre personalmente una ricognizione aerea su Creta (con un idrovolante CANT Z. 506, scortato da due aerei da caccia), nel corso della quale sceglie la spiaggia sulla quale effettuare lo sbarco.
Il 27 maggio, quando tutto è finalmente pronto, Cocchia raduna i comandanti civili e militari delle unità del convoglio e spiega loro come intende condurre la navigazione e lo sbarco, e distribuisce loro un particolareggiato ordine d’operazione corredato anche da grafici di marcia e di spiegamento. Poi, alle sei del mattino (per altra fonte, alle 11) hanno inizio le operazioni d’imbarco di uomini, mezzi e materiali, che richiedono più tempo del previsto – si fatica non poco a stipare tanti uomini e materiali su navi così piccole – e si concludono alle 18 (Cocchia avrebbe voluto partire poco dopo mezzogiorno). Cocchia descriverà così le operazioni nelle sue memorie: “Confesso che, quando sulle banchine del porto di Rodi, vidi accatastarsi montagne di viveri, munizioni, foraggi, e giungere in serie, che sembrava interminabile, muli e soldati, ebbi un momento di sconforto e grave perplessità, convinto che mai e poi mai saremmo riusciti a convincere le 15 striminzite navicelle del convoglio ad accogliere tutta quella roba. Ma i fianchi delle suddette navicelle erano senza dubbio elastici e accettarono, sia pure con un po’ di riluttanza, tutto ciò che volemmo far loro ingurgitare. Naturalmente le stive ne risultarono sovraccariche, una certa parte di materiali dovemmo lasciarla in coperta, gli uomini ebbero giusto lo spazio per restarsene seduti, fermi, immobili, i muli furono stipati gli uni addosso agli altri come le classiche acciughe. Non furono conciati con sale, ma quello ce lo fornì abbondante il mare nel corso della notte. Fu tutt’altro che facile persuadere i muli a prendere imbarco sulle navi. Si fece ricorso ai mezzi più disparati: alla maniera forte, come alla dolcezza, agli allettamenti costituiti dalla classica carota, come alla persuasione rappresentata da un nodoso randello, ma per alcuni di essi tutto fu vano: al ponte delle navi preferirono le acque del porto. Dove fu possibile si adoperarono gli alberi di carico dopo aver ottenuto, mercé sapiente opera diplomatica, le cinture ad hoc dal capo dei servizi logistici che di tali cinture era il dispotico arbitro; ma dove alberi di carico non c’erano, i muli dovettero essere trainati e spinti sulle plancette d’imbarco a forza di braccia”.
Le prime navi sono pronte già verso le 17, ed essendo anche le più lente (sono i motopescherecci, seguiti dai cisternini), Cocchia inizia a farle uscire subito avviandole verso sudovest, verso Scarpanto; le altre salpano via via che completano il caricamento e sono pronte. Il capoconvoglio ha dato l’ordine di farsi trovare alle cinque dell’indomani mattina presso l’isola di Saria, vicino a Scarpanto (orario inverosimile, per stessa ammissione di Cocchia, che lo fissa soprattutto per spronare i comandanti dipendenti a correre il più possibile nonostante il mare mosso e le difficoltà). Le navi in partenza sono salutate dagli evviva entusiastici dei marinai del porto, da tanti civili che affollano le banchine e dell’ammiraglio Biancheri, venuto ad assistere alla partenza. Ultimo a partire, dovendo completare un carico particolarmente abbondante, è il Porto di Roma, che riuscirà a recuperare il ritardo grazie alla sua relativamente buona velocità.
Nel primo tratto la navigazione avviene senza scorta (eccetto che per i MAS 536 e 542, presi a rimorchio dall’Orsini per risparmiare carburante, e che saranno “liberati” all’alba per difendere il convoglio da eventuali attacchi; gli altri MAS si uniranno al convoglio nel pomeriggio del 28, dopo un agguato nel Canale di Caso che dovranno lasciare a causa delle avverse condizioni del mare), l’incontro con le siluranti deputate a questo ruolo è previsto per l’indomani all’alba.
Il tempo è buono, sebbene soffi un vento di maestrale piuttosto teso che solleva delle onde piccole ma sufficienti a creare problemi alle navicelle che compongono la formazione; il convoglio procede con grande lentezza, e per omogeneizzare ed aumentare la velocità (che va dagli 11 nodi di Orsini e Giampaolo ai 5 nodi dei cisternini, passando per gli 8 del Porto di Roma ed i 6 dei motopescherecci), oltre che per evitare un’eccessiva dispersione del convoglio, le unità più lente vengono prese a rimorchio da quelle più veloci. Anche le imbarcazioni da usare per mettere a terra le truppe all’arrivo, motobarche e battelli, sono prese a rimorchio dalle navi del convoglietto, non essendovi a bordo di esse spazio sufficiente per sistemarvele, né mezzi per issarle a bordo od ammainarle: si vengono così a creare curiosi rimorchi multipli nei quali una nave più veloce ne rimorchia una più lenta, che a sua volta rimorchia una motobarca, che rimorchia un battello (scrive Cocchia con una certa ironia: “dal punto di vista nautico un vero orrore, siamo d’accordo”).
Durante la notte tra il 27 ed il 28 i vari “sottogruppi” del convoglio navigano sostanzialmente ognuno per conto proprio, tutti a circa 5-6 nodi di velocità; di più non è possibile, per via dei rimorchi. Nessuno vede gli altri nell’oscurità, ed il capoconvoglio passa la notte nell’angoscia di non ritrovare le navicelle l’indomani mattina.
28 maggio 1941
All’alba, al largo dell’isola di Saria (estremità settentrionale di Scarpanto, vicino all’imbocco del Canale di Caso), Cocchia sguinzaglia i due MAS e li usa per radunare le unità del convoglio e disporle in formazione a triplice colonna. Così Cocchia descrive il momento della riunione: “...attesi l’alba con innegabile batticuore. Al primo schiarire dell’atmosfera scrutai il mare con comprensibile ansia e devo confessare che mi sentii veramente male quando constatai che entro i 4-5000 metri circa di visibilità che avevo non si scorgeva neppure l’ombra di una delle mie barche, quasi nel corso della notte il convoglio si fosse volatilizzato. Bel successo! Mollai subito i MAS che avevo a rimorchio per sguinzagliarli alla ricerca dei dispersi, ma, prima che i loro motori fossero partiti, dalla bruma mattinale cominciarono ad emergere, sparsi qua e là per il vasto mare, i piccoli scafi della spedizione. Ce n’erano ovunque intorno a noi, avanti, indietro, sui due lati, sparpagliati su una superficie di alcune miglia. L’Orsini era praticamente al centro dell’insieme, il Porto di Roma, ultimo partito, era il più avanti di tutti, i gazolini arrancavano buoni ultimi, il fanale di coda era tenuto dal rimorchiatore Impero. Contai le unità: c’erano tutt’e 15 con i rimorchi a posto, con le motobarche e i battelli ancora saldamente vincolati alle navi maggiori, un po’ bianche di sale, ma perfettamente in ordine (…) Unica cosa che non procedeva come avrebbe dovuto era la rotta che tenevano le navi che precedevano l’Orsini. Queste, Porto di Roma in testa, dirigevano con ammirevole uniformità di intenti, per passare a levante di Scarpanto mentre Creta restava a ponente… Mi furono utilissimi i MAS che, facendo da cani pastore, racimolarono il gregge intorno all’Orsini. Ci volle un po’ di tempo perché fosse costituito un simulacro di formazione col convoglio su tre colonne e perché le ultime navicelle si avvicinassero un po’ al grosso”.
Sempre all’alba
Sempre all’alba Crispi, Libra, Lince e Lira raggiungono il convoglio, passando quindi alle dirette dipendenze del capitano di vascello Cocchia; la notte precedente l’hanno trascorsa incrociando nel Canale di Scarpanto, insieme alla torpediniera Aldebaran.
Dall’alba gli aerei dell’Aeronautica dell’Egeo conducono meticolose ricognizioni a nord ed a sud di Creta, fino al Canale di Caso, a Suez e ad Alessandria, per localizzare in tempo eventuali forze navali nemiche dirette contro il convoglio; in tutto vengono impiegati ben quattordici aerosiluranti Savoia Marchetti S.M. 79 “Sparviero”, due S. 84 e due CANT Z. 1007 bis del 41°, 50° e 92° Gruppo. Al contempo, 23 caccia italiani FIAT CR. 42 e caccia tedeschi Messerschmitt Bf 110 dello ZG. 26, partendo dalle basi di Rodi e Scarpanto, vigilano sul convoglio (e successivamente sull’area dello sbarco), mentre tutti i rimanenti aerei del Dodecaneso – caccia, bombardieri ed aerosiluranti – sono tenuti pronti nelle basi a decollare su allarme.
Una volta riordinata la formazione ed iniziata la navigazione verso Creta, Cocchia constata di essere in ritardo sulla tabella di marcia (causa sia il ritardo nella partenza, che la bassa velocità tenuta durante la notte). La velocità del convoglio, grazie al miglioramento dello stato del mare, è salita a 7-7,5 nodi, ma Cocchia intende portarla ad otto per raggiungere Creta prima di incappare in una forza britannica di tre incrociatori e sei cacciatorpediniere – segnalata alle 13.10 dalla ricognizione aerea, in navigazione lungo la costa settentrionale di Creta e diretta a tutta forza verso nordovest, ossia verso il Canale di Caso (per altra versione, alle 12.37 secondo la ricognizione si trovava 145 miglia a sudest di Scarpanto) – che entro le 17 potrebbe raggiungere la formazione italiana davanti a Sitia: si tratta della Forza B britannica, al comando dell’ammiraglio Henry Bernard Hughes Rawlings e composta dagli incrociatori leggeri Ajax, Orion e Dido e dai cacciatorpediniere Jackal, Imperial, Havock, Hotspur, Hereward, Decoy e Kimberley, proveniente da Alessandria e diretta ad Heraklion per imbarcare truppe britanniche da evacuare.
Per accorciare la rotta, essendo il convoglio in ritardo (seguendo le rotte costiere prescritte da Mariegeo si giungerebbe a Sitia non prima del tramonto), il capitano di vascello Cocchia decide di tagliare rispetto a quella prevista, evitando di costeggiare Caso e Scarpanto e facendo rotta diretta da Saria a Sitia alla massima velocità possibile (cioè, appunto, otto nodi), riducendo così la lunghezza del percorso da 137 a 122 miglia e risparmiando due ore, il che consentirebbe al convoglio di giungere a Sitia alle 17. Per accelerare ancora un po’ Cocchia ordina alla Lince di prendere a rimorchio l'Impero, nave più lenta del convoglio, ed al Tarquinia di fare lo stesso con uno dei motopescherecci, rimasto particolarmente arretrato. Mentre il Tarquinia esegue puntualmente l’ordine, la Lince non sembra comprendere e si allontana.
Mancando la maggior parte delle unità da sbarco di apparecchiature radio (motopescherecci, cisternini, Giampaolo: altri invece hanno la sola stazione radio ad onde medie, mentre solo Tarquinia, Porto di Roma ed Orsini dispongono di radio ad onde medie e radiosegnalatore), i MAS fungono da collegamento, portando gli ordini da un’unità all’altra della bizzarra flottiglia. Qualcuna delle imbarcazioni più lente (a partire dall'Impero), rimaste in posizione arretrata, devia verso l’isola di Caso; raggiungeranno Creta l’indomani. I velivoli della scorta aerea pattugliano il cielo del convoglio.
Alle 14 il Crispi viene distaccato con il compito di precedere il convoglio e distruggere a cannonate il faro e la stazione di Capo Sidero, per evitare che possano dare l’allarme; alle 15.45 dello stesso 28, quando il convoglio è giunto in vista di Capo Sidero e della baia di Sitia, Libra, Lince e Lira vengono richiamate per ordine superiore per essere destinate ad un nuovo incarico, lasciando così il convoglio con la scorta del solo Crispi, che è intanto di ritorno dalla sua missione, e dei MAS. Da intercettazioni radio Cocchia viene intanto a sapere che reparti aerei italo-tedeschi stanno sottoponendo la formazione navale britannica a pesanti attacchi.
Alle 16 il convoglio passa al largo delle rovine del faro di Capo Sidero, ed il capoconvoglio Cocchia ordina un ultimo aumento di velocità mentre diviene visibile la baia di Sitia; alle 16.15 la formazione entra nella baia ed alle 16.45 Cocchia ordina al convoglio di aprirsi a ventaglio e le navicelle lo eseguono, mollano i rimorchi e si dirigono verso la spiaggia, mentre il Crispi prende posizione per cannoneggiare con le sue artiglierie gli eventuali focolai di resistenza (non sarà necessario). Alle 16.50 Cocchia ordina alle navicelle di portarsi ad incagliare; dieci minuti dopo Orsini, Tarquinia, Assab, Aguglia, Porto di Roma, Sant'Antonio e Navigatore vanno ad incagliarsi in spiaggia, mentre il Giampaolo si ormeggia all’unico pontiletto in legno. Anche le altre unità del convoglio raggiungono poi la spiaggia, mentre i MAS si dispongono in agguato all’imboccatura della baia; ultime a giungere sono Plutone e G.S. 170, rimorchiate da Assab ed Addis Abeba.
Lo sbarco avviene senza incidenti e senza contrasto; per primi giungono a terra i marinai delle compagnie da sbarco (al comando del tenente di vascello Cruciani) ed i carri armati, che scendono dal Porto di Roma in un paio di minuti ed occupano subito i capisaldi prestabiliti, poi le altre truppe dell’Esercito, usando le imbarcazioni e, sui motopescherecci, delle specie di “rostri” realizzati appositamente per agevolare lo sbarco di truppe. I motopescherecci fanno la spola tra le navi più grandi, incagliatesi a maggior distanza dalla riva, ed il pontile, traghettandovi truppe e materiali; i marinai delle compagnie da sbarco realizzano rapidamente dei pontiletti “volanti” per agevolare l’operazione.
Il colonnello Caffaro ed il suo stato maggiore scendono a terra con le prime truppe ed organizzano rapidamente la testa di sbarco.
Alle 17.20 le truppe sono tutte sbarcate (i muli vengono gettati in mare e raggiungono la riva a nuoto, mentre le operazioni di sbarco del materiale, effettuate dai marinai di Cocchia, proseguiranno per tutta la notte, concludendosi quattordici ore dopo); i marinai del sottotenente di vascello Cruciani entrano per primi a Sitia occupando i locali del telefono e del telegrafo, seguiti dalle truppe dell’Esercito che completano l’occupazione del villaggio (che appare disabitato, perché l’intera popolazione è fuggita sulle montagne quando ha visto le navi in arrivo), per poi dirigere verso la cresta delle colline che dominano la baia e la strada per Iraklion. La guarnigione greca, composta da circa 200 soldati armati di armi automatiche, oppone una debole resistenza e viene facilmente sbaragliata con l’appoggio dei carri L della 3a Compagnia del CCCXII Battaglione, che irraggiatisi a ventaglio dopo lo sbarco raggiungono e neutralizzano i nidi di mitragliatrici che fanno fuoco sulle truppe italiane. Vengono così catturati un centinaio di prigionieri, insieme a parecchio materiale. A questo punto il Crispi, non essendo più necessario, viene lasciato libero da Cocchia.
I carri L3 vengono poi mandati in avanscoperta verso ovest, mentre il grosso delle truppe si raggruppa a nordovest del paese.
Le navi britanniche segnalate dai ricognitori saranno attaccate dalla Luftwaffe nel Canale di Caso verso le 18, due ore dopo il transito del convoglio italiano che è così scampato di stretta misura a sicura distruzione. Cocchia ed i marinai, dalla baia di Sitia, osservano il fuoco contraereo delle navi britanniche, scena così descritta da Cocchia: “Lo spettacolo a cui assistiamo è incredibile, emozionante. Le navi sono invisibili a noi, come noi ad esse, ma nel cielo limpidissimo è tutto uno scoppiare di granate, è una barriera di fuoco, è un intersecarsi di traccianti. Tonfi di bombe che esplodono, rombo di cannonate, crepitio di mitragliere. In tutto due o tre minuti”.
Lo scarico dei materiali dalle navi continua durante la notte, sempre più faticoso per la crescente stanchezza degli uomini e per le avarie che immobilizzano le motobarche. Sempre dalle memorie di Aldo Cocchia: “A sbarcare gli infernali muli si fece molto presto. Si gettarono in mare, e loro buoni buoni raggiunsero a nuoto la spiaggia dove erano attesi dagli uomini ad essi preposti. (…) qualche nave la lasciai piena e la mandai lontana da noi nelle anfrattuosità della costa, concentrai tutti i mezzi disponibili sulle altre. I marinai erano esausti dalla fatica, lavoravano per pura forza di volontà, sotto l’assillo del nemico che poteva sopraggiungere da un momento all’altro, in condizioni difficilissime per l’oscurità, in mancanza di imbarcazioni speciali, di pontili, di banchine. Le imbarcazioni si arenavano sulla spiaggia, uomini nell’acqua a mezza gamba, le scaricavano, si passavano le cassette di mano in mano per portarle lontane dal mare”.
29 maggio 1941
All’una di notte alcune navi britanniche entrano nella baia ed iniziano a cannoneggiare la costa, battendo sistematicamente la spiaggia e sparando proiettili illuminanti che illuminano tutta la metà orientale della baia; interrompono però il tiro appena un chilometro prima di raggiungere la spiaggia dov’è in corso lo sbarco dei materiali, e si ritirano senza aver causato alcun danno (sempre dalle memorie di Aldo Cocchia: “…cominciarono col battere l’estrema punta, poi vennero in giù sparando sistematicamente contro tutta la costa e illuminando con scrupolo ogni roccia, ogni scoglio come se cercassero qualcuno o qualcosa. Il fenomeno era piuttosto disgustoso e diveniva sempre più disgustoso man mano che l’azione nemica si avvicinava (…) perché non c’era dubbio che se la luminaria fosse giunta alla spiaggia non avrebbe potuto non scoprire le navicelle incagliate, le cataste di cassette accumulate sulla riva del mare, le imbarcazioni, il traffico, e allora… Ma la nostra spedizione era nata sotto una buona stella; gli illuminanti si distesero lungo tutta la costa di levante della baia (…) rischiarandola a giorno, giunsero ad illuminare la costa fino ad un punto situato ad un migliaio di metri dall’inizio della spiaggia da noi occupata, poi bruscamente si spensero e gli inglesi se ne andarono. Fummo loro molto grati della delicata attenzione”).
Aguglia e Porto di Roma sono le prime navi a ripartire per Rodi, avendo scaricato tutti i materiali; all’alba anche le rimanenti unità sono quasi tutte pronte a partire, e mentre si apprestano a lasciare Sitia – sono le cinque del mattino – assistono ad un nuovo attacco di bombardieri in picchiata Junkers Ju 87 “Stuka” contro delle navi non visibili dietro Capo Sidero.
Qualche ora dopo, ritenendo che ormai il pericolo di attacchi navali britannici sia scomparso, Cocchia fa ripartire per Rodi tutte le navicelle rimaste, tranne due motopescherecci ed una cisternina, che trattiene a Sitia. Cocchia, con le due compagnie di marinai alle sue dipendenze, allestisce a Sitia una prima base logistica per la raccolta e lo smistamento dei rifornimenti che giungeranno da Rodi per alimentare il corpo di spedizione. Non arrivando molto altro da Rodi, l’attività per Cocchia ed i suoi uomini consisterà più che altro nell’immagazzinamento dei materiali arrivati con il convoglio in locali requisiti, e nel loro invio alle truppe dell’Esercito che, mancando autocarri, sarà effettuato con i motopescherecci, che seguiranno lungo la costa l’avanzata della colonna e gli recapiteranno i rifornimenti durante le soste serali, in qualche insenatura. Con gli ufficiali delle compagnie da sbarco ed altri sbarcati dalle navicelle del convoglio, Cocchia forma un embrionale Comando Marina di Creta.
Le truppe del colonnello Caffaro inizieranno la loro avanzata verso l’interno a mezzogiorno, puntando verso Ierapetra, cittadina situata all’estremità meridionale di Creta, un centinaio di km a sudovest di Sitia: a Chamairi incappano in un pattuglione greco che catturano subendo per contro due morti tra le proprie fila, dopo di che non viene incontrata ulteriore resistenza all’infuori di qualche sporadica scaramuccia con i partigiani, facilmente respinti. L’avanzata avviene su due colonne, precedute dalla compagnia carri L e dalle automobili con a bordo nuclei armati di mitra; la sera del 29 maggio i carri L3 (maggiore Alessandro Ruta) entrano ed Exo Mouliana ed alle sette di sera del 30, dopo aver marciato per 60 km in due giorni su strade malmesse e sotto il sole cocente (il colonnello Caffaro ha ordinato di proseguire l’avanzata anche con il buio, fino al raggiungimento dell’obiettivo), incontrano il primo reparto tedesco (55a Sezione Motociclisti) al bivio di Ierapetra, dove le truppe italiane entreranno il giorno seguente, ponendosi a disposizione del comandante della 5. Gebirgsdivision tedesca, generale Julius Ringel. L’incontro avviene, secondo i resoconti dell’epoca, con “cordialità e cameratismo”; il comandante del reparto tedesco è sorpreso dalla presenza di truppe italiane nella zona.
30 maggio 1941
Il piroscafo bulgaro Knyaguinya Maria Luisa (erroneamente identificato da alcune fonti come il francese Marie Louise Le Borgne), carico di benzina, bombe d’aereo e 6000 tonnellate di munizioni, s’incendia alle 7.30 (6.30 per altra versione) nel porto del Pireo in seguito a sabotaggio da parte di partigiani greci; per mezz’ora l’equipaggio, insieme a pompieri e lavoratori portuali, tenta senza successo di arginare le fiamme, ma quando diviene evidente che ciò non è possibile il comandante del Knyaguinya Maria Luisa, capitano Ivan Tomov, fa sbarcare tutto il personale non indispensabile (rimangono a bordo in sette: oltre a lui, il primo ufficiale di coperta, il primo ufficiale di macchina, due motoristi, l’ufficiale radio ed un aiuto cuoco) e tenta di farlo rimorchiare fuori dal porto per limitare i danni in caso di sua esplosione. Questa, tuttavia, avviene prima che la nave sia stata trainata fuori, con effetti catastrofici sulle navi ormeggiate nei pressi: il piroscafo romeno Juil s’incendia ed affonda subito, ed alle 8.30 il motoveliero italiano Albatros, carico di benzina ed esplosivi, esplode a sua volta investendo il piroscafo tedesco Alicante, che viene devastato da numerose esplosioni per poi capovolgersi ed affondare alle 17. La nave ospedale italiana Gradisca, che si trova poggiata su un bassofondale accanto ad un molo per l’allagamento di alcuni compartimenti provocato dall’urto contro un relitto sommerso tre giorni prima, subisce seri danni. In tutto, i morti sono circa 200, compresi il capitano Tomov e gli altri sei uomini rimasti a bordo del Knyaguinya Maria Luisa.
Sorprendentemente i quattro rimorchiatori greci che erano impegnati nel tentativo di rimorchiare il Knyaguinya Maria Luisa fuori dal porto, Mara, Zoodochos Pigi, Aghios Dimitrios ed Aghios Nikolaos, lamentano soltanto due vittime, anche se uno di essi rimane seriamente danneggiato.
Secondo alcuni siti Internet, anche l'Addis Abeba sarebbe rimasto danneggiato in questo disastro, venendo colpito ed incendiato da rottami in fiamme del Knyaguinya Maria Luisa lanciati a bordo dall’esplosione.
6 giugno 1941
L'Addis Abeba attraversa il canale di Corinto, diretto a Taranto.
7 giugno 1941
Addis Abeba ed Assab lasciano Patrasso diretti a Taranto, con la scorta dell’incrociatore ausiliario Arborea.
27 giugno 1941
L'Addis Abeba ed il gemello Ascianghi trasportano materiali vari da Bari a Valona, navigando senza scorta.
9 agosto 1941
L'Addis Abeba compie un viaggio da Porto Edda a Brindisi, navigando da solo e senza scorta.
8 ottobre 1941
L'Addis Abeba compie un viaggio da Valona a Rodi, via Corfù, navigando da solo e senza scorta.
13 ottobre 1941
Compie un viaggio dal Pireo a Rodi, di nuovo in navigazione isolata.
24 agosto 1942
L'Addis Abeba compie un viaggio dal Pireo a Suda, in convoglio con i piroscafi Orsolina Bottiglieri e Corso Fougier e con la scorta della torpediniera Monzambano.
16 febbraio 1943
L'Addis Abeba compie un viaggio da Iraklion a Lero, scortato dalla nave scorta ausiliaria F 79 Morrhua (anch’essa un piropeschereccio, requisito ed armato).
25 aprile 1943
L'Addis Abeba compie un viaggio da Iraklion al Pireo, scortato da un cacciasommergibili tedesco.
21 giugno 1943
Altro viaggio da Iraklion al Pireo, stavolta senza scorta.
6 luglio 1943
Compie un viaggio da Valona a Bari, navigando da solo e privo di scorta.
Settembre 1943
In seguito all’armistizio tra l’Italia e gli Alleati ed all’occupazione tedesca dell’Italia, l'Addis Abeba rimane in territorio sotto controllo tedesco.
6 dicembre 1943
Affidato in gestione alla Mittelmeer-Reederei GmbH di Amburgo, la compagnia parastatale tedesca incaricata della gestione del naviglio mercantile tedesco in Mediterraneo.
Adibita ai collegamenti tra Venezia e Grado e tra Venezia e Ravenna, continuerà a navigare con equipaggio italiano, ma con a bordo un piccolo nucleo di militari tedeschi, incaricati sia della difesa contraerea che della sorveglianza dello stesso equipaggio italiano.
Luglio-Agosto 1944
L'equipaggio italiano dell'Addis Abeba, approfittando dei viaggi in direzione di Ravenna, tenta di cogliere un’occasione per raggiungere l’Italia centro-meridionale sotto il controllo degli Alleati: durante un viaggio per Porto Corsini il primo ufficiale di macchina Gaetano D'Arrigo, d’accordo con il comandante Armando Sette, fa procedere la nave a velocità superiore a quella prevista; ma tra Rimini ed Ancona i militari tedeschi addetti alla contraerea si accorgono che la nave sta seguendo una rotta anomala, e l’equipaggio è costretto a fingere di aver sbagliato rotta ed a tornare indietro.
Fallito questo tentativo, il primo ufficiale di macchina D'Arrigo sabota ripetutamente le macchine dell'Addis Abeba, provocando piccole avarie che costringono la nave a recarsi per ben tre volte nell’arco di un mese presso i Cantieri Navali Officine Meccaniche della Giudecca per le riparazioni, rimanendovi in un’occasione per 15 giorni.
Nello stesso periodo il direttore di macchina Mario Trapani, napoletano, ed il caporale di macchina Vincenzo Scivoli, veneziano, vengono accusati dal locale comando tedesco di tentato furto di nafta, ma sono salvati dall’intervento del primo ufficiale di macchina D'Arrigo, che fa valere presso i tedeschi la sua autorità di ufficiale della nave.
L'affondamento
Alle 21.20 del 24 agosto 1944 l'Addis Abeba, al comando del capitano veneziano Armando Sette, salpò da Venezia diretto a Trieste, dove non arrivò mai. All'1.45 del 25 agosto, infatti, il piropeschereccio venne scosso da un’esplosione subacquea ed affondò rapidamente ad ovest di Grado.
I pescherecci di Caorle e la motosilurante tedesca S 156 recuperarono la maggior parte dei naufraghi, compresi il comandante Sette, il comandante tedesco del personale addetto alla contraerea e l’addetto alla supervisione del carico, mentre un militare tedesco addetto all’armamento contraereo rimase in acqua per trenta ore prima di essere raccolto alle 7.30 del 26 agosto, insieme ad un cadavere, dalla motosilurante tedesca S 629 (uscita da Grado in missione di soccorso alle cinque di quel mattino) in posizione 45°34' N e 12°58' E, al largo di Grado. Ulteriori ricerche vennero interrotte per mancanza di luce.
Il primo ufficiale di macchina Gaetano D'Arrigo ed il fuochista roveretano Giuseppe Robol tentarono di raggiungere la costa a nuoto: con indosso i salvagente, nuotarono per tutta la notte tra il 24 ed il 25, il giorno successivo, la notte tra il 25 ed il 26 ed ancora il giorno e la notte seguenti, fino a giungere in prossimità della costa nelle prime ore del 27 agosto. Qui si divisero: Robol si diresse a nuoto verso la riva, che riuscì a raggiungere, mentre D'Arrigo, esausto dopo due giorni passati in acqua, si lasciò trasportare dalla corrente verso il faro di Caorle, dove incontrò morte assurda. Arrivato ormai a pochi metri da terra, venne avvistato da una pattuglia tedesca, che aprì il fuoco contro di lui con i mitra: colpito da una pallottola alla testa, rimase ucciso sul colpo. I soldati non tentarono nemmeno di recuperarne il cadavere, che venne depositato dal mare sulla spiaggia di Pellestrina il 29 agosto. Qui le autorità locali ne constatarono il decesso; la famiglia Sardi di Venezia, che aveva dato ospitalità a D'Arrigo (nativo di Catania e rimasto senza una casa dall’occupazione angloamericana della Sicilia un anno prima) stringendo con lui un rapporto di amicizia, non appena fu informata fece recuperare la salma, che fu sepolta nel cimitero di Venezia.
Vale la pena di soffermarsi sulle vicende che portarono Gaetano D'Arrigo sull'Addis Abeba e dunque alla sua tragica fine, emblematiche delle traversie attraversate da tanti italiani nel triste periodo 1943-1945. Nell’estate del 1943, il ventenne D'Arrigo era aspirante sottotenente del Genio Navale; all’epoca dello sbarco in Sicilia si trovava nella natia Catania, in licenza d’attesa di nomina, ed a differenza di tanti colleghi che avevano preferito restarsene a casa, tenendo un basso profilo ed aspettando che passasse la tempesta, aveva lasciato la casa ed insieme ad un altro aspirante guardiamarina aveva raggiunto la sua base, «come la propria dignità di Ufficiale gli suggeriva». Il 29 luglio aveva lasciato la Sicilia – non vi avrebbe mai più fatto ritorno – per raggiungere l’Accademia Navale a Livorno; da qui fu mandato alla Scuola Sommergibilisti di Pola, dove fu sorpreso dalla notizia dell’armistizio. Insieme agli altri ufficiali della Scuola Sommergibilisti s’imbarcò sul piroscafo Eridania, diretto verso sud, ma la nave fu intercettata da aerei tedeschi che la costrinsero ad invertire la rotta e raggiungere Fiume; approfittando della confusione di un attacco aereo, D'Arrigo ed un suo collega riuscirono a fuggire e nascondersi presso una famiglia del luogo, ma dopo pochi giorni furono scoperti e catturati dai tedeschi, che li mandarono in un campo di prigionia vicino a Brema. Qui, nel gennaio 1944, decise di aderire formalmente alla Repubblica Sociale Italiana per sottrarsi alle dure condizioni di prigionia – gli ufficiali italiani, cui non era riconosciuto lo status di prigionieri di guerra bensì di “internati militari”, pativano fame, freddo, sporcizia e maltrattamenti – ed aver modo di tornare in Italia; dopo un lungo e tortuoso viaggio attraverso la Germania e la Polonia, fece finalmente ritorno in Italia nel giugno 1944, arrivando a Venezia. Qui rifiutò di prestare giuramento alla RSI ed andare a combattere i partigiani; per qualche tempo si rese irreperibile nascondendosi presso una famiglia di Venezia (i Sardi, gli stessi che poi si attivarono per la sepoltura del suo corpo), ma per evitare la cattura con probabile deportazione se non esecuzione, ed al contempo non dover combattere per tedeschi e fascisti, accettò infine – il 22 luglio 1944, appena un mese prima dell’affondamento – di imbarcare sull'Addis Abeba da civile, come primo ufficiale di macchina, sempre sperando di poter cogliere un’occasione per raggiungere l’Italia libera.
Fallito
il tentativo di raggiungere il sud qualche settimana prima
dell’affondamento, menzionato più sopra, D'Arrigo progettava al
ritorno da quell’ultimo viaggio verso Trieste, d’accordo con il
comandante Sette che era in contatto con la Resistenza, di sabotare
la nave e darsi alla macchia, per unirsi ai partigiani od
attraversare le linee.
Trovò, invece, tragica fine nelle acque dell’Adriatico.
Trovò, invece, tragica fine nelle acque dell’Adriatico.
Compreso lo sfortunato D'Arrigo, l’affondamento dell'Addis Abeba costò la vita a quattro persone:
Floris
Bellemo, marinaio, da Chioggia
Gaetano
D'Arrigo, primo ufficiale di macchina, da Catania
Ferdinando
Tonello, marinaio, da Chioggia
Aldo
Visentini, cuoco, da Venezia
Nei documenti dell’epoca esistono
alcune lievi discrepanze sull’ora dell’affondamento: secondo il
sopravvissuto Giuseppe Robel, l'Addis
Abeba affondò all'1.45 del
25 agosto, all’altezza di Grado; secondo il diario di guerra
(Kriegstagebuch, KTB) della 11. Sicherungsdivision della
Kriegsmarine, l’affondamento ebbe luogo alle 2.30 del 25 agosto,
mentre il KTB del Seekommandant West-Adria in data 25 agosto 1944,
ore 20, annota che secondo il rapporto inviato dall’avamposto di
Caorle della Wasserschutzpolizei
l’esplosione ed affondamento avvenne intorno alle due di notte.
Ma è soprattutto sulle cause della perdita dell'Addis Abeba che sembra esservi una certa confusione. L’impressione dei superstiti fu che la nave avesse urtato una mina magnetica, ma l’esatta provenienza dell’ordigno è controversa: il responsabile del Seekommandant West-Adria, dopo aver interrogato il comandante Sette, il comandante tedesco della contraerea di bordo e l’addetto alla supervisione del carico, ritenne che la nave (che secondo quanto riferito dall’avamposto della Wasserschutzpolizei di Caorle era affondata in prossimità del punto convenzionale 8 della rotta "Lerche" che portava a Trieste) fosse incappata accidentalmente in un campo minato difensivo tedesco, l’"AR 1", mentre il comando dell’11. Sicherungsdivision ipotizzò che si fosse trattato di un altro sbarramento situato più a nordovest, opinione non condivisa dal Seekommandant West-Adria. Il KTB del comandante navale tedesco in Adriatico (Admiral Adria) riporta in data 26 settembre 1944 che la posizione in cui la S 629 aveva recuperato il naufrago, 45°34' N e 12°58' E, era "lontana dai campi minati più vicini", e che la 11. Sicherungsdivision era stata incaricata di ispezionare la zona ed il relitto per fare luce sull’accaduto. Il comando della 11. Sicherungsdivision, da parte sua, notava che il naufrago raccolto dalla S 629 era rimasto in acqua per trenta ore, quindi la posizione del suo salvataggio poteva differire anche di molto da quella dell’affondamento, e non prese provvedimenti per la sospensione del traffico sulle rotte di sicurezza, ritenendo che l'Addis Abeba fosse finito per errore su un campo minato difensivo od avesse urtato una mina alla deriva.
Se da parte tedesca vi era incertezza sullo sbarramento cui apparteneva la mina che avrebbe affondato l'Addis Abeba, da parte britannica, addirittura, si accredita l’affondamento del piropeschereccio non ad una mina, ma a siluramento: Leonard Charles Reynolds e H. F. Cooper affermano in "Mediterranean MTBs at War: Short MTB Flotilla Operations 1939-1945" che nella notte del 25 agosto 1944 la motosilurante britannica MTB 373 del tenente di vascello australiano Leo Vincent Cruise, facente parte della 20th MTB Flotilla (costituita ad Algeri nel maggio 1943 con motosiluranti tipo Vosper di fabbricazione statunitense e più volte trasferita di base fino a giungere ad Ancona, da poco liberata, l’8 agosto 1944), attaccò con il lancio di due siluri un piroscafetto costiero di un migliaio di tonnellate tra Venezia e Trieste; una delle due armi andò a segno provocandone l’affondamento. La nave in questione è da altre fonti britanniche identificata come l'Addis Abeba.
Rimane quindi il dubbio: l'Addis Abeba fu veramente affondato da una mina, oppure fu silurato dalla MTB 373 e l’equipaggio, non avendo avvistata la scia del siluro e non essendosi accorto, nel buio della notte, della presenza della motosilurante, credette erroneamente che l’esplosione che affondò la nave fosse stata dovuta ad una mina? E nel primo caso, quale fu invece la nave realmente attaccata dalla MTB 373 (che potrebbe anche non averla realmente colpita, a differenza di quanto ritenuto a bordo)?
Per dare una risposta a questi quesiti, occorrerebbe conoscere maggiori dettagli sull’attacco della MTB 373, a partire dall’orario esatto.
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L'affondamento dell'Addis Abeba nel KTB della 11. Sicherungsdivision... |
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...in quello dell'Admiral Adria... |
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...ed in quello del Marinegruppenkommando Süd (g.c. Thorsten Reich, via Forum Marinearchiv) |
Libro registro del RINA del 1938
Lloyd's Register of Shipping 1941
Les remorqueurs de 1000 Cv.
Quattro motosiluranti ex inglesi ex americane
La partecipazione della Marina alla Guerra di Liberazione
Small ships sunk in the northern Adriatic Sea, 1944
La storia di Gaetano D'Arrigo
La spedizione di Creta in un articolo della “Rivista Marittima” dell’agosto-settembre 1951