Cacciatorpediniere, già esploratore,
della classe Navigatori (dislocamento standard 2125 tonnellate, 2760
in carico normale, 2880 a pieno carico).
Dai
gemelli il Da Recco,
progettato per il ruolo di conduttore di flottiglia e nave ammiraglia
del Gruppo esploratori, si distingueva per la tuga poppiera molto più
lunga ed ampia (per ospitare gli alloggi per un ammiraglio ed i
locali destinati al suo stato maggiore) e per la conseguente mancanza
delle ferroguide per il trasporto e la posa di mine, per le quali non
vi era spazio sufficiente proprio a causa della sovrastruttura più
voluminosa. Insieme all'Usodimare
fu inoltre l'unica unità della classe a non essere sottoposta ai
radicali lavori di modifica del 1939-1940, che videro l'allargamento
dello scafo e la realizzazione di una nuova prua “a clipper”,
mantenendo fino alla fine della sua carriera l'aspetto originale con
prora verticale.
Durante
il conflitto svolse 188 missioni di guerra, di cui 82 di scorta
convogli, 13 di posa mine (sempre e solo come unità di scorta delle
navi incaricate della posa, non avendo le ferroguide per trasportare
e posare quegli ordigni), 9 di caccia antisommergibili, 6 di
trasporto, 5 per ricerca del nemico, una di bombardamento contro
costa, 28 per esercitazione, 21 di trasferimento e 23 di altro tipo,
percorrendo 68.104 (o 68.318) miglia nautiche e trascorrendo 4566 ore
in mare e 333 giorni ai lavori. Dopo un iniziale periodo di attività
di squadra, fu intensamente impiegato dapprima nella posa di campi
minati (ma solo come unità di scorta) e poi nella scorta ai
convoglio per il Nordafrica: fu tra i protagonisti di quella tragica
epopea.
Il
suo motto era "Ardisci e vinci". Fu l'unica delle dodici
unità della sua classe a sopravvivere alla guerra.
Breve
e parziale cronologia.
14
dicembre 1927
Impostazione
presso i Cantieri Navali Riuniti di Ancona.
.jpg) |
Il Da Recco ed il gemello Emanuele Pessagno in costruzione in una foto scattata il 30 giugno 1929 (da www.war-book.ru) |
5
gennaio 1930
Varo
presso i Cantieri Navali Riuniti di Ancona.
Due
immagini del varo del Da Recco (sopra: dalla pagina Facebook
“Cacciatorpediniere classe Navigatori”; sotto: da
www.oplon.jimcdn.org)
Il
Da
Recco
in allestimento nella darsena cantieri di Ancona il 22 aprile 1930;
accanto è visibile l’incrociatore leggero Brindisi
(Archivio Luce, www.meludo.it,
Marcello Risolo e www.war-book.ru)
6
aprile 1930
Durante
le prove in mare, svolte nel tratto di mare tra Ancona e le Isole
Tremiti, il Da Recco
tocca i 41,504 nodi, stabilendo un primato mondiale di velocità e
superando di oltre due nodi la velocità stabilita dal contratto;
tuttavia queste prove, com'è costume italiano dell'epoca, vengono
svolte in condizioni irrealistiche, con dislocamento sensibilmente
inferiore a quello che la nave avrebbe in condizioni operative:
appena 1770 tonnellate, un migliaio in meno rispetto al dislocamento
in carico normale (durante una precedente uscita di prova tra Ancona
e Castelfidardo,
eseguita con dislocamento di 1863 tonnellate, la velocità massima è
stata di 39,29 nodi, con 383 giri per minuto delle eliche ed un
consumo orario di 26,17 tonnellate di nafta). Le prove, come mostrano
alcune foto dell'epoca, sono eseguite prima ancora dell'installazione
dell'armamento principale da 120 mm. In reali condizioni operative,
la velocità risulterà essere ben più ordinaria, sui 32-33 nodi
(altra fonte, probabilmente erronea, parla di 38 nodi, ridotti a 33
dopo le modifiche di fine anni Trenta).
.jpg)
Il
Da Recco
durante le prove di velocità al largo di Ancona, nell’aprile 1930
(sopra: dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe
Navigatori”; sotto: da www.meludo.it)
Il
Da
Recco
alle prove di velocità sulla tratta Ancona-Isole Tremiti, il 5
maggio 1930. Notare la mancanza dei complessi binati da 120 mm,
prassi comune durante le prove in mare delle unità della Regia
Marina, il che però comportava inevitabilmente delle velocità
inverosimili rispetto alle reali condizioni operative (Archivio Luce,
pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”, e
www.forums.airbase.ru)
Altre
immagini del Da Recco durante le prove in mare al largo di
Ancona (foto Vidau-Ancona, via Coll. Luigi Accorsi e
www.associazione-venus.it)
20
maggio 1930
Entrata
in servizio, classificato esploratore leggero. La sua costruzione è
costata 20.650.000 lire: risulta così il più “economico” dei
Navigatori, insieme all'Emanuele
Pessagno, mentre otto degli
altri gemelli sono costati 20.750.000 lire e due, Ugolino
Vivaldi ed Antoniotto
Usodimare, ben 21.150.000.
Da Recco
e Pessagno
sono anche
le uniche due unità della classe ad usare turbine Tosi e caldaie
Odero (le altre usano turbine Parsons
o Belluzzo e caldaie Yarrow od Odero).
Assegnato
alla I Squadriglia Esploratori, successivamente trasferito alla II.
31
agosto-10 ottobre 1930
Dopo
un breve periodo di addestramento, viene sottoposto a Genova a lavori
di alleggerimento e modifica delle sovrastrutture al fine di
migliorare la stabilità trasversale, che le prove in mare hanno
rivelato essere problematica a causa delle sovrastrutture
relativamente alte e massicce ed all'elevato coefficiente di finezza
dello scafo. Le sovrastrutture prodiere vengono pertanto abbassate di
un livello (cioè di 2,5 metri) ed alleggerite (con anche
l'eliminazione dell'albero prodiero a tripode, sostituito con uno a
fuso, e del proiettore da combattimento del diametro di 90 cm situato
sull'albero stesso) per eliminare i pesi situati in alto, i fumaioli
vengono anch'essi leggermente abbassati (specialmente quello
poppiero) e vengono eliminati alcuni serbatoi laterali per il
carburante situati sopra la linea di galleggiamento, utilizzando al
loro posto i doppi fondi situati a proravia della sala caldaie
prodiera, nei quali vengono installati tre serbatoi trasversali (così
riducendo la riserva di nafta da 630 tonnellate a 533 tonnellate; per
altra fonte, da 460 a 250). I due impanti lanciasiluri trinati in
linea tipo San Giorgio (ciascuno composto da un tubo lanciasiluri
centrale da 450 mm e due laterali da 533 mm) vengono sostituiti, per
lo stesso motivo, con altrettanti impianti binati da 533 mm, più
leggeri. Altre modifiche comprendono inoltre: l'eliminazione delle
cabine dei sottufficiali anziani dal piano più basso delle
sovrastrutture prodiere, per ricavare al loro posto la sala radio e
la centrale di direzione del tiro (munita di due telemetri di tre
metri, collocati su speciali cuscinetti anti-vibrazioni e muniti di
scartometri progettati per misurare le deviazioni nella caduta dei
colpi e di un inclinometro «San Giorgio» per la misurazione
dell'angolo rispetto alla rotta del bersaglio); il rafforzamento
della parte poppiera dello scafo, in seguito ad un cedimento del
fasciame sull'Antonio
Pigafetta; la
realizzazione, nella parte poppiera delle sovrastrutture prodiere, di
una piccola plancia sopraelevata con stazione di direzione del tiro;
la realizzazione, sulla sovrastruttura centrale, di una postazione
chiusa con telemetro di tre metri.
Pur migliorando la stabilità,
questi provvedimenti non risolvono del tutto i problemi di tenuta del
mare dei “Navigatori”; loro conseguenza negativa è la riduzione
della velocità massima, che cala da 38 a 33 nodi (per altra fonte,
30-32).
L'armamento
contraereo viene contestualmente potenziato con l'imbarco di due
mitragliere binate Breda da 13,2/76 mm, installate sulla plancia, e
di due torpedini da rimorchio "Ginocchio".
.JPG) |
Prove di velocità al largo di Ancona, 10 ottobre 1930 (Fototeca USMM) |
Dicembre
1930-Marzo 1931
Il Da
Recco è tra le unità
adibite ad appoggiare la crociera aerea transatlantica dall'Italia al
Brasile di Italo Balbo. Le navi assegnate a questo compito, che
compongono la Divisione Esploratori (o "Divisione Navale
dell'Oceano") al comando dell'ammiraglio di divisione Umberto
Bucci (con insegna proprio sul Da
Recco), sono tutte unità
della classe Navigatori, suddivise in tre gruppi disposti lungo la
rotta degli idrovolanti: Da
Recco (capogruppo, capitano
di vascello Antonio Pasetti), Luca
Tarigo (capitano di fregata
Edmondo e Stefano) ed Ugolino
Vivaldi (capitano di
fregata Vincenzo Brunetti) costituiscono il I Gruppo (dislocato alle
Canarie ed assegnato all'Atlantico centrale), Antonio
Da Noli (capogruppo,
capitano di vascello Riccardo Paladini), Leone
Pancaldo (capitano di
fregata Diego Pardo) e Lanzerotto
Malocello (capitano di
fregata Carlo Alberto Coraggio) formano il II Gruppo (dislocato a
Pernambuco, per l'assistenza nella zona americana dell'Atlantico), ed
Emanuele Pessagno
(capogruppo, capitano di vascello Vincenzo Magliocco) ed Antoniotto
Usodimare (capitano di
fregata Ettore Sportiello) formano il III Gruppo (di competenza della
parte africana dell'Atlantico). In tal modo, gli otto esploratori
“copriranno” completamente il tragitto che gli idrovolanti
dovranno percorrere, dall'Africa al Brasile.
Dislocati tutti a
Porto Santo Stefano tra l'ottobre ed il novembre 1930, gli
esploratori salpano da La Spezia scaglionati tra fine novembre ed
inizio dicembre, per raggiungere le rispettive posizioni assegnate,
ed attendervi il passaggio degli idrovolanti; il I e III Gruppo
partono il 1° dicembre 1930, seguendo itinerari differenti, mentre
il II Gruppo li precede di un giorno. Passeranno in mare quasi
quattro mesi; loro compito sarà di aiutare gli aerei ad orientarsi,
fungendo da faro di riferimento di notte (allo scopo, sono stati
muniti di proiettori per illuminare di notte la rotta degli aerei,
che andranno accesi un'ora prima del passaggio dei velivoli e messi
sulla verticale dopo che anche l'ultimo è passato; di giorno lo
stesso servizio verrà svolto emettendo fumo, con inizio 40 minuti
prima del passaggio degli aerei) e fornendo loro rilevamenti
radiogoniometrici di giorno, oltre a mantenere il collegamento aereo
tra gli aerei e le basi a terra (grazie anche al contributo
dell'International Telephone and Telegraph Corporation di New York,
che mette a disposizione tutti gli apparati dell'International System
del Sudamerica), fornire aggiornamenti meteorologici e prestare
soccorso ad eventuali idrovolanti che fossero costretti ad ammarare
nell'oceano, o rifornirli in caso di necessità (per questo scopo,
l'area di oceano che sarà sorvolata dagli idrovolanti è divisa in
tre zone di competenza di ciascun gruppo, a loro volta suddivise in
sotto-zone di competenza delle singole navi).
Il
gruppo composto da Da Recco,
Vivaldi
e Tarigo
fa scalo ad Orano il 3 dicembre 1930, a Ceuta il 6 dicembre, a
Casablanca l'11 ed a La Luz di Gran Caria il 12; qui le navi si
dividono: Da Recco
e Tarigo
proseguono per Dakar, dove arrivano il 19 dicembre, e Bolama, dove
giungono la vigilia di Natale, e dove si dislocano per svolgere la
loro attività di appoggio; il Vivaldi
rimane invece a La Luz fino al 19 dicembre, quando parte per Dakar
(dove arriva l'indomani) e poi proseguire per il punto stabilito per
la sua attività di appoggio, raggiungendolo il 31 gennaio.
Il
II Gruppo fa scalo a Ceuta (6 dicembre), Casablanca (8 dicembre) e
Dakar (11 dicembre) e poi raggiunge Pernambuco (20 dicembre), dove il
Pancaldo
rimane, mentre il Da Noli
prosegue per Bahia ed il Malocello
dapprima per Natal e poi per Rio de Janeiro; il III Gruppo fa tappa
ad Almeria (3 dicembre), Las Palmas (9 dicembre), Villa Cisneros,
Dakar (27 dicembre), Pernambuco, Bahia per poi raggiungere Rio de
Janeiro. Il mattino del 3 gennaio 1931 Da
Recco, Vivaldi
e Tarigo
salpano da Bolama, Pessagno
ed Usodimare
da Dakar, Pancaldo,
Da Noli
e Malocello
da Pernambuco, dirigendo ciascuno nel punto assegnato lungo la rotta
degli idrovolanti; a sorvolo avvenuto, dovranno dirigere verso
Fernando de Noronha, per poi riunirsi in un unico gruppo in
navigazione verso Rio de Janeiro il 15 gennaio.
La
crociera aerea Italia-Brasile costituisce la prima trasvolata
oceanica in formazione mai compiuta: quattordici idrovolanti Savoia
Marchetti S. 55, guidati dallo stesso Balbo, decolleranno da
Orbetello (vicino a Grosseto) e raggiungeranno Bahia, in Brasile,
facendo scalo intermedio a Cartagena (Spagna), Kenitra (Marocco),
Villa Cisneros (Marocco), Bolama (Guinea) e Natal (Brasile).
Due
degli idrovolanti sono di riserva, mentre gli altri quattordici sono
divisi in quattro squadriglie di tre aerei, ciascuna identificata da
un colore (che contraddistingue una fascia dipinta sulle ali): rossa,
verde, bianca, nera (quest'ultima, comandata personalmente da Balbo,
sarà la prima a partire). Gli equipaggi contano in tutto 56 uomini.
Undici
Savoia Marchetti S. 55 (gli altri tre si aggregheranno in Africa)
decollano da Orbetello il mattino del 17 dicembre 1930, e dopo aver
fatto scalo alle Baleari (dove si verificano i primi problemi a causa
di una tempesta ciclonica), in Spagna (Cartagena) ed in Marocco (a
Kenitra sulla costa atlantica e poi a Villa Cisneros, nella baia del
Rio de Oro), raggiungono il 25 dicembre la baia di Bolama, nella
Guinea portoghese. Da qui ripartono tra la mezzanotte e le due di
notte del 6 gennaio 1931 per compiere la traversata dell'Oceano
Atlantico, tremila chilometri da coprire in venti ore. Le condizioni
meteorologiche sono sfavorevoli – gli aerei sono pronti alla
partenza fin dal 1° gennaio, ma questa è stata più volte rinviata
a causa del maltempo –, ma si decide di partire lo stesso per non
perdere il plenilunio. In fase di decollo si verificano purtroppo due
gravi incidenti: l'idrovolante I-RECA del capitano Enea Silvio
Recagno, dopo essere salito fino a 45 metri di quota, è costretto ad
un ammaraggio forzato, che provoca il danneggiamento di un
galleggiante e la morte del sergente meccanico Luigi Fois;
l'idrovolante I-BOER, del capitano Luigi Boer, è costretto ad un
atterraggio forzato dieci minuti dopo il decollo e s'incendia
immediatamente, provocando la morte dei quattro uomini
dell'equipaggio (oltre al capitano Boer, il tenente Danilo
Barbicinti, il sergente maggiore Ercole Imbastari ed il sergente
Felice Nensi). Un altro idrovolante, l'I-VALL pilotato dal generale
Giuseppe Valle, ha problemi a decollare e riuscirà a partire
soltanto un'ora e mezza dopo il resto degli aerei, che tuttavia
riuscirà a raggiungere prima dell'arrivo in Brasile (anzi, arriverà
prima di alcuni degli altri idrovolanti, sebbene questi siano
decollati prima di lui, avendo sapientemente sfruttato i venti delle
bassissime quote).
.gif)
Il
Da
Recco
ed il panfilo Alice
dell’Aeronautica durante la trasvolata di Balbo (da
www.trasvolatoriatlantici.it)
2.gif)
Le
condizioni meteorologiche sono pessime, rendendo molto difficile il
mantenimento della formazione: buio pesto nelle prime ore di volo,
forti piogge il mattino del 6 gennaio, cielo coperto con piogge
occasionali durante il giorno, e fitte nubi presso la costa
brasiliana. Per le prime sei ore di volo gli idrovolanti la
navigazione avviene esclusivamente attraverso la strumentazione di
bordo. Le autorità brasiliane inviano continuamente agli idrovolanti
bollettini sull'evoluzione della situazione meteo, e Balbo si
mantiene costantemente in contatto con le navi appoggio, con Bolama,
con Natal e con Roma. Due degli idrovolanti, l'I-BAIS (capitano
di fregata Umberto Baistrocchi) e l'I-DONA (capitano Renato
Donadelli), sono costretti ad ammarare in pieno oceano a causa di
avarie, ma entrambi vengono raggiunti e soccorsi, rispettivamente,
da Pessagno e Da
Noli (l'I-DONA, rimorchiato
a Fernando de Noronha, potrà riprendere il volo dopo aver riparato
le avarie ed essersi rifornito, mentre l'I-BAIS dovrà essere
abbandonato dall'equipaggio ed andrà perduto a causa dello stato del
mare).
Alle 19.30 dello stesso giorno i dieci idrovolanti
rimasti raggiungono Porto Natal, in Brasile, dove l'8 gennaio li
raggiunge anche l'I-DONA, riuscito a ripartire dopo aver riparato
l'avaria (non così l'I-BAIS, sfasciatosi dopo essere stato gettato
dalle onde contro lo scafo del Pessagno).
I tremila chilometri tra Bolama e Natal sono stati coperti in 18
ore.
Da Natal gli undici velivoli, dopo aver preso a bordo anche
il generale dell'Aeronautica Aldo Pellegrini (comandante della Scuola
di Navigazione Aerea d'Alto Mare di Orbetello e tra gli organizzatori
della trasvolata), il tenente degli alpini Lino Balbo (nipote di
Italo Balbo) e cinque giornalisti giunti dall'Italia a bordo del
motoveliero noleggiato Aosta
(Nello Quilici del “Corriere Padano”, Adone Nosari del “Giornale
d'Italia”, Ernesto Quadrone della “Stampa”, Michele Intaglietta
della “Gazzetta del Popolo” e Mario Massai del “Corriere della
Sera”; ad un sesto giornalista, Luigi Freddi del “Popolo
d'Italia”, viene impedito di raggiungere Bahia perché considerato
dalle autorità brasiliane “persona non gradita” a causa di suoi
passati articoli giudicati anti-brasiliani), ripartono alle 7.45
dell'11 gennaio per Bahia, dove giungono alle 14.30, dopo aver
seguito la costa brasiliana, e dove ammarano simultaneamente alle
15.35 dopo aver compiuto alcuni giri sopra la città.
Nel
porto di Bahia trovano ad attenderli all'ormeggio il Da
Recco, il Tarigo,
il Vivaldi
ed il Da Noli.
Il
13 gennaio i quattro esploratori lasciano Bahia diretti a Rio de
Janeiro, destinazione finale della trasvolata (durante la navigazione
si ricongiungono con Pancaldo,
Pessagno,
Usodimare
e Malocello),
ed il 15 gennaio anche gli idrovolanti ripartono da Bahia diretti
verso Rio, distante 1400 km. Qui la formazione di Balbo giunge alle
cinque del pomeriggio del 15 gennaio, ammarando nella baia di
Guanabara, dopo aver coperto complessivamente 10.350 km (5600 miglia)
in 61 ore e mezzo di volo, concludendo trionfalmente la traversata.
Esploratori – riunitisi in un'unica formazione proprio quel giorno
– ed aerei giungono a Rio simultaneamente: le otto unità della
Divisione Navale dell'Oceano imboccano la baia di Guanahara in linea
di fila, divisi in due colonne, mentre gli idrovolanti di Balbo
sopraggiungono in formazione a cuneo, davanti al Pan di Zucchero,
scortati da biplani dell'aviazione brasiliana. Mentre l'idrovolante
di Balbo, l'I-BALB, alza la bandiera italiana, gli otto “Navigatori”
salutano con 19 salve dei loro 48 pezzi da 120 mm; rendono il saluto
anche le batterie brasiliane situate nelle isole e sulle coste della
baia, nonché le navi brasiliane presenti alla fonda. Assiste
all'arrivo degli idrovolanti un milione di persone.
La
trasvolata, oltre che una notevole impresa aviatoria, costituisce un
notevole successo propagandistico per il regime fascista,
raccogliendo elogi da parte della stampa internazionale e
l'apprezzamento di figure del calibro di Charles Lindbergh.
Il
16 gennaio il Da Recco
viene visitato a Rio de Janeiro dal presidente del Brasile, Getúlio
Vargas.
Il 7 febbraio, a impresa aviatoria conclusa, la
Divisione Esploratori inizia il viaggio di ritorno, divisa in due
gruppi: il Da Recco forma
il II Gruppo, insieme a Pessagno,
Vivaldi
ed Usodimare,
che fa scalo in successione a Bahia, Pernambuco e Fernando de
Noronha. Gli esploratori scortano anche il transatlantico Conte
Rosso, sul quale
rimpatriano gli equipaggi degli idrovolanti.
Il
21 febbraio il Da
Recco, causa un'avaria ai
condensatori, è costretto a rientrare a Pernambuco scortato
dal Vivaldi,
mentre l'ammiraglio Bucci trasferisce la sua insegna sull'Usodimare,
che insieme al Pessagno prosegue
e fa scalo a Dakar, Santa Cruz de Tenerife e Ceuta, dove le due unità
arrivano il 6 marzo. Riunite così sei delle otto unità della
Divisione (Usodimare, Pessagno, Tarigo, Pancaldo, Malocello e Da
Noli), queste proseguono la
navigazione l'11 marzo e, dopo un ultimo scalo ad Algeri, giungono a
Gaeta il 18 marzo 1931.
Riparata
l'avaria, Da Recco
e Vivaldi
lasciano Pernambuco il 27 aprile e raggiungono Dakar il 7 maggio, Las
Palmas il 14 e Ceuta il 20; rientrano infine a La Spezia il 25 (o 27)
maggio 1931.
Nella sua relazione, l'ammiraglio Bucci evidenzia
che, quando il carico di nafta dei Navigatori scende sotto le 250
tonnellate, le sbandate in accostata divengono considerevoli;
su Pessagno e Pancaldo,
in particolare, con carico di nafta ridotto a 120 tonnellate si è
reso necessario l'allagamento di alcuni depositi per mantenere la
stabilità.
Gli
equipaggi degli esploratori sono rimasti in missione per 109 giorni,
37 dei quali (in media) in navigazione.
Al
ritorno da questa crociera inizia per il Da
Recco l'attività di
squadra, con frequenti esercitazioni e crociere in porti esteri del
Mediterraneo.
Sopra:
la Divisione Esploratori arriva a Rio de Janeiro; sotto: Italo Balbo
ne passa in rassegna gli equipaggi dopo l’arrivo (Fototeca USMM)
Il
Da
Recco
riceve la visita del presidente del Brasile a Rio de Janeiro, il 16
gennaio 1931 (sopra: dal volume USMM “Esploratori leggeri classe
Navigatori”, via g.c. Marcello Risolo e www.naviearmatori.net;
sotto: dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe
Navigatori”)
.JPG) |
Il
presidente del Brasile sale sul Da Recco (fototeca USMM) |
6
settembre 1931
Alle
sei del mattino il Da Recco
(capitano di vascello Antonio Pasetti) salpa da La Maddalena diretto
a La Spezia, dove deve rientrare dopo aver passato due settimane
impegnato in esercitazioni nell'alto e medio Tirreno insieme al resto
della Divisione Esploratori dell'ammiraglio Bucci. Durante la
navigazione nel mare in tempesta, al traverso della Gorgona, un'onda
di eccezionali dimensioni spazza la coperta del Da
Recco e trascina in mare
tutte le imbarcazioni ed anche sette uomini che si trovavano in
coperta per issare il segnale nominativo per il riconoscimento da
parte del semaforo della Gorgona: il giovane sottotenente di vascello
Domenico Ravera (22 anni, da Genola), un sottufficiale, un sottocapo
e quattro marinai. I marinai Pietro Confalonieri ed Americo Bombai ed
il cannoniere Giuseppe Toniolo (tutti ventunenni), scagliati dalle
onde contro le sovrastrutture, rimangono seriamente feriti riportando
fratture e contusioni.
Il
comandante Pasetti ordina subito di fermare le macchine e poi di
rivolgere la prua al mare, in modo da evitare le onde al traverso che
provocano pericolose sbandate; ma il recupero degli uomini in mare è
ostacolato dalla perdita di tutte le imbarcazioni. Il sottotenente di
vascello Ravera, sebbene seriamente ferito ad entrambe le gambe,
riesce a raggiungere a nuoto una delle imbarcazioni e ad
arrampicarvisi a bordo, dopo di che issa a bordo altri quattro
uomini, tra cui il marinaio torpediniere Giuseppe Serini (anch'egli
ventunenne), seriamente contuso all'anca sinistra; non riesce invece
a ritrovare il sottufficiale ed il sottocapo, ormai scomparsi tra le
onde. Con difficile manovra il Da
Recco si affianca
all'imbarcazione – che è priva di remi – e ne prende a bordo gli
occupanti, a partire da quelli feriti più gravemente; il
sottotenente di vascello Ravera è l'ultimo a salire a bordo. Il
medico di bordo provvede a prestare le prime cure.
Per
due ore il Da Recco
continua ad incrociare nella zona in cerca dei due dispersi, ma senza
successo; alla fine, quando sopraggiungono altri due esploratori
della Divisione, affida ad essi il compito di proseguire le ricerche
e dirige a tutta forza verso La Spezia, dove arriva alle 13.30.
Subito si reca a bordo a mezzo di un motoscafo, prima ancora che la
nave si ormeggi, l'ammiraglio Roberto Monaco di Longano, comandante
militare marittimo dell'Alto Tirreno (informato dell'incidente per
radio), cui il comandante Pasetti riferisce nei particolari
sull'accaduto.
Ormeggiatosi
al Molo Lagora (od al Molo Foraneo), il Da
Recco sbarca i feriti, che
sono subito trasportati in ambulanza all'Ospedale militare marittimo,
dove l'indomani saranno visitati dal comandante Pasetti e dagli
ammiragli Bucci, Monaco, Fausto Gambardella (comandante della 1a
Squadra Navale) e Leopoldo Novaro (comandante dell'Arsenale di La
Spezia).
.png) |
Articolo del “Corriere della Sera” sull’incidente (g.c. Andrea Tirondola) |
Novembre
1931
Partecipa
ai festeggiamenti per il cinquantesimo della fondazione
dell'Accademia Navale di Livorno.
8
dicembre 1931
Ormeggiato
di poppa alla calata Gadda del porto di Genova, il Da
Recco riceve a Genova
la bandiera di combattimento, insieme ai gemelli Ugolino
Vivaldi, Alvise
Da Mosto, Antonio
Da Noli, Antoniotto
Usodimare, Emanuele
Pessagno, Leone
Pancaldo e Lanzerotto
Malocello, nel corso di una
cerimonia solenne cui partecipano anche il cardinale Carlo Dalmazio
Minoretti, che benedice le bandiere, il senatore Eugenio Broccardi
(podestà di Genova) e l'ammiraglio Bucci. Le bandiere sono offerte
dalla città di Genova e dai paesi natali dei navigatori cui le navi
sono intitolate: quella del Da
Recco dal Comune di
Recco.
La cerimonia inizia alle 10.30 con la celebrazione della
messa da parte del reverendo Ambrogio Nebiolo, cappellano della
1a Squadra
Navale, al cospetto delle autorità civili e militari; alle 11 il
cardinale Minoretti sale a bordo del Da
Noli, nave ammiraglia della
Divisione Esploratori, ed impartisce la benedizione alle otto
bandiere di combattimento, dopo di che il podestà Broccardi
pronuncia un discorso e l'ammiraglio Bucci esprime un breve
ringraziamento. Si tiene poi la cerimonia dell'alzabandiera; le otto
bandiere sono issate a riva dell'alberetto poppiero di ciascuna nave,
al grido di "Viva il re" da parte degli equipaggi, mentre i
cannoni sparano le salve regolamentari per la celebrazione e la folla
assiepata sui moli acclama. Alle 11.35 la cerimonia ha termine e le
autorità prendono parte ad un rinfresco offerto dal Comando della
Divisione Esploratori a bordo del Da
Noli.
1932
Il
timone viene sostituito con uno di maggiori dimensioni, per
migliorare le qualità evolutive.
1932
Compie
crociere in Mediterraneo, visitando porti della Spagna e della Libia.
1933
Altra
crociera in Mediterraneo, nella quale visita Alessandria d'Egitto.
.jpg) |
Il Da Recco in transito presso il ponte girevole di Taranto negli anni Trenta (da La Voce del Marinaio) |
22
aprile 1934
Il Da
Recco , inquadrato
nella II Squadriglia Esploratori insieme ai gemelli Lanzerotto
Malocello, Emanuele
Pessagno e Giovanni
Da Verrazzano, ed
unitamente alla I Squadriglia Esploratori (formata dai gemelli Luca
Tarigo, Ugolino
Vivaldi, Antoniotto
Usodimare ed Alvise
Da Mosto) nonché alla IV
Squadriglia Cacciatorpediniere (Francesco
Crispi, Quintino
Sella, Giovanni
Nicotera, Bettino
Ricasoli, Tigre, Francesco
Nullo, Daniele
Manin)
ed al posamine Dardanelli,
presenzia alla cerimonia per la consegna della bandiera di
combattimento agli incrociatori leggeri Alberico
Da Barbiano, Alberto
Di Giussano, Giovanni
delle Bande Nere, Bartolomeo
Colleoni e Luigi
Cadorna, nel bacino di San
Marco a Venezia.
1936
Al
comando del capitano di corvetta (?) Costanzo Casana, il Da
Recco partecipa ad
operazioni in Mar Rosso durante la guerra d'Etiopia.
9
settembre 1936
Al
comando del capitano di vascello Gustavo Strazzeri (caposquadriglia
della I Squadriglia Esploratori della 2a
Squadra Navale) il Da Recco
salpa da La Spezia diretto a Tangeri, dove deve rilevare il gemello
Da Noli
in qualità di stazionario, nel difficile quadro determinato dallo
scoppio della guerra civile spagnola.
12
settembre 1936
Arriva
a Tangeri.
%20ed%20altre%20navi%20a%20tangeri%20met%C3%A0%20settembre%201936%20LEGGI%20DIDASCALIA%20(libro%20bargoni%20spagna).jpg) |
Navi da guerra di varie Marine all'ancora nella rada di Tangeri a metà settembre 1936: da sinistra a destra il cacciatorpediniere britannico Brilliant, l'incrociatore leggero tedesco Nürnberg, l'incrociatore leggero italiano Giovanni delle Bande Nere, l'esploratore italiano Leone Pancaldo, la nave cisterna italiana Nevona, il cacciatorpediniere portoghese Tejo, un cacciatorpediniere francese classe Le Fantasque ed il Da Recco (da “L'impegno navale italiano durante la guerra civile spagnola” di Franco Bargoni) |
17-20
settembre 1936
Scorta
la motonave Aniene
(nominativo temporaneo assegnato alla spagnola Ebro,
rifugiatasi a Genova allo scoppio della guerra civile e requisita dal
governo italiano per trasportare rifornimenti per i nazionalisti) in
navigazione verso Vigo.
3
ottobre 1936
Scorta
il transatlantico Oceania,
in navigazione da Buenos Aires a Napoli, ed il piroscafo Città
di
Bengasi,
in navigazione in direzione opposta e diretto a Vigo.
4
ottobre 1936
Rilevato
dal gemello Pigafetta,
lascia Tangeri per rientrare in Italia.
6
ottobre 1936
Arriva
a La Spezia.
28-29
dicembre 1936
Il
Da Recco
scorta da Palma di Maiorca (dov'è arrivato il 25 dicembre da La
Spezia e da dove riparte il 28) a Cadice (dove giunge il 29) il
piroscafo Tevere
(comandante militare capitano di corvetta di complemento Giuseppe
Sardi), avente a bordo 776 militari del Corpo Truppe Volontarie (54
ufficiali, 63 sottufficiali, 659 soldati) diretti in Spagna per
combattere a fianco dei nazionalisti nella guerra civile, 24
autocarri, 6 automobili e materiale vario.
2.jpg) |
(dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
29
dicembre 1936
Al
termine della missione di scorta al Tevere,
il Da Recco
trasporta da Tangeri a Cadice il contrammiraglio Angelo Iachino
(comandante del Gruppo navi italiane in acque spagnole), che in
qualità di rappresentante della Marina italiana deve partecipare ad
una conferenza avente lo scopo di definire le modalità per l'aiuto
navale dell'Italia e della Germania alla Marina nazionalista
spagnola, da tenersi a Cadice il 30 dicembre a bordo
dell'incrociatore pesante Canarias, nave ammiraglia della Marina
nazionalista.
Oltre
a Iachino, partecipano alla riunione il capitano di vascello Giovanni
Remedio Ferretti, capo della missione navale italiana in Spagna; il
contrammiraglio Hermann von Fischel, quale rappresentante della
Marina tedesca; l'ammiraglio Juan Cervera, capo di Stato Maggiore
della Marina nazionalista; ed il capitano di vascello (poi
contrammiraglio) Francisco Moreno, comandante della flotta
nazionalista, nonché i rispettivi capi di Stato Maggiore.
L'ammiraglio
Cervera, dopo aver sottolineato che la direzione della guerra sul
mare deve rimanere di competenza degli spagnoli, procede ad esporre
una serie di richieste, alcune sensate ed altre decisamente
irrealistiche: la cessione da parte della Marina italiana di sei
esploratori e sei cacciatorpediniere dei più moderni, da impiegare
nella guerra contro il traffico repubblicano; l'aiuto italiano per il
potenziamento di Maiorca come base aeronavale, dalla quale dovranno
poter operare gli incrociatori nazionalisti; il minamento delle acque
territoriali spagnole per colpire indiscriminatamente il traffico
diretto in Spagna, anche quello destinato alla popolazione
civile, in modo da danneggiare la resistenza dei repubblicani (e
contemporaneamente, per essere pronti a reagire ad un'analoga
ritorsione da parte repubblicana, l'allestimento di gruppi di
dragamine nei principali porti nazionalisti).
L'ammiraglio
Iachino fa presente che l'Italia non può cedere cacciatorpediniere
ai sensi del Trattato di Londra del 1936 e del Trattato di Washington
del 1929, che vietano la cessione di unità navali a Paesi
belligeranti, per non parlare del precedente che si verrebbe a creare
e delle potenziali ripercussioni internazionali; inoltre rileva come
la presenza in mare di uno dei due incrociatori pesanti in mano ai
nazionalisti (Canarias
e Baleares)
si è finora mostrata sufficiente a scoraggiare le navi repubblicane
dall'uscire dai porti. L'ammiraglio von Fischel concorda con il
collega italiano ed aggiunge che anche la Germania non può cedere
cacciatorpediniere, avendone troppo pochi. Dinanzi all'insistenza di
Cervera, che chiede se non altro la cessione di qualche
cacciatorpediniere di tipo antiquato per la protezione
antisommergibili degli incrociatori, i due rimandano ulteriori
discussioni fino a quando non sarà stato accertato se sommergibili
sovietici operano in Mediterraneo in appoggio a quelli repubblicani,
che finora sono apparsi poco efficaci; Iachino promette di prendere
in considerazione il trasferimento alla Marina nazionalista di alcuni
sommergibili, che opererebbero con equipaggi misti.
Vengono
escluse azioni di bombardamento navale contro centri o batterie
costiere, dato il dispendio di munizioni e la scarsa efficacia di
azioni del genere (unica eccezione viene fatta per l'eventualità di
bombardare il porto di Valencia), ed evidenziata l'opportunità di
intercettare le navi da guerra repubblicane quando queste uscissero
dai porti, facendo affidamento sulla maggior potenza delle
artiglierie delle navi in mano ai nazionalisti, e di lanciare
attacchi aerei e di motosiluranti contro Malaga, nonché la necessità
di potenziare la base di Ceuta per dislocarvi un incrociatore
nazionalista con l'incarico di proteggere i convogli che attraversano
lo stretto di Gibilterra con truppe nazionaliste.
Sul
tema del blocco dei porti repubblicani, viene sottolineata la
necessità di intensificare l'attività di intercettazione delle navi
al servizio della Repubblica, fermando “quanti
più piroscafi possibili onde dare la sensazione di una grande
vigilanza e spaventare i contrabbandieri”.
Viene inoltre stabilita la necessità di precisare, da parte del
comando nazionalista, le modalità per il fermo e l'ispezione delle
navi neutrali, per evitare differenze di trattamento che possano dar
luogo ad incidenti diplomatici (in precedenza il comportamento delle
navi nazionaliste è stato alquanto disomogeneo: i comandanti non
hanno ordini chiari, l'ammiraglio Moreno fa esercitare il diritto di
visita anche al di fuori delle acque territoriali mentre l'ammiraglio
Cervera ha dato ordini in senso contrario). Cervera s'impegna ad
emanare chiare direttive in merito, ed assicura che chiederà
all'ambasciata britannica il permesso di visitare le navi
britanniche.
Infine,
viene concordata una maggiore collaborazione informativa e stabilito
che l'Italia manterrà sommergibili in agguato sulla costa orientale
spagnola, impiegherà dragamine con base a Palma di Maiorca (navi ed
equipaggi spagnoli, con attrezzature per dragaggio italiane) e
condurrà voli per ricognizione e bombardamento dalla medesima base,
mentre la Germania impiegherà dragamine sulla costa occidentale e
meridionale della Spagna (e su quella settentrionale del Marocco) e
svolgerà anch'essa attività di ricognizione e bombardamento con i
propri aerei facendo base a Melilla.
Interessanti
le osservazioni di Iachino sulle sue controparti: “l'ammiraglio
Cervera, richiamato dalla posizione ausiliaria in cui era stato posto
per limiti di età una settimana prima della rivoluzione, è un
vecchietto vivace ed intelligente
(…) talvolta un po' troppo
precipitoso nelle sue conclusioni, onde gli occorre sovente di dover
contromandare le sue decisioni dopo un più maturo esame della
questione (…)
L'ammiraglio Moreno
(…) è giovane, energico e
risoluto, dimostra intelligenza e visione esatta delle cose nonché
sicura conoscenza della dottrina della guerra navale. L'ammiraglio
von Fischer [sic] è
giovane, proviene dagli ufficiali sommergibilisti che si sono fatti
un nome durante la passata guerra; è stato a lungo in Adriatico ed
in Mediterraneo dove ha affondato vari piroscafi. È serio,
intelligente ma un po' lento e non dimostra grande energia ed
attività”. Circa le
unità navali nazionaliste, “sembrano
abbastanza efficienti ma difettano di pulizia e rassetto: il
personale è tutto nuovo e poco esercitato; non è tutto fidato dal
punto di vista politico e si fanno continuamente epurazioni che
finiscono con fucilazioni (…)
Il servizio r.t. sulle navi
spagnole è molto mediocre sia per il materiale che per il personale
operatore il quale è ben poco scrupoloso poiché i radiotelegrafisti
sono stati il nerbo della rivoluzione rossa”.
.jpg) |
(foto Paolo De Siati, da “Le navi del re. Immagini di una flotta che fu” di Achille Rastelli, via Marcello Risolo e www.naviearmatori.net) |
25
marzo 1937
Mentre
il Da Recco
si trova a Tangeri, un gruppo di suoi marinai assalta e devasta la
redazione del giornale filorepubblicano “Democrazia”, che ha
pubblicato commenti offensivi nei confronti dei soldati italiani del
Corpo Truppe Volontarie in seguito alla battaglia di Guadalajara.
1937-1938
Nuovamente
dislocato a Tangeri, Cadice, Malaga, Palma di Maiorca ed altri porti
del Mediterraneo occidentale durante la guerra civile spagnola, con
il compito di controllare il traffico da e per la Spagna (secondo
alcuni siti avrebbe compiuto “pattugliamenti di neutralità” nel
Mediterraneo occidentale partendo da Tangeri e Cadice).
In
questo periodo presta servizio sul Da
Recco il palombaro Mario
Marino, futura Medaglia d'Oro al Valor Militare.
3.jpg) |
Foto aerea del Da Recco (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
Agosto-Settembre
1937
In
seguito a pressanti richieste da parte dei comandi spagnoli
nazionalisti, i quali sostengono, esagerando di molto, che l'Unione
Sovietica stia per rifornire le forze repubblicane spagnole con oltre
2500 carri armati, 3000 “mitragliatrici motorizzate” e 300 aerei,
Mussolini ordina il blocco navale del Canale di Sicilia, per impedire
l'invio di rifornimenti dall'Unione Sovietica (Mar Nero) alle forze
repubblicane spagnole.
Il
3 agosto Francisco Franco ha chiesto urgentemente a Mussolini di
usare la sua flotta per fermare un grosso “convoglio” sovietico
appena partito da Odessa e diretto nei porti repubblicani; sulle
prime era previsto il solo impiego di sommergibili, ma Franco è
riuscito a convincere Mussolini ad impiegare anche le navi di
superficie. Nel suo telegramma Franco afferma: «Tutte
le informazioni degli ultimi giorni concordano nell'annunciare un
aiuto possente della Russia ai rossi, consistente in carri armati,
dei quali 10 pesanti, 500 medi e 2 000 leggeri (sic), 3 000
mitragliatrici motorizzate, 300 aerei e alcune decine di
mitragliatrici leggere, il tutto accompagnato da personale e organi
del comando rosso. L'informazione sembra esagerata, poiché le
cifre devono superare la possibilità di aiuto di una sola
nazione. Ma se l'informazione trovasse conferma, bisognerebbe
agire d'urgenza e arrestare i trasporti al loro passaggio nello
stretto a sud dell'Italia e sbarrare la rotta verso la Spagna. Per
far ciò, bisogna, o che la Spagna sia provvista del numero
necessario di navi o che la flotta italiana intervenga ella stessa.
Un certo numero di cacciatorpediniere operanti davanti ai porti e
alle coste dell'Italia potrebbe sbarrare la rotta del Mediterraneo ai
rinforzi rossi: la cattura potrebbe essere effettuata da navi
battenti apertamente bandiera italiana, aventi a bordo un ufficiale e
qualche soldato spagnolo, che isserebbero la bandiera nazionalista
spagnola al momento stesso della cattura. Invierò d'urgenza un
rappresentante a Roma per negoziare questo importante affare.
Nell'intervallo, e per impedire l'invio delle navi che saranno già
in rotta per la Spagna, prego il governo italiano di sorvegliare e
segnalare la posizione e la rotta delle navi russe e spagnole che
lasciano Odessa. Queste navi devono essere sorvegliate e perquisite
da cacciatorpediniere italiani che segnaleranno la loro posizione
alla nostra flotta. Vogliate trasmettere in tutta urgenza al
Duce e a Ciano l'informazione di cui sopra e la nostra richiesta,
unita all'assicurazione dell'indefettibile amicizia e della
riconoscenza del generalissimo alla nazione italiana».
Il
blocco navale viene ordinato da Roma il 7 agosto ed ha inizio due
giorni più tardi; oltre ai sommergibili, inviati sia al largo dei
Dardanelli che lungo le coste della Spagna, prendono in mare gli
incrociatori Diaz e Cadorna,
otto cacciatorpediniere ed altrettante torpediniere che si
posizionano nel Canale di Sicilia e lungo le coste del Nordafrica
francese. Cacciatorpediniere e torpediniere operano in cooperazione
con quattro sommergibili ed un sistema di esplorazione aerea a maglie
strette (idrovolanti dell'83° Gruppo Ricognizione Marittima, di base
ad Augusta) e sono alle dipendenze dell'ammiraglio di divisione
Riccardo Paladini, comandante militare marittimo della Sicilia;
successivamente verranno avvicendati da altre siluranti e dalla IV
Divisione Navale (incrociatori leggeri Armando
Diaz, Alberto
Di Giussano, Luigi
Cadorna, Bartolomeo
Colleoni). Sono
complessivamente ben 40 le navi mobilitate per il blocco: i quattro
incrociatori della IV Divisione, l'esploratore Aquila,
dieci cacciatorpediniere
(Freccia, Dardo, Saetta, Strale, Fulmine, Lampo, Espero, Ostro, Zeffiro e Borea),
24 torpediniere
(Cigno, Canopo, Castore, Climene, Centauro, Cassiopea, Andromeda, Antares, Altair, Aldebaran, Vega, Sagittario, Astore, Sirio, Spica, Perseo, Giuseppe La
Masa, Generale
Carlo
Montanari, Ippolito Nievo, Giuseppe Cesare Abba, Generale
Achille
Papa, Nicola Fabrizi, Giuseppe
Missori e Monfalcone)
e la nave coloniale Eritrea.
Altre due navi, gli incrociatori ausiliari Adriatico e Barletta,
camuffati da spagnoli Lago e Rio,
hanno l'incarico di visitare i mercantili sospetti avvistati dalle
navi da guerra in crociera.
Il
dispositivo di blocco è articolato in più fasi: informatori ad
Istanbul segnalano all'Alto Comando Navale le navi sovietiche, o di
altre nazionalità ma sospettate di operare al servizio dei
repubblicani, che passano per il Bosforo; ad attenderle in agguato
per primi vi sono i sommergibili appostati all'uscita dei Dardanelli.
Se le navi superano indenni questo primo ostacolo, vengono segnalate
alle navi di superficie ed ai sommergibili in crociera nel Canale di
Sicilia e nello Stretto di Messina; qualora dovessero riuscire ad
evitare anche questo nuovo pericolo (possibile soltanto appoggiandosi
a porti neutrali) troverebbero ad aspettarle altre navi da guerra in
crociera nelle acque della Tunisia e dell'Algeria. Infine, come
ultima barriera per i bastimenti che riuscissero ad eludere anche
tale minaccia, altri sommergibili sono in agguato lungo le coste
della Spagna.
In
base all'ordine generale d'operazioni numero 1, gli incrociatori,
l'Eritrea e
parte dei cacciatorpediniere devono compiere esplorazione pendolare
sul meridiano 16° E, cooperando con gli aerei da ricognizione che
conducono esplorazione sistematica per parallelo; altri
cacciatorpediniere formano uno sbarramento esplorativo tra Lampedusa
e le propaggini meridionali del banco di Kerkennah (nei pressi di
Sfax), mentre le torpediniere conducono esplorazione a rastrello tra
Pantelleria e Malta, lungo l'asse del Canale di
Sicilia. Adriatico/Lago e Barletta/Rio compiono
esplorazione a triangolo presso Capo
Bon; Aquila, Fabrizi, Missori, Montanari, Monfalcone, Nievo, Papa e La
Masa compiono
vigilanza sistematica nello stretto di Messina.
Il
blocco si protrae dal 7 agosto al 12 settembre con intensità
variabile; nel periodo di maggiore attività sono contemporaneamente
in mare nel Canale di Sicilia 12 navi di superficie, 5 sommergibili e
6 aerei. Gli ordini per le navi di superficie sono di avvicinare e
riconoscere tutti i mercantili avvistati, specialmente quelli privi
di bandiera (e che non la issano subito dopo averne ricevuto
l'intimazione dalle unità italiane), quelli che di notte procedono a
luci spente, quelli con bandiera sovietica o spagnola repubblicana,
quelli che hanno in coperta carichi di natura palesemente militare, e
quelli che sono stati specificamente indicati per nome dal Comando
Centrale. Se un mercantile viene riconosciuto come al servizio della
Spagna repubblicana, la nave italiana che l'ha avvistato deve
seguirlo e segnalarlo al sommergibile più vicino, che dovrà poi
procedere ad affondarlo. Se quest'ultimo fosse impossibilitato a
farlo, spetterebbe alla nave di superficie il compito di seguire il
mercantile fino a notte, tenendosi in contatto visivo, per poi
silurarlo una volta calata l'oscurità. I piroscafi identificati come
“contrabbandieri” di notte devono invece essere subito affondati.
Se
venisse incontrato un mercantile repubblicano a grande distanza dalle
acque territoriali della Tunisia, la nave che lo avvista deve
chiamare sul posto uno tra Rio e Lago oppure
una nave da guerra spagnola nazionalista (parecchie di queste sono
appositamente dislocate nel Mediterraneo centrale) che provvederanno
a catturarlo. Ordini tassativi sono emanati per evitare interferenze
o incidenti con bastimenti neutrali (il che talvolta obbliga a
seguire un mercantile “sospetto” per tutto il giorno al fine di
identificarlo, dato che talvolta quelli diretti nei porti
repubblicani usano bandiere false), e questo, insieme all'intensità
del traffico navale nel Canale di Sicilia, rende piuttosto complessa
e delicata la missione delle navi che partecipano al blocco.
Nei
primi giorni del blocco sono particolarmente attivi i
cacciatorpediniere di base ad Augusta. Dopo i primi successi, però,
ci si rende conto che il sistema di vigilanza nel Canale di Sicilia
non funziona come dovrebbe: diversi piroscafi al servizio dei
repubblicani lo aggirano avvicinandosi di giorno ai settori in cui
incrociano le navi italiane, aspettando il buio per entrare nelle
acque territoriali della Tunisia e poi attraversando nottetempo la
zona di maggior pericolo seguendo la costa, o sostando nei porti
francesi in attesa dell'alba. Di conseguenza, il Comando della Regia
Marina dispone delle crociere di cacciatorpediniere nella fascia
costiera compresa tra 10 e 30 miglia dalla costa tunisina tra Capo
Tenes e La Galite, per completare il dispositivo esistente
intensificando la sorveglianza nel Canale di Sardegna allo scopo di
intercettare le navi repubblicane quando lasciano le acque
territoriali della Tunisia per raggiungere i loro porti di
destinazione.
Il Da
Recco (insieme al gemello
Pancaldo
ed ai più piccoli Turbine, Euro,
Ostro e Zeffiro)
è uno dei cacciatorpediniere adibiti a queste missioni, della durata
di tre giorni, operando in sezione con l'Euro e
con base alternativamente a Cagliari e Palma di Maiorca.
Siccome
queste crociere si svolgono in aree dov'è possibile che i
cacciatorpediniere italiani incontrino navi da guerra repubblicane,
una sezione di incrociatori (a turno, Attendolo-Eugenio
di Savoia, Trento-Trieste, Attendolo-Bande
Nere) viene tenuta
costantemente a Cagliari pronta ad intervenire in appoggio ai
cacciatorpediniere, in caso di scontro con superiori formazioni
navali repubblicane. Se i cacciatorpediniere dovessero invece
incontrare piroscafi riconosciuti come repubblicani (od al loro
servizio) al di fuori delle acque territoriali francesi, dovranno
tenersi in contatto visivo fino al calar del sole, dopo di che
dovranno avvicinarsi col buio ed affondarlo con il siluro. In caso di
riconoscimento notturno, se l'identificazione risulterà
inequivocabile, dovranno affondarlo subito.
Durante
queste crociere, i cacciatorpediniere intercetteranno solo tre navi
identificate sicuramente come repubblicane od al servizio dei
repubblicani. Nondimeno, il blocco navale italiano (del tutto
illegale, dato che l'Italia non è formalmente in guerra con la
Repubblica spagnola) si rivela un pieno successo: sebbene le navi
effettivamente affondate o catturate siano numericamente poche,
l'elevato rischio comportato dalla traversata a causa del blocco
italiano porta in breve tempo alla totale interruzione del flusso di
rifornimenti dall'Unione Sovietica alla Spagna repubblicana. Soltanto
qualche mercantile battente bandiera britannica o francese riesce a
raggiungere i porti repubblicani, oltre a poche navi che salpano
dalla costa francese del Mediterraneo e raggiungono Barcellona col
favore della notte. Entro settembre, l'invio di mercantili con
rifornimenti per i repubblicani dall'Unione Sovietica attraverso il
Bosforo è praticamente cessato, tanto che i comandi italiani si
possono ormai permettere di ridurre di molto il numero di navi in
mare per la vigilanza, essendo quest'ultima sempre meno necessaria e
non volendo provare troppo le navi in una zona dove c'è spesso
maltempo con mare grosso. Ad ogni modo, le navi assegnate al blocco
vengono mantenute nelle basi siciliane, pronte a riprendere il mare
qualora dovesse manifestarsi una ripresa nel traffico verso la
Spagna.
Oltre
alla grave crisi nei rifornimenti di materiale militare, che si
verifica proprio nel momento cruciale della conquista nazionalista
dei Paesi Baschi (principale centro di produzione di armi tra le
regioni in mano repubblicana), il blocco ha un impatto notevole anche
sul morale dei repubblicani, tanto nella popolazione
civile (il cui morale va deteriorandosi per la difficoltà di
procurarsi beni di prima necessità) quanto nei vertici
politico-militari, che si rendono conto di come, mentre i
nazionalisti ricevono dall'Italia supporto incondizionato, persino
sfacciato, con largo dispiego di mezzi, l'aiuto di Francia e Regno
Unito alla causa repubblicana non sembra andare al di là delle
parole (in alcuni centri repubblicani si svolgono anche aperte
manifestazioni contro queste due nazioni, da cui i repubblicani si
sentono abbandonati).
Il
blocco italiano impartisce dunque un durissimo colpo ai repubblicani,
ma scatena anche gravi tensioni internazionali (specie col Regno
Unito) e feroci proteste sulla stampa spagnola repubblicana ed
internazionale, con accuse di pirateria – essendo, come detto,
un'operazione in totale violazione di ogni legge internazionale –
nei confronti della Marina italiana, ripetute anche da Winston
Churchill. Il governo britannico, invece, evita di accusare
apertamente l'Italia, dato che il primo ministro Neville Chamberlain
intende condurre una politica di “riavvicinamento” verso l'Italia
per allontanarla dalla Germania; anche questo fa infuriare i
repubblicani, che hanno fornito ai britannici prove del
coinvolgimento italiano (prove che i britannici peraltro possiedono
già, dato che l'Operational Intelligence Center dell'Ammiragliato
intercetta e decifra svariate comunicazioni italiane relative alle
missioni “spagnole”), solo per vedere questi ultimi fingere di
attribuire gli attacchi ai soli nazionalisti spagnoli.
.jpg) |
(da “La guerra italiana sul mare” di Giorgio Giorgerini) |
8
agosto 1937
Il
Da Recco
e l'Euro
partono da Cagliari per la prima crociera di sorveglianza contro il
traffico repubblicano tra La Galite e Capo Ténès.
12
agosto 1937
Da
Recco ed Euro
tornano a Cagliari.
14
agosto 1937
Da
Recco ed Euro
lasciano Cagliari per un'altra crociera di vigilanza tra Capo Ténès
e La Galite.
17
agosto 1937
Da
Recco ed Euro
concludono la missione entrando a Palma di Maiorca.
Nel
settembre 1937 Francia e Regno Unito organizzeranno la Conferenza di
Nyon per contrastare la “pirateria sottomarina”: gli occhi di
tutti sono puntati sull'Italia, anche se questa non viene accusata
direttamente (tranne che dall'Unione Sovietica, ragion per cui
l'Italia, sebbene invitata, rifiuta di partecipare alla conferenza).
Se ufficialmente i britannici non parlano apertamente di
coinvolgimento italiano, attraverso i canali diplomatici questi fanno
pervenire al ministro degli Esteri italiano, Galeazzo Ciano,
l'irritazione per alcuni incidenti che hanno coinvolto proprio navi
britanniche (il cacciatorpediniere HMS Havock è
stato attaccato, ancorché senza risultato, dal sommergibile
italiano Iride),
ragion per cui il 12 settembre si decide di sospendere il blocco per
non incrinare le relazioni con il Regno Unito. Nel periodo 7
agosto-12 settembre, le navi italiane hanno avvicinato e identificato
ben 1070 bastimenti mercantili, di svariate nazionalità. Da questo
momento, sarà incombenza unicamente della Marina franchista impedire
che altri rifornimenti raggiungano i porti repubblicani.
Ottobre
1937
Trasferito
alla 2a
Squadra Navale, imbarca il contrammiraglio Angelo Iachino (comandante
delle forze navali italiane nelle acque spagnole) ed il suo stato
maggiore.
.jpg) |
(g.c. Giacomo Toccafondi) |
1°
gennaio 1938
Il
Da Recco
(capitano di vascello Sergio Fontana), di stanza a Tangeri insieme al
Pigafetta
(capitano di fregata Sesto Sestini), viene raggruppato nella
neocostituita VI Divisione Navale (contrammiraglio Alberto Marenco di
Moriondo) che comprende tutte le navi italiane dislocate nelle acque
della Spagna: oltre a Da
Recco e Pigafetta,
l'esploratore Quarto
(nave ammiraglia) ed i cacciatorpediniere Francesco
Nullo
e Daniele
Manin,
entrambi dislocati a Palma di Maiorca.
1938
Assegnato
come capo flottiglia alla Divisione Scuola Comando, con base ad
Augusta, insieme al gemello Ugolino
Vivaldi, alle
torpediniere Castore, Cigno, Centauro, Circe, Calliope,
Climene, Clio, Calipso, Pallade, Polluce, Partenope e Pleiadi,
agli incrociatori leggeri Giovanni
delle
Bande Nere e
Luigi Cadorna ed
alla 7a,
9a e
10a Squadriglia
MAS.
.jpg) |
Il Da Recco segue la corazzata Cavour e precede una fila di torpediniere classe Spica durante le prove della rivista navale «H» nel Golfo di Napoli, ad inizio maggio 1938 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
5 maggio 1938
Il
Da Recco (capitano
di vascello Sergio Fontana) partecipa alla rivista navale «H»,
organizzata nel Golfo di Napoli in occasione della visita in Italia
di Adolf Hitler: vi partecipa quasi tutta flotta italiana, con le due
squadre navali (la 1a al
comando dell'ammiraglio Arturo Riccardi e la 2a al
comando dell'ammiraglio Vladimiro Pini) per un totale di due
corazzate (Giulio Cesare
e Conte di Cavour),
18 incrociatori (i sette incrociatori pesanti della I e III Divisione
e gli undici incrociatori leggeri della II, IV, VII e VIII Divisione:
vale a dire tutti gli incrociatori moderni tranne il Raimondo
Montecuccoli, che si trova
in Estremo Oriente), sette “esploratori leggeri” classe
Navigatori e 16 cacciatorpediniere della VII, VIII, IX e X
Squadriglia, la squadra sommergibili dell'ammiraglio Antonio Legnani
con ben 85 unità, la flottiglia torpediniere con 16 unità (più
il Da Recco che
funge da conduttore di flottiglia), la I Flottiglia MAS con 24 unità
(Squadriglie IV, V, VIII, IX, X e XI), la nave bersaglio
radiocomandata San
Marco con
la
sua nave guida Audace e
varie unità a disposizione del Comando in Capo di Napoli: per la
sicurezza, i cacciatorpediniere Borea
e Zeffiro,
le torpediniere Castelfidardo, Curtatone, Francesco
Stocco, Nicola
Fabrizi e Giuseppe
La
Masa
dell'VIII Squadriglia Torpediniere e gli “avvisi scorta” Orsa,
Procione,
Orione
e Pegaso
della IV Squadriglia Torpediniere, nonché le navi
scuola Cristoforo Colombo ed Amerigo Vespucci,
il panfilo di Benito Mussolini Aurora,
la nave reale Savoia,
6 navi appoggio, 13 navi cisterna, una nave officina e 15
rimorchiatori. Vi sono infine una vedetta, quattro motobarche e sei
rimorchiatori-dragamine, in parte armati dalla Guardia di Finanza,
adibiti alla vigilanza costiera, e 72 idrovolanti impiegati per lo
stesso scopo.
La
1a
Squadra Navale è composta dalla I, V e VIII Divisione Navale con la
VII, VIII e IX Squadriglia Cacciatorpediniere, la 2a
Squadra dalle Divisioni II, III, IV e VII con la I Flottiglia
Esploratori e la X Squadriglia Cacciatorpediniere; ad esse si
aggiungono la Squadra Sommergibili, la Flottiglia Torpediniere e la I
Flottiglia MAS.
Il
Da Recco
è capo flottiglia della Flottiglia Torpediniere (costituita dalle
unità della Divisione Scuola Comando), composta dalle Squadriglie
Torpediniere IX (Astore, Spica, Canopo e Cassiopea),
X (Sirio, Sagittario, Perseo e Vega),
XI (Castore,
Cigno,
Centauro,
Climene)
e XII (Altair, Andromeda, Antares, Aldebaran).
Sono
presenti ben quattordici navi passeggeri, tra cui i transatlantici
Rex
(il più grande e veloce transatlantico italiano), Roma,
Saturnia
ed Esperia,
divise in tre gruppi e cariche di delegazioni straniere, ospiti e
turisti che possono così seguire la rivista dal mare.
I
movimenti della flotta per la rivista iniziano nelle prime ore del 5
maggio; Mussolini arriva al porto alle dieci del mattino e sale per
primo sulla Conte di Cavour,
ormeggiata al Molo San Vincenzo, dove mezz'ora più tardi accoglie
Hitler, Vittorio Emanuele III ed il principe Umberto. I due reali
hanno dato il benvenuto al dittatore tedesco alla stazione di Napoli
Mergellina e l'hanno poi accompagnato al porto in processione tra una
nutrita folla, tra ali di soldati schierati con il saluto romano,
bandiere italiane e tedesche, aquile imperiali, stendardi e
svastiche. Al loro arrivo in porto, le navi ormeggiate li salutano
con salve d'artiglieria; altre salve di saluto sono eseguite da tutte
le navi mentre la motolancia che porta Hitler e Vittorio Emanuele
sulla Cavour
si avvicina alla corazzata.
Le
navi prendono poi il mare: il Da
Recco è la prima nave a
lasciare il porto, seguito dalla Flottiglia Torpediniere e poi dalle
due squadre navali, il tutto in meno di mezz'ora. La flotta dirige
quindi verso sud a 20 nodi, con le corazzate fiancheggiate su
entrambi i lati dagli incrociatori, a loro volta fiancheggiati dai
cacciatorpediniere. Sulla formazione incrociano gli aerei.
Al
cospetto di Hitler e Mussolini, imbarcati sulla Conte
di Cavour,
la flotta si esibisce in una serie di manovre sincronizzate ad alta
velocità; gli incrociatori accostano in fuori e tre sommergibili
eseguono un attacco simulato contro le corazzate. Al largo di Capri
seguono attacchi simulati di torpediniere (occultate, prima di
attaccare, dalle dense cortine fumogene stese dal Da
Recco e da altre unità
sottili: le torpediniere attaccano il fianco della squadra e poi si
allontanano a tutta forza) ed evoluzioni della squadra, indi prove di
tiro da parte di incrociatori e cacciatorpediniere con bersaglio
il San
Marco,
da una distanza di 18 km (due idrovolanti catapultati dalle navi
osservano e riferiscono i risultati del tiro); poi tutte le navi
defilano a ridotta distanza dalle corazzate, effettuando il saluto
alla voce.
La
flotta di superficie incontra poi i sommergibili che procedono in
superficie su dieci colonne, occupando un rettangolo di 2,5 km per 4;
questi compiono un'immersione rapida di massa a venti metri e
successiva riemersione, dopo di che effettuano una salva di undici
colpi perfettamente sincronizzata, sempre in formazione.
Il
Da Recco
il 5 maggio 1938 (sopra: foto Aldo Fraccaroli via Coll. Luigi Accorsi
e www.associazione-venus.it;
sotto: da www.fleetphoto.ru)
Il
Da Recco ormeggiato a Napoli accanto a dei cacciatorpediniere
classe Freccia durante la rivista "H" (foto Spartaco
Appetiti, Archivio Luce)
8-10
giugno 1938
Il
Da Recco
assume nelle acque delle Baleari la scorta della motonave Aniene,
diretta a Siviglia con 700 tonnellate di materiali per le forze aeree
operanti in Spagna. Lasciata Palma di Maiorca (dov'è giunta da La
Spezia il 5) l'8 giugno, l'Aniene
raggiunge Siviglia il 10 giugno; il Da
Recco la scorta fino a
Ceuta.
22
giugno 1938
A
sud delle Baleari il Da
Recco assume la scorta del
piroscafo Stelvio
(nome fittizio assegnato allo spagnolo Domine,
impiegato nel trasporto di rifornimenti per le truppe nazionaliste
dall'Italia alla Spagna), partito da La Spezia e diretto a Cadice con
a bordo 427 militari e 1200 tonnellate di materiali.
25
giugno 1938
Lo
Stelvio
arriva a Cadice; il Da Recco
l'ha scortato fino a Ceuta.
29
giugno 1938
Il
Da Recco
assume nuovamente la scorta dello Stelvio,
ripartito da Cadice per tornare a La Spezia.
1°
luglio 1938
Lo
Stelvio
arriva a La Spezia.
10
luglio 1938
A
sud delle Baleari il Da
Recco assume nuovamente la
scorta dello Stelvio,
partito da La Spezia per Cadice con 401 militari e 100 tonnellate di
materiali vari. Lo scorta fino all'altezza di Ceuta; lo Stelvio
raggiunge Cadice il 14 luglio.
5
settembre 1938
Riclassificato
cacciatorpediniere, come tutti i “Navigatori”, ed assegnato come
caposquadriglia alla XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, di base a
Taranto (per altra fonte, La Spezia) e facente parte della 2a
Squadra Navale.
Insieme all'Antoniotto
Usodimare sarà uno
degli unici due “Navigatori” (su un totale di dodici unità) a
non ricevere l'ultima fase di grandi lavori di modifica (sostituzione
della prua dritta con una di tipo “oceanico” ed allargamento
dello scafo), che migliorarono la stabilità delle altre unità della
classe, aumentandone leggermente le dimensioni (250 tonnellate di
dislocamento in più) e l'autonomia ma riducendone la velocità di
3-4 nodi.
Marzo
1939
Inviato
a Tripoli.
6-7
marzo 1939
In seguito
alla notizia che il 5 marzo la flotta spagnola repubblicana è
salpata dalla sua base di Cartagena, nella fase conclusiva della
guerra civile spagnola (il conflitto terminerà di lì a meno di un
mese), lo Stato Maggiore della Regia Marina, sospettando che questa
possa essere diretta in Mar Nero per consegnarsi all'Unione
Sovietica, organizza dall'alba del 6 marzo un vasto dispositivo di
esplorazione e sorveglianza aeronavale nel Mediterraneo
centro-occidentale, volto a sbarrare la fuga alle navi repubblicane.
La
partenza della flotta repubblicana da Cartagena è stata provocata da
un'insurrezione filofranchista in città, a sua volta innescata dagli
eventi in corso nella capitale: a Madrid il colonnello Segismundo
Casado, presidente del Consiglio Nazionale di Difesa e comandante
dell'Esercito del Centro, considerando la guerra ormai persa e
volendo tentare di raggiungere una pace negoziata con Francisco
Franco ha compiuto un colpo di stato rovesciando il governo di Juan
Negrín, ritenuto troppo oltranzista perché intenzionato a
continuare la resistenza fino alla fine. La maggior parte dei
comandanti militari repubblicani hanno aderito all'iniziativa di
Casado, ed in breve tempo i golpisti sono riusciti ad assumere il
controllo di quasi tutto il territorio ancora in mano ai
repubblicani; anche a Cartagena, il mattino del 15 marzo, ufficiali
che condividono la visione di Casado ed elementi filofranchisti hanno
scatenato una rivolta, della quale i nazionalisti tentano di
approfittare inviando da Malaga e Castellon un convoglio di 16 navi
con 20.000 truppe da sbarcare a Cartagena.
I
capi rivoltosi, impadronitisi dell'Arsenale, del porto e di alcune
batterie costiere, hanno intimato alla flotta repubblicana, comandata
dall'ammiraglio Miguel Buiza Fernández-Palacios, di lasciare
immediatamente Cartagena, minacciando in caso contrario di aprire il
fuoco su di essa con le batterie costiere: poco dopo mezzogiorno del
5 marzo, pertanto, l'ammiraglio ha preso il mare con tutte le navi
ancora efficienti, ossia gli incrociatori Miguel
de
Cervantes, Méndez
Nuñez e Libertad
(nave ammiraglia di Buiza), i
cacciatorpediniere Ulloa, Escano, Gravina, Almirante Antequera, Almirante Miranda, Lepanto, Almirante Valdés e Jorge
Juan ed
i sommergibili C.2 e C.4.
Sulle
navi si sono imbarcati anche 600 profughi civili. Alla decisione di
partire, dopo l'ultimatum presentato dal generale Rafael Barrionuevo
(autoproclamatosi governatore militare di Cartagena al servizio dei
nazionalisti), ha contribuito anche un'incursione aerea da parte
dell'aviazione nazionalista, che il mattino del 5 ha gravemente
danneggiato i cacciatorpediniere Sánchez Barcáiztegui e
Lazaga
e meno seriamente il Gravina.
(A Cartagena, tuttavia, a differenza che altrove le truppe rimaste
fedeli al governo Negrín riusciranno nel pomeriggio stesso a
riprendere il controllo della situazione, neutralizzando i rivoltosi,
respingendo il tentativo di sbarco nazionalista ed affondando il
piroscafo Castillo
de
Olite,
carico di truppe franchiste, con la morte di quasi 1500 uomini).
Il
governo franchista, saputo della partenza della flotta, ha contattato
quello italiano chiedendo di impedire alle navi repubblicane di
raggiungere l'URSS, ma i comandi italiani si sono già attivati in
tal senso per conto proprio, ponendo in atto piani predisposti già
da tempo proprio per scongiurare una tale eventualità.
All'alba
del 6 marzo la X Squadriglia Cacciatorpediniere
(Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco;
capitano di vascello Mario Rossi), partita da La Spezia, viene
inviata ad ispezionare le acque tra Capo Granitola, Pantelleria e la
Tunisia (nel Canale di Sicilia), in cooperazione con aerei, mentre le
torpediniere Orsa, Procione, Spica ed Orione,
partite da Cagliari, fanno lo stesso tra la Sardegna e le coste
del Nordafrica, in cooperazione con aerei decollati dalla base
cagliaritana di Elmas. Nella tarda mattinata dello stesso giorno gli
aerei di base nelle Baleari avvistano la flotta repubblicana al largo
di Algeri per poi pedinarla per il resto del giorno, fino al largo di
Biserta.
Il mattino del 7 marzo prende il mare da Tripoli, dove
si trova in visita da tre giorni, anche la Divisione Scuola Comando
(ammiraglio Angelo Iachino), formata dal Da
Recco (capoflottiglia delle
torpediniere), dall'incrociatore leggero Giovanni
delle Bande Nere (nave
ammiraglia di Iachino) e dalle Squadriglie Torpediniere I (Airone,
Alcione,
Aretusa,
Ariel),
VIII (Lupo,
Lince,
Libra,
Lira),
XI (Cigno,
Castore,
Centauro,
Climene)
e XII (Altair,
Andromea,
Antares,
Aldebaran),
che si posiziona ad est del Canale di Sicilia e si mette alla ricerca
della flotta spagnola nelle acque comprese tra la Sicilia, Malta e
Tripoli (lungo la direttrice Tripoli-Malta est-Capo delle Correnti).
Partecipano alle ricerche aerei decollati da Sicilia, Sardegna e
Baleari; le unità sottili di base a Tripoli e Rodi vengono tenute
pronte ad uscire in mare.
L'ordine
è di localizzare le navi repubblicane e, una volta trovate, di
mantenere il contatto, senza attaccare: l'intercettazione, se si
renderà necessaria, sarà compiuta dalle forze della 1a Squadra
Navale, al comando dell'ammiraglio Arturo Riccardi. Ne fanno parte la
I Divisione Navale dell'ammiraglio Ettore Sportiello (incrociatori
pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia più
i cacciatorpediniere Vittorio Alfieri, Alfredo
Oriani, Vincenzo
Gioberti e Giosuè
Carducci della IX
Squadriglia), a questo scopo trasferita da Taranto ad Augusta il
mattino del 7 marzo, e la V Divisione Navale, composta dalle
corazzate Giulio
Cesare e Conte
di Cavour e dalla VII
Squadriglia Cacciatorpediniere (Freccia, Dardo, Saetta, Strale),
trasferitasi contestualmente da Taranto a Messina; a Messina
l'ammiraglio Riccardi, con insegna sulla Cavour,
assume la direzione delle operazioni. Le disposizioni ricevute
prevedono di ricorrere alle armi soltanto se le navi repubblicane
opporranno resistenza: si vuole infatti dirottare la flotta
repubblicana ad Augusta, non affondarla.
In realtà, tuttavia,
la flotta repubblicana non ha nessuna intenzione di andare in Unione
Sovietica. La loro destinazione è il Nordafrica francese: dopo una
notte d'incertezza circa la situazione politico-militare in Spagna,
il comandante della flotta, temendo un ammutinamento degli equipaggi
in caso di ritorno a Cartagena e nuovi attacchi aerei in altri porti
repubblicani meno difesi, ha deciso di rifugiarsi in territorio
neutrale. Anche volendo, le navi repubblicane non dispongono di
carburante sufficiente per raggiungere il Mar Nero.
Dapprima
le navi repubblicane si presentano davanti ad Orano, in Algeria, dove
l'ammiraglio Buiza chiede alle autorità francesi il permesso di
entrare in porto e farvisi internare; queste ultime, tuttavia,
respingono la richiesta e dicono a Buiza di raggiungere Biserta, in
Tunisia. Qui le navi spagnole – sempre pedinate dagli aerei
italiani durante il loro trasferimento – possono finalmente
entrare; le autorità francesi provvedono immediatamente a
sequestrarle, sbarcandone gli equipaggi ed internandoli in un campo
di concentramento vicino a Maknassy.
Quando
il Comando della Regia Marina viene a sapere, lo stesso 7 marzo, che
la flotta repubblicana è entrata a Biserta e che il locale Comando
navale francese l'ha fatta disarmare, le misure messe in atto per
intercettare la flotta repubblicana vengono annullate, non essendo
più necessarie, e tutte le navi rientrano in porto. Tre settimane
più tardi le navi repubblicane, prese in consegna da equipaggi
franchisti, saranno consegnate alla Marina nazionalista spagnola,
mentre parte degli equipaggi repubblicani sceglieranno l'esilio in
terra francese.
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Il Da Recco guida le torpediniere della Scuola Comando alla ricerca della flotta spagnola (da www.oplon.jimcdn.com) |
7-9
aprile 1939
Il Da
Recco partecipa
all'occupazione di San Giovanni di Medua durante le operazioni per
l'invasione dell'Albania (Operazione "Oltre Mare Tirana",
OMT), inquadrato nel I Gruppo Navale (al comando dell'ammiraglio di
divisione Angelo Iachino), insieme all'incrociatore leggero Giovanni
delle Bande Nere (nave
ammiraglia), ai cacciatorpediniere Folgore e Fulmine,
alle torpediniere Polluce e Pleiadi,
alla nave cisterna e da sbarco Garigliano ed
al grosso piroscafo Umbria
(altra fonte afferma che di questo gruppo avrebbe fatto parte il
Baleno
e non il Fulmine,
e che il 9 aprile vi si sarebbe aggregato anche l'incrociatore
leggero Luigi Cadorna).
Le navi di questo gruppo sono incaricate di sbarcare due compagnie
del Reggimento "San Marco" e tre battaglioni di bersaglieri
(il III Battaglione dell'8° Reggimento Bersaglieri, il VI
Battaglione del 6° Bersaglieri ed il XXVIII Battaglione del 9°
Bersaglieri), al comando del colonnello Arturo Scattini.
Lo
sbarco, preceduto da un bombardamento navale, viene contrastato dai
difensori albanesi (circa 200, secondo quanto riferito dagli
informatori) con vivo fuoco di fucileria e qualche mitragliatrice,
che causano qualche perdita; alcune navi intervengono coi loro
cannoni in supporto delle truppe da sbarco e risolvono rapidamente la
situazione in favore di queste ultime, che riescono così a
sopraffare la resistenza albanese e ad occupare San Giovanni di Medua
nel giro di un'ora circa. Sbarcano per primi gli uomini del "San
Marco", e poi i bersaglieri; anche il Bande
Nere ha a bordo dei
bersaglieri, che deve trasbordare su dei pescherecci inviati da
Brindisi, ma tale operazione subisce alcuni ritardi a causa dei
fondali bassi e del ritardo nell'arrivo dei pescherecci stessi. Date
le ridotte dimensioni e ricettività delle strutture portuali, parte
delle truppe devono essere sbarcate sulla spiaggia, anziché nel
porto. Molti dei bersaglieri, provenienti da un mondo contadino,
vedono il mare per la prima volta in questa occasione: l'ammiraglio
Iachino annoterà nel suo rapporto che, non volendo essi entrare in
acqua, vengono improvvisati dei pontiletti di sbarco che permettono
alle truppe di scendere sulla spiaggia con le loro biciclette e
motociclette senza bagnarsi.
Il
giorno seguente la colonna del colonnello Scattini, avanzando verso
nord senza incontrare molta resistenza, conquista Scutari, suo
obiettivo principale.
In
tutto la flotta italiana dispiega per l'invasione dell'Albania ben
due corazzate (Giulio Cesare
e Conte di Cavour),
otto incrociatori (i pesanti Zara,
Pola,
Fiume
e Gorizia
ed i leggeri Luigi di Savoia
Duca degli Abruzzi,
Giuseppe Garibaldi,
Giovanni delle Bande Nere,
Luigi Cadorna),
17 cacciatorpediniere, 16 torpediniere, la nave portaidrovolanti
Giuseppe
Miraglia,
dodici sommergibili e numerose unità minori ed ausiliarie, divise in
quattro gruppi; a Valona, Durazzo, San Giovanni di Medua e Santi
Quaranta vengono sbarcati complessivamente 11.300 uomini e 130 carri
armati, che avranno rapidamente ragione della debole resistenza
offerta dal piccolo esercito albanese, conquistando l'intero Paese
nel volgere di pochi giorni.
Successivamente
il Da Recco
torna a Taranto come caposquadriglia della XVI Squadriglia
Cacciatorpediniere.
11
maggio 1939
Partecipa
alla rivista navale tenuta a Napoli in onore del principe reggente
Paolo di Jugoslavia.
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Il Da Recco in uscita da Napoli l’11 maggio 1939, durante la rivista in onore di Paolo di Jugoslavia (da www.war-book.ru) |
22
ottobre 1939
Lascia
Taranto diretto a Lero; rimarrà nel Dodecaneso fino al 30 aprile
1940.
1939
Assume
il comando del Da Recco
e della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere il capitano di vascello
Ugo Salvadori, 42 anni, da Casale Marittimo.
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Il capitano di vascello Ugo Salvadori (dal “Dizionario Biografico Uomini della Marina 1861-1946”, di Paolo Alberini e Franco Prosperini) |
Maggio
1940
Torna
a Taranto, sempre come caposquadriglia della XVI Squadriglia
Cacciatorpediniere. Con essa, e con l'VIII Divisione Navale alle cui
dipendenze la squadriglia è posta, partecipa ad operazioni in
Albania nel maggio 1940.
1940
Vengono
imbarcate due tramogge per bombe di profondità da 50 e 100 kg (poco
dopo verrà eliminata la torpedine da rimorchio), e paramine tipo C
per il dragaggio in corsa.
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Il Da Recco a Tangeri insieme ad un U-Boot tedesco poco prima dello scoppio della guerra (da “The Second World War at Sea in Photographs” di Phil Carradice) |
10
giugno 1940
All'entrata
dell'Italia nella seconda guerra mondiale, il Da
Recco (capitano di vascello
Ugo Salvadori) è caposquadriglia della XVI Squadriglia
Cacciatorpediniere, che forma unitamente ai gemelli Emanuele
Pessagno, Luca
Tarigo ed Antoniotto
Usodimare.
La
squadriglia è alle dipendenze dell'VIII Divisione Navale
dell'ammiraglio Antonio Legnani (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi
e Giuseppe Garibaldi),
inquadrata nella 1a
Squadra Navale con base a Taranto.
12
giugno 1940
Alle
due di notte il Da Recco,
insieme al resto della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (Pessagno
ed Usodimare)
ed all'VIII Divisione Navale (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi
e Giuseppe Garibaldi),
nonché alla I Divisione Navale (incrociatori pesanti Zara,
Fiume
e Gorizia)
ed alla IX Squadriglia Cacciatorpediniere (Vittorio
Alfieri, Alfredo
Oriani, Vincenzo
Gioberti, Giosuè
Carducci), salpa da Taranto
alle 00.20 per un pattugliamento in Mar Ionio in appoggio ad una
formazione navale (incrociatore pesante Pola,
III Divisione Navale, XI e XII Squadriglia Cacciatorpediniere) uscita
da Messina per intercettare due incrociatori britannici
(il Caledon ed
il Calypso)
avvistati da aerei della ricognizione marittima a sud di Creta,
diretti verso ovest: gran parte della Mediterranean Fleet, al pari di
una squadra navale francese, è infatti uscita in mare a caccia,
infruttuosa, di naviglio italiano nel Mediterraneo orientale. Il
Calypso
sarà affondato quello stesso giorno dal sommergibile Alpino
Bagnolini.
Alle 9, dato che nuovi voli di ricognizione non sono
più riusciti a trovare le navi nemiche, tutte le unità italiane
ricevono ordine di tornare in porto. Durante la navigazione di
ritorno nel Mar Ionio si verificano ben cinque infruttuosi attacchi
subacquei contro gli incrociatori della I e della VIII Divisione: i
cacciatorpediniere della scorta contrattaccano e ritengono di aver
danneggiato od affondato i sommergibili attaccanti, ma si sbagliano.
.jpg) |
Il Da Recco alla fonda a Taranto nel 1940 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
7
luglio 1940
Il
Da Recco
salpa da Taranto alle 14.10 insieme a Pessagno
ed Usodimare
(coi quali forma la XVI Squadriglia Cacciatorpediniere) ed alla IV
Divisione Navale (incrociatori leggeri Alberico
Da Barbiano, Alberto
Di Giussano, Luigi
Cadorna ed Armando
Diaz, al comando
dell'ammiraglio di divisione Alberto Marenco di Moriondo), nonché
alle Divisioni Navali V (corazzate Giulio
Cesare e Conte
di Cavour) e VIII
(incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi
e Giuseppe Garibaldi,
al comando dell'ammiraglio di divisione Antonio Legnani), ed alle
Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Freccia,
Dardo,
Saetta
e Strale),
VIII (Folgore,
Fulmine,
Lampo,
Baleno),
XIV (Vivaldi,
Da Noli,
Pancaldo)
e XV (Pigafetta
e Zeno),
cioè l'intera 1a
Squadra Navale dell'ammiraglio Inigo Campioni, per fornire sostegno a
distanza ad un convoglio di quattro mercantili (più un quinto
aggregatosi da Catania) salpati da Napoli alle 19.45 del 6 e diretti
a Bengasi.
Il convoglio, formato dai trasporti
truppe Esperia e Calitea e
dalle moderne motonavi da carico Marco
Foscarini, Vettor
Pisani e Francesco
Barbaro (quest'ultima
aggregatasi da Catania, da dov'è partita a mezzogiorno del 7),
trasporta complessivamente 232 veicoli, 10.445 tonnellate di
materiali vari, 5720 tonnellate di carburante e 2190 uomini, ed ha la
scorta diretta della II Divisione Navale (incrociatori
leggeri Giovanni delle
Bande Nere e Bartolomeo
Colleoni, al comando
dell'ammiraglio di divisione Ferdinando Casardi), della X Squadriglia
Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco)
e di sei torpediniere (le
moderne Orsa, Procione, Orione e Pegaso della
IV Squadriglia e le vetuste Rosolino
Pilo e Giuseppe
Cesare
Abba,
queste ultime aggregatesi da Catania insieme alla Barbaro)
e la scorta a distanza dell'incrociatore pesante Pola,
delle Divisioni Navali I (incrociatori pesanti Zara,
Fiume
e Gorizia,
al comando dell'ammiraglio di divisione Pellegrino Matteucci), III
(incrociatori pesanti Trento
e Bolzano,
al comando dell'ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo) e VII
(Eugenio di Savoia,
Emanuele Filiberto Duca
d'Aosta, Muzio
Attendolo, Raimondo
Montecuccoli, al comando
dell'ammiraglio di divisione Luigi Sansonetti) e delle Squadriglie
Cacciatorpediniere IX (Vittorio
Alfieri, Alfredo
Oriani, Vincenzo
Gioberti, Giosuè
Carducci), XI (Aviere,
Artigliere,
Geniere
e Camicia Nera),
XII (Ascari,
Lanciere,
Carabiniere
e Corazziere)
e XIII (Granatiere,
Bersagliere,
Fuciliere,
Alpino):
la 2a Squadra
Navale, al comando dell'ammiraglio di squadra Riccardo Paladini,
imbarcato sul Pola.
Le
unità della 2a Squadra
sono partite il 7 luglio da Augusta (Pola
e XII Squadriglia, partiti alle 18.40), Palermo (VII Divisione e XIII
Squadriglia, partite alle 12.35) e Messina (I e III Divisione,
partite rispettivamente alle 14.10 e 15.45 con la IX e XI
Squadriglia). La VII Divisione con la XIII Squadriglia deve offrire
protezione a distanza contro forze navali britanniche provenienti da
Malta, il resto della 2a Squadra
contro forze provenienti da est: i due gruppi sono pertanto
posizionati rispettivamente 45 miglia ad ovest e 35 miglia ad est del
convoglio.
Comandante
superiore in mare è l'ammiraglio di squadra Inigo Campioni,
comandante della 1a Squadra
Navale, con bandiera sulla Cesare.
La XVI Squadriglia Cacciatorpediniere è alle dipendenze della IV
Divisione, mentre la VII Squadriglia è alle dipendenze della V
Divisione, e l'VIII dell'VIII Divisione.
In
origine il convoglio era scortato dalla sola IV Squadriglia
Torpediniere, ma il 7 luglio Supermarina è stata informata
dell'uscita da Gibilterra, alle otto di quel mattino, della Forza H
britannica con due corazzate, l'incrociatore da battaglia Hood,
la portaerei Ark Royal,
tre incrociatori leggeri e 13 cacciatorpediniere, ed ha dunque deciso
di far uscire in mare l'intera flotta a protezione del convoglio,
oltre a rinforzarne la scorta diretta con la II Divisione e la X
Squadriglia.
Il
gruppo di sostegno di cui fa parte il Da
Recco (ossia l'intera
1a Squadra)
dovrà operare a partire dalle sette dell'8 luglio, partendo da un
punto situato a 45 miglia per 20° dal convoglio e procedendo a 20
nodi, in modo da guadagnare “terreno” rispetto al convoglio
fiancheggiandolo nella parte di traversata in cui maggiore è il
rischio di intervento da parte di forze navali nemiche.
Il
piano stabilito da Supermarina prevede che il convoglio proceda a 14
nodi, con rotta apparente verso Tobruk, fino a giungere in un punto
situato 245 miglia a nordovest di Bengasi, dove dovrà puntare su
quest'ultimo porto. Dopo un centinaio di miglia il convoglio si
scinderà in due gruppi, uno formato da Esperia
e Calitea,
che proseguiranno a 18 nodi, ed uno formato dale altre motonavi, che
proseguiranno invece a 14 nodi.
Oltre
all'impiego della quasi totalità della flotta di superficie
suddivisa nei gruppi sopra descritti, il dispositivo di difesa del
convoglio prevede l'invio in agguato di quattro sommergibili sulla
congiungente Derna-Capo Krio, di tre ad est-nord-est di Alessandria e
di Quattro tra la congiungente Capo Lilibeo-Capo Blanc e la
congiungente Capo Passero-Malta-Zuara. Gli idrovolanti della
Ricognizione Marittima forniranno protezione antisommergibili alla
flotta alla sua partenza ed al ritorno a Taranto, ed al convoglio ed
alla sua scorta durante la navigazione; altri idroricognitori
condurranno voli di ricognizione tra Malta ed il Canale di Sicilia e
nel Mediterraneo orientale, mentre l'Armata Aerea effettuerà voli di
ricognizione ad ampio raggio nel Mediterraneo centrale, orientale ed
occidentale e su Malta, bombarderà tale isola e terrà le
squadriglie da bombardamento pronte all'azione ed impiegherà i
caccia per la scorta aerea della flotta al largo della Sicilia e nel
Golfo di Taranto il 7 ed il 9 luglio. L'Aeronautica della Libia,
infine, condurrà ricognizioni su Alessandria, attaccherà le navi
alla fonda in rada e sorveglierà le acque tra Gaudo e Ras el Tin.
.jpg) |
Il Da Recco emette una cortina fumogena (foto Massimo Messina, via www.meludo.it) |
8
luglio 1940
Alle
00.40 Supermarina comunica all'ammiraglio Campioni che da rilevazioni
radiogoniometriche risulterebbe che alle 20 della sera precedente
forze navali britanniche, provenienti da Alessandria ed aventi rotta
verso Malta, si trovavano 60 miglia a nord di Ras el Tin (45 miglia
ad est della formazione italiana), e che la ricognizione aerea ha
avvistato a Malta cinque mercantili diretti ad Alessandria.
Ricevuto
il messaggio di Supermarina all'1.50, paventando un incontro con le
forze britanniche dopo l'alba, Campioni ordina al convoglio di
passare dalla rotta 147° (per Bengasi) a 180°, per un eventuale
dirottamento su Tripoli; la VII Divisione modifica anch'essa la rotta
per dirigersi verso il convoglio. Campioni ordina inoltre al gruppo
“Pola”
di trovarsi per le 5.30 in posizione adatta per congiungersi con il
gruppo “Cesare”,
ed alla IV Divisione di catapultare due idroricognitori alle prime
luci dell'alba per esplorare l'area compresa tra i rilevamenti 90° e
140°, fino ad una distanza di cento miglia dalla Cesare.
Alle
cinque del mattino Attendolo e Montecuccoli catapultano
i loro idrovolanti da ricognizione, ma questi non trovano traccia
delle forze nemiche.
Alle
7.10, dato che i due ricognitori catapultati non hanno trovato nulla,
Campioni ordina al convoglio di rimettersi in rotta per Bengasi, ed
alla VII Divisione di accompagnarlo.
Durante
la mattinata – probabilmente tra le 6.45 e le 8, anche se l'orario
esatto non è noto a causa del successivo affondamento del Phoenix;
una fonte indica invece l'orario nelle 5.15 – il sommergibile
britannico Phoenix (capitano
di corvetta Gilbert Hugh Nowell) lancia alcuni siluri
contro Cesare e Cavour scortate
da Freccia, Dardo, Saetta e Strale,
in posizione 35°36' N e 18°28' E (o 35°40' N e 18°20' E; circa
duecento miglia ad est di Malta). L'attacco avviene da grande
distanza; le armi mancano i loro bersagli e non vengono nemmeno
avvistate, sebbene il Phoenix,
in un messaggio trasmesso al suo comando di flottiglia (in cui
riferisce di aver attaccato due corazzate scortate da quattro
cacciatorpediniere), rivendichi un possibile siluro a segno.
Alle
12.15 Supermarina informa Campioni che un nutrito gruppo navale
nemico ha lasciato Alessandria alle 16 del giorno precedente (in
realtà, questo è avvenuto a mezzanotte). Nelle ore successive le
navi britanniche, in navigazione verso ovest, vengono finalmente
avvistate da aerei della Ricognizione Marittima della Cirenaica e da
un idrovolante catapultato dal Duca
degli Abruzzi, ed attaccate
ripetutamente dai reparti da bombardamento.
Alle
14.30, con il convoglio ormai al sicuro da un intervento di forze
navali nemiche (raggiungerà indenne Bengasi tra le 18 e le 22), le
navi delle due squadre navali italiane iniziano la navigazione di
rientro, ma alle 15.20, sulla scorta degli avvistamenti aerei delle
ultime ore (che parlano di tre corazzate ed otto cacciatorpediniere,
a sud di Candia), l'ammiraglio Campioni decide di dirigere per
intercettare le navi nemiche, prima con la 2a e
poi anche con la 1a Squadra
Navale. Di questa decisione dà notizia a Supermarina alle 16; scopo
di Campioni è di impegnare le forze avversarie in combattimento
almeno un'ora prima del tramonto, per impedire loro di bombardare
Bengasi, dove si trovano le navi del convoglio impegnate nelle
operazioni di scarico, all'alba dell'indomani.
La
flotta britannica in mare, al comando dell'ammiraglio Andrew Browne
Cunningham, consiste in tre corazzate (Warspite, Malaya e Royal
Sovereign),
una portaerei (la Eagle),
cinque incrociatori leggeri
(Orion, Neptune, Sydney, Liverpool, Gloucester)
e 17 cacciatorpediniere
(Nubian, Mohawk, Decoy, Hasty, Hero, Hereward, Stuart, Decoy, Hostile, Hyperion, Ilex, Dainty, Defender, Janus, Juno, Vampire e Voyager).
Si tratta praticamente dell'intera Mediterranean Fleet, uscita da
Alessandria non per bombardare Bengasi bensì a protezione di due
convogli in navigazione da Malta ad Alessandria (operazione «MA 5»):
uno lento, di quattro mercantili capaci di 9 nodi, ed uno veloce, di
tre mercantili capaci di 13 nodi.
La
flotta britannica è divisa in tre gruppi: la Forza A del
viceammiraglio John Tovey, composta dai cinque incrociatori ed un
cacciatorpediniere; la Forza B sotto il diretto comando di
Cunningham, composta dalla Warspite
con cinque cacciatorpediniere; e la Forza C del viceammiraglio Henry
Pridham-Wippell, composta da Eagle,
Malaya,
Royal
Sovereign
ed undici cacciatorpediniere. Quattro dei cacciatorpediniere,
denominati Forza D, sono stati poi distaccati per rinforzare la
scorta dei convogli.
Alle
18.20 Supermarina, che a differenza dell'ammiraglio Campioni ha avuto
modo di apprendere, tramite la crittografia, la reale consistenza e
finalità dei movimenti britannici, ordina a Campioni di non
ingaggiare la flotta avversaria, e di attenersi alle istruzioni
vigenti per la notte ed il giorno seguente; dopo aver ricevuto e
decifrato questo dispaccio, alle 19.20 Campioni ordina alla flotta
(1a e
2a
Squadra, mentre la VII Divisione riceve ordine di rientrare per conto
proprio) di accostare per 330° per rientrare alle basi. Durante
l'accostata le navi vengono attaccate da alcuni velivoli con una
dozzina di bombe, rispondendo con intenso tiro contraereo. Le bombe
cadono vicine agli incrociatori, ma non causano danni.
Alle
22 arrivano nuovi ordini: Supermarina teme che la Mediterranean Fleet
intenda lanciare un attacco aeronavale contro le coste italiane il
pomeriggio successivo (quando si verrà a trovare ad est della
Sicilia), perciò ordina alle forze in mare di riunirsi nel punto
37°40' N e 17°20' E, 65 miglia a sudest di Punta Stilo, entro le 14
del 9 luglio. Insieme a questi ordini, trasmessi a mezzo radio
cifrato, Supermarina invia anche un telegramma con maggiori
informazioni sugli spostamenti dell'avversario (avvistati
incrociatori in posizione 37°20' N e 16°45' E, una corazzata e
cacciatorpediniere in 37°00' N e 17°00' E, due corazzate, una
portaerei e cacciatorpediniere in 36°20' N e 17°00' E; sommergibile
nemico avvistato in posizione 35°40' N e 18°05' E) e sui
provvedimenti presi (cinque sommergibili italiani si troveranno nella
zona compresa tra meridiani 17°00' e 17°40' E ed i paralleli 35°50'
e 37° N, le forze aeree di base in Puglia e Sicilia attaccheranno il
nemico dall'alba) che tuttavia raggiungerà Campioni solamente alle
3.30 del 9 perché trasmesso inizialmente con una tabella cifrata non
in possesso dell'ammiraglio, il che costringe a ritrasmetterlo una
seconda volta, dopo essersi accorti dell'errore.
Nel
frattempo Cunningham, che al momento della partenza ignorava del
tutto la presenza in mare della flotta italiana (in questa occasione,
il servizio informazioni italiano ha funzionato meglio
di quello britannico, come egli stesso ammetterà in seguito), ha
appreso per la prima volta dei movimenti italiani alle 8.07 dell'8
luglio, da un messaggio trasmesso dal Phoenix
dopo il suo fallimentare attacco (il sommergibile ha comunicato di
aver lanciato contro due corazzate scortate da quattro
cacciatorpediniere aventi rotta 180° in posizione 35°36' N e 18°28'
E, a circa 150 miglia per 140° da Capo Spartivento); intuendo che le
navi italiane fossero in mare a protezione di un convoglio diretto in
Libia, ha richiesto al comando di Malta di inviare dei ricognitori a
cercare la flotta italiana, ed alle 15.10 questi hanno avvistato due
corazzate, sei incrociatori e sette cacciatorpediniere, pur
commettendo un grossolano errore nella stima della loro posizione
(corretto è invece l'apprezzamento della rotta). Sulla scorta di
queste informazioni, alle 17.30 Cunningham ha deciso di puntare verso
Taranto alla massima velocità possibile
(solo 20 nodi, il massimo che possa raggiungere la vecchia Royal
Sovereign)
per frapporsi tra la flotta italiana e la sua base, ordinando a tutti
i gruppi dipendenti di trovarsi alle 14 dell'indomani nel punto
36°30' N e 17°40' E (sessanta miglia a nord-nord-ovest del punto di
riunione deciso da Supermarina per le forze italiane), in posizione
favorevole per dare battaglia.
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Il Da Recco prima della battaglia di Punta Stilo, il 9 luglio 1940 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
9
luglio 1940
All'1.23
il gruppo formato dal Pola
e dalla I Divisione accosta verso nord. La navigazione notturna si
svolge senza grossi inconvenienti, salvo due fallimentari attacchi
siluranti contro la III Divisione.
Verso
le 4.30, la XV Squadriglia Cacciatorpediniere avvista delle grosse
ombre verso est, il lato da cui si prevede che possa essere il
nemico, e lo comunica all'ammiraglio Campioni. Si tratta degli
incrociatori pesanti della III Divisione (Trento, Trieste e Bolzano)
che stanno passando ad est del gruppo «Cesare»
a seguito di un ordine dell'ammiraglio Paladini: questi ha infatti
precedentemente ordinato alla III Divisione di proseguire verso nord
dalle 00.45 sulla destra della I Divisione, al fine di evitare sia
d'imbattersi nella VII Divisione, che essendo in rotta verso lo
stretto di Messina si trova sulla sinistra, sia di attraversare una
zona in cui alle 22.10 Supermarina ha segnalato la presenza di due
sommergibili nemici. Quest'ordine contrasta tuttavia con quanto
ordinato in precedenza da Campioni, ma la cosa più grave è che
Paladini, ritenendo che il suo superiore abbia intercettato l'ordine
(inviato a mezzo radiosegnalatore), non lo ha informato: di
conseguenza Campioni, che non ha intercettato il messaggio, ritiene
che le sagome avvistate appartengano a navi nemiche e manda la XV
Squadriglia ad attaccarle, impartendo poco dopo analogo ordine anche
alla VIII Squadriglia. Zeno
e Pigafetta
lanciano così due siluri contro gli incrociatori della III
Divisione, fortunatamente senza colpirli; i cacciatorpediniere della
VIII Squadriglia riconoscono invece il profilo delle navi “nemiche”
come quello di incrociatori classe Trento,
permettendo così di chiarire l'equivoco senza danni.
Alle sei
del mattino l'ammiraglio Campioni autorizza le Squadriglie
Cacciatorpediniere VIII, XV e XVI (e più tardi anche la XIII: in
totale tredici unità), a corto di carburante, a raggiungere le basi
della Sicilia orientale (per la XVI Squadriglia, Augusta) per
rifornirsi rapidamente di nafta e poi ricongiungersi con la flotta
alle 14, nel punto di riunione 37°40' N e 17°20' E, od al più
tardi alle 16.
Le
unità della XVI Squadriglia non faranno però in tempo a
ricongiungersi col grosso delle forze navali prima che la battaglia
cominci, e ne resteranno così escluse (qualche sito Internet afferma
però che il Da Recco
avrebbe partecipato alla reazione contraerea contro gli attacchi
aerei lanciati contro la flotta italiana dopo la battaglia, segno –
se vero – che dopo la fine dello scontro era riuscito a
ricongiungersi alla flotta).
Terminata
l'inconclusiva battaglia, passata alla storia come di Punta Stilo, la
flotta italiana si avvia alle proprie basi. La XVI Squadriglia,
insieme alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII, VIII IX, XI, XIV e
XV (36 unità in tutto), alla corazzata Conte
di Cavour, agli
incrociatori pesanti Pola,
Zara,
Fiume
e Gorizia
ed agli incrociatori leggeri Alberico
Da Barbiano, Alberto
Di Giussano, Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi
e Giuseppe Garibaldi,
rientra ad Augusta nel pomeriggio del 9 luglio. Poco dopo mezzanotte,
però, a seguito dell'intercettazione e decifrazione di messaggi
radio britannici che facevano presagire un imminente attacco di
aerosiluranti contro il naviglio ormeggiato ad Augusta, Supermarina
ordina a tutte le navi di lasciare la base: dopo essersi
frettolosamente rifornite, le unità ripartono per le basi di
assegnazione. La XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, insieme alla XV
Squadriglia ed a Duca degli
Abruzzi e Garibaldi,
lascia Augusta alle 17.05, diretta a Taranto.
30
agosto 1940
Il
Da Recco salpa
da Augusta alle 19 per condurre un rastrello antisommergibili nel
Golfo di Taranto, con i gemelli Ugolino
Vivaldi, Antonio
Da Noli, Emanuele
Pessagno ed Antoniotto
Usodimare. Scopo del
rastrello è dare la caccia al sommergibile nemico che alle 12.30 del
giorno precedente ha attaccato infruttuosamente un convoglio –
formato dai mercantili Mauly, Bainsizza, Col
di Lana, Città
di
Bari, Maria
Eugenia, Gloriastella e Francesco
Barbaro, partiti da Napoli
per Tripoli nell'ambito dell'operazione «Trasporto Veloce Lento» e
scortati dai
cacciatorpediniere Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco e
dalle torpediniere Orsa, Procione, Orione e Pegaso –
in navigazione a sud dello stretto di Messina, 20 miglia a sud di
Capo dell'Armi.
Alle 20.25 (o 20.55) i cinque cacciatorpediniere
italiani iniziano il rastrello disponendosi in linea di fronte, ad
una distanza di quattro miglia l'uno dall'altro (da sinistra a
dritta, nell'ordine, Da
Noli – il più
vicino a Capo Spartivento, che è alla sinistra delle navi
–, Vivaldi, Da
Recco, Usodimare e Pessagno,
il più lontano dalla costa), e procedendo a 19 nodi su rotta 55°,
lungo il rilevamento ottenuto dalla rilevazione radiogoniometrica. La
notte è particolarmente buia, serena ma senza luna; il mare è
calmo.
Alle
23.50 è il Vivaldi ad
avvistare un sommergibile, il britannico Oswald,
quindici miglia a sudest di Capo Spartivento: la nave manovra
immediatamente per speronarlo, affondandolo e recuperandone poi 52
naufraghi.
.jpg) |
Il Da Recco rientra da una missione nell’estate 1940 (foto Coll. A. Barilli, da “Esploratori leggeri classe Navigatori” dell’USMM, via g.c. Marcello Risolo e www.naviearmatori.net) |
31
agosto-2 settembre 1940
Il
Da Recco
partecipa all'uscita in mare della flotta a contrasto dell'operazione
britannica «Hats».
La XVI Squadriglia Cacciatorpediniere cui
appartiene (con Emanuele
Pessagno ed Antoniotto
Usodimare) parte da Taranto
alle sei del mattino del 31 agosto insieme alla IX Divisione
(corazzate Littorio,
nave di bandiera dell'ammiraglio di squadra Inigo
Campioni, e Vittorio
Veneto), alla V Divisione
(corazzate Duilio, Conte
di Cavour e Giulio
Cesare, quest'ultima
aggregatasi solo il 1° settembre a causa di avarie), alla I
Divisione (incrociatori pesanti Zara, Pola, Fiume e Gorizia),
all'VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi e Giuseppe
Garibaldi),
all'incrociatore pesante Pola
(nave di bandiera dell'ammiraglio Angelo Iachino, comandante della
2a Squadra)
ed ad alle Squadriglie Cacciatorpediniere VII
(Freccia, Dardo, Saetta, Strale),
VIII (Folgore, Fulmine, Lampo, Baleno),
IX (Alfieri,
Oriani,
Gioberti,
Carducci),
X (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco),
XIII (Granatiere, Bersagliere, Fuciliere, Alpino)
e XV (Antonio
Pigafetta, Alvise
Da Mosto, Giovanni
Da Verrazzano e Nicolò
Zeno).
Complessivamente,
all'alba del 31 prendono il mare da Taranto, Brindisi e Messina
quattro corazzate, 13 incrociatori della I, III
(Trento, Trieste e Bolzano,
da Messina), VII (Eugenio di
Savoia, Raimondo
Montecuccoli, Muzio
Attendolo, Emanuele
Filiberto Duca d'Aosta, da
Brindisi) e VIII Divisione e 39 cacciatorpediniere (oltre a quelli
già menzionati, anche Aviere, Artigliere, Geniere e Camicia
Nera della XI
Squadriglia, e Lanciere, Carabiniere, Ascari e Corazziere della
XII Squadriglia).
«Hats»
consiste in varie sotto-operazioni: trasferimento da Gibilterra ad
Alessandria, per rinforzare la Mediterranean Fleet, della
corazzata Valiant,
della portaerei Illustrious e
degli incrociatori Calcutta e Coventry;
invio di un convoglio da Alessandria a Malta e di uno da Nauplia a
Porto Said; bombardamenti su basi italiane in Sardegna e nell'Egeo.
Supermarina ha saputo che sia la Mediterranean Fleet (da Alessandria)
che la Forza H (da Gibilterra) sono uscite in mare, e si è accordata
con la Regia Aeronautica per attaccare la prima con le forze navali
di superficie ed attacchi aerei e la seconda con aerei e
sommergibili.
La XVI Squadriglia è di scorta all'VIII
Divisione; al largo di Taranto questa si unisce alla VII Divisione,
scortata dalla XV Squadriglia, per effettuare un rastrello nel Mar
Ionio.
Alle 14.35 del 31, in posizione 37°47' N e 18°25' E, il
sottotenente di vascello Geoffrey Deryck Nicholson Milner, ufficiale
di guardia sul sommergibile britannico Parthian (capitano
di corvetta Richard Micaiah Towgood Peacock), avvista due navi
appartenenti al gruppo composto da VII e VIII Divisione, che in quel
momento procede con la XVI Squadriglia disposta a proravia degli
incrociatori e la XV Squadriglia posizionata in linea di fila sul
lato sinistro. Alle 14.39 il Parthian si
avvicina per attaccare la nave più a destra, ma alle 14.42
interrompe l'attacco, avendola identificata come un
cacciatorpediniere classe Navigatori (anche il secondo è una nave di
questo tipo, e nel frattempo ne sono stati avvistati altri tre); un
minuto dopo, però, avvista gli incrociatori dell'VIII Divisione,
identificati erroneamente come della classe Zara,
a 7300 metri di distanza, pertanto riprende l'attacco. La velocità
dei bersagli è stimata in 24 nodi.
Superato
lo schermo della XV Squadriglia (che procede in linea di fila,
Pigafetta
in testa, sul fianco sinistro della formazione, mentre la XVI
Squadriglia precedono gli incrociatori) passandole sotto, alle 14.52
(in posizione 37°45' N e 18°22' E secondo le fonti britanniche e
37°45' N e 18°35' E per quelle italiane, circa 105 miglia ad
est-sud-est di Capo Spartivento) il Parthian
lancia sei siluri da appena 320 metri di distanza, dopo di che scende
in profondità. Benché sul Parthian
vengano avvertite due esplosioni dopo 13 e 16 secondi, nessuna delle
armi è andata a segno: una vedetta sul Duca
degli Abruzzi ha avvistato
il periscopio del sommergibile a soli trecento metri di distanza, poi
la “bolla di lancio” generata dal lancio dei siluri e poi due
scie; i siluri vengono tutti evitati.
Il
secondo incrociatore passa sulla verticale del Parthian
quando questi si trova a 18 metri; alle 15.07 ha inizio il
contrattacco, ma vengono lanciate soltanto nove bombe di profondità,
nessuna delle quali esplode vicina. Alle 16.10 il sommergibile non
rileva più rumore di macchine, e quando alle 17.20 torna a quota
periscopica le navi italiane non sono più in vista.
Le due
Squadre Navali italiane (la 1a Squadra,
al comando dell'ammiraglio Inigo Campioni – con insegna
sulla Littorio –,
è composta dalle Divisioni V, VII, VIII e IX e dalle Squadriglie
Cacciatorpediniere VII, VIII, X, XIII, XV e XVI; la 2a Squadra
dal Pola,
dalle Divisioni I e III e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere IX, XI
e XII), riunite, dirigono per lo Ionio orientale con rotta 150°. Le
forze navali sono però uscite in mare troppo tardi, hanno l'ordine
di evitare uno scontro notturno ed hanno una velocità troppo bassa
(20 nodi), ed hanno l'ordine di cambiare rotta e raggiungere il
centro del Golfo di Taranto se non riusciranno ad entrare in contatto
con il grosso nemico entro il tramonto. Tutto ciò impedisce alle
forze italiane di intercettare quelle britanniche; alle 16
Supermarina ordina un cambiamento di rotta, che impedisce alla
2a Squadra,
che si trova in posizione più avanzata della 1a,
di proseguire verso le forze nemiche (l'ammiraglio Iachino,
comandante la 2a Squadra,
ha chiesto ed ottenuto alle 16.30 libertà di manovra per dirigere
contro le forze britanniche, segnalate alle 15.35 a 120
miglia di distanza, ma alle 16.50 tale autorizzazione viene
annullata; comunque la 2a Squadra
non sarebbe egualmente riuscita a raggiungere le unità avversarie).
Alle 17.27 la 2a Squadra
riceve l'ordine d'invertire la rotta ed assumere rotta 335° e
velocità 20 nodi, come la 1a Squadra.
Alle
22.30 del 31 la formazione italiana, che procede a 20 nodi, riceve
l'ordine di impegnare le forze nemiche lungo la rotta 155°, a nord
della congiungente Malta-Zante, dunque deve cambiare la propria rotta
per raggiungerle (o non potrebbe prendere contatto con esse),
dirigendo più verso sudovest (verso Malta) e superando la
congiungente Malta-Zante. Il mattino del 1° settembre, tuttavia, il
vento, già in aumento dalla sera precedente, dà origine ad una
violenta burrasca da nordovest forza 9; le forze italiane si
allontanano nuovamente dal Golfo di Taranto per cercare di nuovo
quelle avversarie lungo la rotta 155° ma con l'ordine di non
oltrepassare la congiungente Malta-Zante, il che tuttavia le tiene
lontane dalle rotte possibili da Alessandria a Malta. Verso le 13 la
burrasca costringe la flotta italiana a tornare alle basi, perché i
cacciatorpediniere non sono in grado di tenere il mare
compatibilmente con le necessità operative (non potendo restare in
formazione né usare l'armamento). Poco dopo la mezzanotte del 1°
settembre le unità italiane entrano nelle rispettive basi; tutti i
cacciatorpediniere sono stati danneggiati (specie alle
sovrastrutture) dal mare mosso, alcuni hanno perso degli uomini in
mare.
Le navi verranno tenute pronte a muovere sino al
pomeriggio del 3 settembre, ma non si concretizzerà alcuna nuova
occasione.
%20ed%20Usodimare%20estate%201940%20(da%20pagina%20fb%20Ct%20classe%20Navigatori).jpg) |
Il Nicoloso Da Recco, a sinistra, e l’Antoniotto Usodimare nell’estate del 1940 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
29
settembre-1° ottobre 1940
Il
Da Recco lascia
Taranto la sera del 29 settembre, insieme a Pessagno
ed Usodimare
(la XVI Squadriglia) nonché all'incrociatore pesante Pola,
alle Divisioni I (incrociatori pesanti Zara, Fiume, Gorizia),
V (corazzate Giulio Cesare e Conte
di Cavour), VII
(incrociatori leggeri Muzio Attendolo e Raimondo Montecuccoli,
da Brindisi), VIII (incrociatori leggeri Giuseppe
Garibaldi e Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi)
e IX (corazzate Littorio e Vittorio
Veneto) e le Squadriglie
Cacciatorpediniere VII (Dardo, Saetta, Strale),
X (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco),
XIII (Granatiere, Bersagliere, Alpino)
e XV (Da Mosto, Da
Verrazzano) (il Pola con
la I Divisione e 4 cacciatorpediniere partono alle 18.05 e le altre
unità alle 19.30) e da Messina la III Divisione con 4
cacciatorpediniere per contrastare un'operazione britannica in corso,
la «MB. 5», consistente nell'invio a Malta degli
incrociatori Liverpool e Gloucester con
1200 uomini e rifornimenti e nel contemporaneo invio da Porto Said al
Pireo del convoglio «AN. 4», il tutto con l'uscita in mare delle
corazzate Valiant e Warspite,
della portaerei Illustrious,
degli incrociatori York, Orion e Sydney e
di undici cacciatorpediniere a copertura dell'operazione.
Alle
18.05 del 29 settembre escono in mare da Taranto il Pola (nave
di bandiera dell'ammiraglio Angelo Iachino, comandante la
2a Squadra),
la I Divisione con Zara, Fiume e Gorizia e
la IX Squadriglia Cacciatorpediniere
(Oriani, Alfieri, Gioberti, Carducci)
più l'Ascari della
XII Squadriglia, seguiti alle 19.30 dalle Divisioni V
(corazzate Giulio
Cesare e Conte
di Cavour), VI
(corazzata Duilio),
VII (incrociatori leggeri Muzio
Attendolo e Raimondo
Montecuccoli, da Brindisi),
VIII (incrociatori leggeri Giuseppe
Garibaldi e Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi)
e IX (corazzate Littorio –
nave di bandiera dell'ammiraglio Inigo Campioni, comandante la
1a Squadra
– e Vittorio Veneto)
e dalle Squadriglie Cacciatorpediniere VII (Dardo, Saetta, Strale),
X (Maestrale, Grecale, Libeccio, Scirocco),
XIII (Granatiere, Bersagliere, Alpino),
XV (Da Mosto, Da Verrazzano)
e XVI (Pessagno, Usodimare).
Si tratta di uno dei più imponenti dispiegamenti di forze da parte
della Marina italiana nel corso del conflitto.
La formazione
uscita da Taranto assume rotta 160° e velocità 18 nodi, riunendosi
con le navi provenienti da Messina alle 7.30 del 30 settembre. In
mancanza di elementi sufficienti ad apprezzare la composizione ed i
movimenti della Mediterranean Fleet ed in considerazione dello
svilupparsi di una burrasca da scirocco (che
avrebbe reso impossibile una navigazione ad alta velocità verso sud
da parte dei cacciatorpediniere) Supermarina decide di rinunciare a
contrastare l'operazione ed ordina alle unità in mare di invertire
la rotta alle 6.25 del 30 ed incrociare dapprima tra i paralleli 37°
e 38°, poi (dalle 10.30) 38° e 39° ed alle 14 fare rotta verso
sudovest sino a raggiungere il 37° parallelo, poi, alle 17.20, di
rientrare alle basi.
Alle
12.43, intanto, la Vittorio
Veneto avvista il
periscopio del sommergibile britannico Regent
(capitano di corvetta Hugh Christopher Browne) che alle 12.24 ha
avvistato la squadra italiana in posizione 38°09' N e 18°17' E e si
è avvicinato per attaccare, ed alle 13.39 ha lanciato cinque siluri
contro la Duilio,
venendo poi ad affiorare accidentalmente a causa di una perdita di
assetto provocata dal lancio. Nessuno dei siluri va a segno; il
contrattacco dei cacciatorpediniere inizia soltanto alle 14.05 e non
arreca danni al Regent,
frattanto sceso a 90 metri di profondità, in quanto le bombe di
profondità esplodono lontane.
Navigando
nella burrasca, la flotta italiana raggiunge le basi tra l'una e le
quattro del mattino del 1° ottobre, vi si rifornisce in fretta e
rimane in attesa di un'eventuale nuova uscita per riprendere il
contrasto, ma in base alle nuove informazioni ottenute ciò risulterà
impossibile, pertanto, alle 14.00 del 2 ottobre, le navi riceveranno
l'ordine di spegnere le caldaie.
11-12
novembre 1940
Il
Da Recco
si trova ormeggiato in Mar Piccolo a Taranto (banchina
torpediniere/banchina di Porta Ponente) insieme al resto della XVI
Squadriglia (Pessagno
e Usodimare)
ed a numerose altre unità (incrociatori pesanti Trieste
e Pola,
incrociatori leggeri Duca
degli Abruzzi e Garibaldi,
nave portaidrovolanti Giuseppe
Miraglia,
rimorchiatore di salvataggio Teseo,
posamine Vieste,
cacciatorpediniere Freccia,
Dardo,
Saetta,
Strale,
Maestrale,
Grecale,
Libeccio,
Scirocco,
Geniere,
Camicia Nera,
Carabiniere,
Corazziere,
Ascari,
Lanciere,
torpediniere Pallade,
Polluce,
Partenope
e Pleiadi),
quando la base viene attaccata da aerosiluranti britannici che
affondano la corazzata Conte
di Cavour e pongono fuori
uso la Littorio
e la Duilio.
Mentre
gli aerosiluranti attaccano le corazzate, cinque bombardieri
attaccano a più riprese le unità presenti in Mar Piccolo, a scopo
diversivo, sganciando complessivamente una sessantina di bombe.
Alle
23.15 dell'11 le navi in Mar Piccolo aprono il fuoco contro alcuni
aerei che sganciano bombe da una quota valutata in 500 metri; gli
ordigni inquadrano i posti d'ormeggio dei cacciatorpediniere.
Tra
le 23.30 e le 23.40 altri due aerei, da quote comprese tra i 500 ed i
900 metri, sganciano diverse bombe che cadono 20-30 metri a proravia
dei cacciatorpediniere ormeggiati all'estremità orientale della
linea degli ormeggi. Alle 00.30, infine, un ultimo bombardiere,
preceduto da due bengalieri, sgancia da circa 900 metri un grappolo
di 6 bombe, delle quali 4 cadono in mare tra Trento
e Miraglia,
una colpisce il Trento
senza esplodere, ed una cade in mare tra la prua del Duca
degli Abruzzi ed i
cacciatorpediniere ormeggiati alle boe. Il Da
Recco non subisce danni,
mentre il Pessagno
subisce alcuni danni alla carena per effetto dell'esplosione di
alcune bombe cadute in mare a poca distanza.
22
novembre 1940
In
questa data due membri dell'equipaggio del Da
Recco, il marinaio
cannoniere Pietro Bertolozzi ed il marinaio Giuseppe D'Adamo,
entrambi ventenni (Bertolozzi originario di Bagnolo Mella, D'Adamo di
Portovenere), muoiono a bordo della nave, ed un terzo, il
ventitreenne marinaio Valerio Gardella da Neirone, risulta essere
deceduto a terra il giorno seguente. Non è stato possibile risalire
alle cause di queste morti; in questa data il Da
Recco si trovava in porto a
Taranto, e non vi furono attacchi aerei. Sembra probabile si sia
verificato un incidente non meglio precisabile.
.jpg) |
Il Da Recco in transito nel canale navigabile di Taranto nel 1940 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
28
novembre 1940
Il
Da Recco,
insieme ai gemelli Antonio
Pigafetta ed Emanuele
Pessagno (insieme ai
quali forma la XVI Squadriglia Cacciatorpediniere), al ben più
vecchio cacciatorpediniere Augusto
Riboty
ed alle torpediniere Angelo
Bassini
e Generale
Marcello
Prestinari
(queste ultime sono incaricate di precedere i cacciatorpediniere
eseguendo dragaggio in corsa),
salpa da Brindisi alle 2.45 per eseguire un'azione di bombardamento
contro le installazioni militari greche sulla costa settentrionale e
nordorientale di Corfù.
Le
navi iniziano il bombardamento alle 7.58 e lo concludono alle 8.57,
dopo aver sparato in tutto circa 1600 colpi da 102 e 120 mm, da
distanze comprese tra i 3 ed i 9 km. I risultati del cannoneggiamento
vengono giudicati come soddisfacenti (per altra fonte, il
bombardamento non avrebbe prodotto effetti apprezzabili), mentre la
reazione delle batterie costiere greche è valutata come debole (per
altra fonte, del tutto assente); le navi italiane rientrano a
Brindisi alle 14.50 per rifornirsi di munizioni.
Quella
del 28 novembre è la prima delle tredici azioni di bombardamento
controcosta effettuate da navi da guerra italiane durante la campagna
di Grecia: lo Stato Maggiore della Marina, poco convinto – a
ragione – dell'efficacia di azioni di questo tipo (come ha potuto
constatare dall'osservazione dei risultati di analoghe azioni di
bombardamento navale britanniche contro obiettivi costieri italiani
in Africa Settentrionale, che hanno in genere causato danni piuttosto
limitati), ha alla fine ceduto – per considerazioni di natura
“etica e politica” – alle insistenti pressioni dell'Esercito,
che da tempo richiede che la Marina bombardi con le sue navi
obiettivi costieri sul fronte greco-albanese.
Per
altra fonte il Da Recco
non avrebbe partecipato a quest'azione.
6-7
dicembre 1940
Il
Da Recco
(capitano di vascello Ugo Salvadori) partecipa ad un'altra azione di
bombardamento controcosta sulle coste albanesi.
9
dicembre 1940
In
seguito alle perdite subite nella “Notte di Taranto”, le due
Squadre Navali vengono fuse in una sola Squadra. La XVI Squadriglia
Cacciatorpediniere rimane sempre alle dipendenze dell'VIII Divisione.
18
dicembre 1940
Nel
primo pomeriggio il Da Recco
(capitano di vascello Ugo Salvadori) partecipa, insieme agli
incrociatori leggeri Eugenio
di Savoia e Raimondo
Montecuccoli (VII
Divisione) ed ai cacciatorpediniere Emanuele
Pessagno, Antonio
Pigafetta, Alvise
Da Mosto, Giovanni
Da Verrazzano, Nicolò
Zeno ed Augusto
Riboty,
ad un'azione di bombardamento lungo la costa greco-albanese, contro
posizioni greche nella zona di Lukova, località costiera situata
trenta chilometri a nord del Canale di Corfù.
Le
navi italiane sono divise in due gruppi: i due incrociatori più Da
Recco, Pessagno, Pigafetta
e Riboty
(che formano la XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, cui è
temporaneamente aggregato il vecchio Riboty) sparano
contro Lukova (i due incrociatori tirano in tutto 160 colpi da 152 mm
contro la strada costiera, arrestando l'avanzata ellenica e dando
così alla 51a
Divisione Fanteria "Siena" il tempo di riorganizzarsi; i
greci mettono frettolosamente in batteria alcuni di cannoni di
piccolo calibro appartenenti a batterie campali e rispondono al fuoco
con una quindicina di salve, ma non causano niente più che lievi
danni da schegge agli incrociatori ed al Pigafetta),
mentre Zeno, Da
Mosto e Da
Verrazzano bersagliano
la strada costiera più a nord, bloccando il traffico che si svolge
lungo di essa e facendo così fallire il tentativo dei greci di
avanzare su Valona dalla Val Sushitza.
L'azione
di fuoco si protrae dalle 14.24 alle 14.58. Le batterie costiere
greche (altra fonte parla di alcuni cannoni di piccolo calibro messi
rapidamente in batteria per l'occasione) reagiscono con sedici salve
di due colpi ciascuna, nessuna delle quali va a segno (subiscono
lievi danni da schegge, col ferimento non grave di tre uomini,
il Pigafetta
e gli incrociatori).
Quest'azione, sollecitata dal generale
Giovanni Messe (comandante il Corpo d'Armata Speciale, dislocato nel
settore costiero del fronte), contribuirà al fallimento
dell'offensiva ellenica contro Valona e varrà al comandante
Salvadori la Croce di Guerra al Valor Militare (motivazione: "Al
comando di unità complessa, dirigeva ed eseguiva importanti azioni
di bombardamento costiero ottenendo visibili effetti distruttivi sul
nemico ed efficace protezione delle nostre truppe combattenti lungo
il litorale").
1940-1941
Lavori
di modifica dell'armamento: vengono eliminate le due mitragliere
singole Vickers-Terni Mod. 1917 da 40/39 mm e le quattro Breda binate
da 13,2/76 mm, mentre vengono installate due mitragliere singole
Scotti-Isotta Fraschini Mod. 1939 da 20/70 mm e sette, anch'esse
singole, Breda Mod. 1940 da 20/65 mm.
Gli
impianti lanciasiluri binati vengono sostituiti con altrettanti
trinati, in linea.
9-10
gennaio 1941
Nella
notte tra il 9 ed il 10 e per l'intera giornata del 10 la XVI
Squadriglia Cacciatorpediniere (caposquadriglia il Da
Recco), insieme alla XV
Squadriglia ed alla VII (Eugenio
di Savoia) e VIII Divisione
Navale (Duca degli Abruzzi),
compie una crociera protettiva nel Canale d'Otranto a tutela del
traffico con l'Albania in seguito alla notizia di movimenti navali
britannici nel Mediterraneo centrale (le navi britanniche sono in
mare per l'operazione «Excess», volta a rifornire Malta con due
convogli da Gibilterra ed Alessandria, ma questo Supermarina non può
saperlo con certezza, pertanto dispone la crociera protettiva nel
Canale d'Otranto a scopo precauzionale.
4
marzo 1941
Nel
pomeriggio il Da Recco,
partito da Brindisi, partecipa ad un'altra azione di
bombardamento navale a supporto delle operazioni sul fronte
greco-albanese, insieme al Pessagno,
alle torpediniere Altair
ed Aretusa
ed agli incrociatori leggeri Giuseppe
Garibaldi e Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi dell'VIII
Divisione. Le navi italiane cannoneggiano le località costiere di
Pikerasi e Borsh ed il ponte di Dorshit, obiettivo strategico in quel
settore del fronte da distruggere ad ogni costo, cosa che nelle
settimane precedenti l'Aeronautica, nonostante diversi tentativi, non
è riuscita a fare. Nella loro azione di bombardamento, le navi
italiane si spingono fino a 3500 metri dalla costa.
Quest'azione
non sfugge alla ricognizione aerea britannica, e circa quindici
minuti dopo l'inizio del tiro da parte di Duca
degli Abruzzi e Garibaldi,
si presentano sul cielo della formazione italiana dodici bombardieri
Bristol Blenheim dell'84th e
211st Squadron
della Royal Air Force, scortati da 10 caccia Hawker Hurricane e 17
Gloster Gladiator. I Blenheim attaccano gli incrociatori sganciando
una cinquantina di bombe da una quota di 3500 metri, senza successo,
mentre le due unità reagiscono con il tiro dei loro pezzi contraerei
da 100 mm; subito dopo la scorta aerea della formazione italiana,
costituita da 15 caccia FIAT G. 50, ingaggia gli assalitori, e nella
successiva battaglia aerea vengono abbattuti due Hurricane e due G.
50.
Terminato
l'attacco aereo, le navi italiane riprendono la loro azione di
bombardamento, che si conclude con la distruzione di due arcate del
ponte di Dorshit; così completata la missione, la formazione rientra
a Brindisi senza essere ulteriormente molestata.
Per
quest'azione il comandante Salvadori riceverà la Medaglia di Bronzo
al Valor Militare (motivazione: "Comandante
di Squadriglia di cacciatorpediniere, di scorta ad una Divisione di
incrociatori che effettuava in pieno giorno un'ardita ed efficace
azione di bombardamento contro importanti posizioni della costa
nemica, assolveva i suoi compiti con serenità, prontezza ed
ardimento. Fatte segno le unità al suo comando a ripetuto fuoco da
parte delle numerose batterie terrestri e dei bombardieri nemici,
affrontava la situazione con elevato spirito combattivo, proseguendo
con coraggio e audacia nell'assolvimento della missione").
.jpg) |
Il Da Recco ad inizio 1941 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
26
marzo 1941
Alle
19 (per altra fonte alle 21) il Da
Recco (capitano di vascello
Ugo Salvadori), insieme al Pessagno
(capitano di fregata Carlo Giordano), col quale forma la XVI
Squadriglia, ed agli incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi
(capitano di vascello Vittorio Bacigalupi) e Giuseppe
Garibaldi (capitano di
vascello Stanislao Caraciotti) della VIII Divisione (ammiraglio di
divisione Antonio Legnani, con insegna sul Duca
degli Abruzzi), salpa da
Brindisi per raggiungere un punto di riunione situato circa 55 miglia
a sudest di Capo Spartivento Calabro.
Contemporaneamente
prendono il mare anche la corazzata Vittorio
Veneto (capitano di
vascello Giuseppe Sparzani), scortata dai cacciatorpediniere
Maestrale
(capitano di vascello Ugo Bisciani), Grecale
(capitano di fregata Edmondo Cacace), Libeccio
(capitano di fregata Enrico Simola) e Scirocco
(capitano di fregata Domenico Emiliani) della X Squadriglia (poi
sostituiti da Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della
XIII Squadriglia, comandati rispettivamente dal capitano di vascello
Vittorio De Pace e dai capitani di fregata Giuseppe De Angioy,
Alfredo Viglieri e Giuseppe Marini), da Napoli, gli incrociatori
pesanti Zara
(capitano di vascello Luigi Corsi), Pola
(capitano di vascello Manlio De Pisa) e Fiume
(capitano di vascello Giorgio Giorgis) della I Divisione (al comando
dell'ammiraglio di divisione Carlo Cattaneo, con insegna sullo Zara)
con i cacciatorpediniere Vittorio
Alfieri (capitano di
vascello Salvatore Toscano), Alfredo
Oriani (capitano di fregata
Vittorio Chinigò), Vincenzo
Gioberti (capitano di
fregata Marc'Aurelio Raggio) e Giosuè
Carducci (capitano di
fregata Alberto Ginocchio) della IX Squadriglia, da Taranto, e gli
incrociatori pesanti Trento
(capitano di vascello Alberto Parmigiano), Trieste
(capitano di vascello Umberto Rouselle) e Bolzano
(capitano di vascello Francesco Maugeri) della III Divisione (al
comando dell'ammiraglio di divisione Luigi Sansonetti, con insegna
sul Trieste)
con i cacciatorpediniere Ascari
(capitano di fregata Marco Calamai), Corazziere
(capitano di vascello Carmine D'Arienzo) e Carabiniere
(capitano di fregata Giacomo Sicco) della XII Squadriglia da Messina.
Comandante della squadra italiana è l'ammiraglio di squadra Angelo
Iachino, imbarcato sulla Vittorio
Veneto.
Inizia
così l'operazione «Gaudo», un'incursione contro il traffico
britannico nel Mediterraneo orientale, a nord di Creta. La partenza è
avvenuta col favore del buio per meglio tutelarne la segretezza; la I
e la VIII Divisione, con le rispettive squadriglie di
cacciatorpediniere, dovranno riunirsi 55 miglia a sudest di Capo
Spartivento Calabro formando un unico gruppo.
Dopo
la riunione, la flotta italiana dovrà dirigere verso la Libia per
trarre in inganno eventuali ricognitori britannici, finché, giunta
in un punto prestabilito al largo di Capo Passero, si dividerà
nuovamente nei due gruppi che avrebbero poi diretto verso i
rispettivi obiettivi.
La
I e la VIII Divisione (insieme ai sei cacciatorpediniere della IX e
XVI Squadriglia), riunite sotto il comando dell'ammiraglio Cattaneo,
devono portarsi a nord di Creta, passando tra Cerigotto e Capo Spada,
poi proseguire sino a giungere a 30 miglia a sud di Stampalia per la
loro puntata offensiva; la Vittorio
Veneto e la III
Divisione, insieme alla XII e XIII Squadriglia Cacciatorpediniere
(sette unità), devono invece raggiungere le acque di Gaudo, a sud di
Creta, per compiervi una scorreria. Entrambi i gruppi sono incaricati
di attaccare i convogli britannici in navigazione tra la Grecia e
l'Egitto (nell'ambito dell'operazione britannica «Lustre»), se in
condizioni di superiorità, per poi fare rapidamente alle basi
ritorno dopo aver inflitto il maggior danno possibile. Qualora siano
avvistate da superiori forze avversarie prima di arrivare nelle acque
di Creta, le navi italiane dovranno abortire l'operazione, venendo a
mancare la sorpresa.
L'ordine
d'operazione per il Gruppo «Zara»,
formato dalla I e VIII Divisione con le relative squadriglie di
cacciatorpediniere, recita «Gruppo
Zara composto I e VIII Divisione navale lasci base prime ore giorno
X-1 et regoli propri movimenti in modo trovarsi alle 20.00 giorno X-1
in punto lat. 35°46' e long. 19°34' et diriga poi per passare ore
04.00 giorno X fra Cerigotto et Capo Spada alt Prosegua quindi per
levante fino at meridiano Capo Tripiti e poi per scoglio Karavi dove
dovrà trovarsi ore 08.00 giorno X alt Da tale punto diriga per
ripassare fra Capo Spada e Cerigotto et quindi per punto miglia 90 a
ponente di Cerigotto dove dovrà trovarsi ore 13.30 giorno X et
quindi per rientro basi alt In caso avvistamento unità nemiche
attaccare a fondo soltanto se in condizioni favorevoli di relatività
di forze alt». La
segretezza dell'operazione «Gaudo», fondamentale per la sua
riuscita, è però svanita prima ancora del suo inizio: l'aumento
delle ricognizioni effettuate dalla Regia Aeronautica in Mar Egeo è
stato notato dall'ammiraglio Andrew Browne Cunningham, comandante
della Mediterranean Fleet; ed i ricognitori decollati da Malta hanno
avvistato la I Divisione a Taranto, base che fino ad allora, dopo la
notte di Taranto, era stata abbandonata da ogni nave maggiore.
Intuendo che la Marina italiana stia preparando una mossa contro i
convogli britannici per la Grecia, Cunningham ha ordinato che le
ricognizioni sulle principali basi navali italiane e sulle probabili
rotte che la flotta italiana potrebbe seguire vengano aumentate sino
al massimo possibile, e disloca in quelle acque tutti i sommergibili
disponibili.
Le
decrittazioni, da parte di “ULTRA”, di comunicazioni della
Luftwaffe in cui si annuncia che questa darà ad una forte squadra
navale italiana che dovrà presto effettuare una scorreria in Egeo,
hanno dato a Cunningham la conferma circa le sue supposizioni;
infine, il 25 marzo “ULTRA” ha intercettato una comunicazione di
Supermarina (partita da Roma e diretta a Rodi) in cui si dice che
«Oggi 25 marzo est giorno X
meno 3». Tra il 25 ed il
26, ulteriori intercettazioni hanno aggiunto informazioni a quelle
già note ai britannici, pur non componendo ancora un quadro
particolarmente nitido.
Cunningham
ha subito preso tutti i provvedimenti del caso, ordinando
ricognizioni aeree su Taranto, Napoli, Brindisi e Messina per il
pomeriggio del 27, la sospensione di ogni traffico da e per la Grecia
– tranne i convogli «AG 8», già partito il 26 marzo da
Alessandria per la Grecia con la scorta di due incrociatori antiaerei
e tre cacciatorpediniere, e «GA 8» (un mercantile, l'incrociatore
leggero Bonaventure e
due cacciatorpediniere), che sarebbe partito il 29 seguendo la rotta
opposta ed arrivando ad Alessandria due giorni dopo (senza
il Bonaventure,
affondato dal sommergibile italiano Ambra)
–, il ritiro di tutte le unità di vigilanza in servizio a Suda ed
al Pireo per porle sotto la protezione delle difese locali,
l'immediato stato di allerta per tutta la Mediterranean Fleet;
l'uscita dal Pireo, il 27 marzo (il giorno prima di quello fissato
per l'operazione italiana), della 7th Cruiser Division (Forza B)
dell'ammiraglio Henry Pridham-Wippell per un pattugliamento del mare
attorno a Gaudo, isolotto a sud di Creta (le navi di Pridham-Wippell
salperanno la sera del 27, con l'ordine di essere 30 miglia a sud di
Gaudo per le 6.30 del 28), l'invio dei sommergibili Rover
e Triumph
in probabili punti di passaggio della squadra italiana, il rinforzo
delle difese contraeree di Suda (con l'invio dell'incrociatore
antiaereo Carlisle),
il potenziamento delle squadriglie di aerosiluranti di Creta e della
Cirenaica (e si preparano anche reparti di bombardieri Bristol
Blenheim).
27
marzo 1941
Alle
10.30 del 27 la I e la VIII Divisione (con IX e XVI Squadriglia) si
riuniscono 55 miglia a sudest di Capo Passero, poi si posizionano 16
miglia a poppavia della Vittorio
Veneto, che è a sua volta
preceduta di 7 miglia dalla III Divisione. La foschia ed il vento di
scirocco
ostacolano il mantenimento della formazione, mentre non vi sono
difficoltà nel mantenere la velocità prefissata.
La
navigazione prosegue senza incidenti – ma nella preoccupante
assenza della poderosa scorta aerea tedesca prevista: non si vedono
che idrovolanti CANT Z. 506 che forniscono per qualche ora scorta
antisommergibile, e più tardi qualche aereo tedesco in lontananza
che passa senza dar segno d'aver visto le navi – sino alle 12.25,
quando il Trieste annuncia
che la III Divisione è stata localizzata da un idroricognitore
britannico Short Sunderland (un velivolo del 230th
Squadron RAF decollato dalla base greca di Scaramanga, ai comandi del
capitano pilota Donovan Gerhard Bohem). Compreso che la sorpresa,
presupposto fondamentale per la riuscita della missione, non c'è
più, Iachino domanda quindi a Supermarina se debba annullare la
missione e rientrare alla base; in una concitata riunione si conclude
che la sorpresa è venuta a mancare, ma che il ricognitore non ha
avvistato che una porzione della squadra italiana, pertanto si decide
di proseguire, preferendo rischiare una trappola,
che far sembrare ai tedeschi (che hanno sollecitato un atteggiamento
più offensivo da parte della Marina italiana, in risposta a cui è
stata pianificata l'operazione «Gaudo») ed a Mussolini che la
Marina si ritiri alle prime difficoltà.
In
seguito a ciò, la formazione italiana, poco dopo le 14, accosta per
150° (prima la rotta era 134°) per ingannare il ricognitore, e
mantiene questa rotta sino alle 16, dopo di che riaccosta per 130°,
e poi – alle 19.30 – per 98° portando la velocità a 23 nodi,
così da giungere nel punto prestabilito a sud di Gaudo all'alba del
28. Alle 22 Supermarina annulla l'attacco a nord di Creta, dato che
la ricognizione ha rivelato che non c'erano convogli da attaccare (ed
anche per il rischio che gli incrociatori del gruppo «Zara»
vengano attaccati da forze britanniche, di cui si ha contezza dopo
l'avvistamento del Sunderland), pertanto la I e VIII Divisione
ricevono l'ordine di ricongiungersi con la Vittorio
Veneto e la III
Divisione all'alba del giorno seguente, al largo di Gaudo ed a
sudovest di Creta («Destinatari
V. VENETO per Squadra e Zara per Divisione alt Modifica ordine di
operazione gruppo Cattaneo si riunisca dopo alba domani 28 corrente
gruppo Iachino alt Programma Iachino resta invariato»).
In base a rilevazioni radiogoniometriche, si ritiene che in quella
zona si troveranno, il giorno seguente, alcuni incrociatori leggeri e
cacciatorpediniere britannici.
Intanto,
alle 19, il grosso della Mediterranean Fleet – le
corazzate Barham, Valiant e Warspite,
la portaerei Formidable e
nove cacciatorpediniere, cioè la Forza A e la Forza C – è salpato
furtivamente da Alessandria, sotto il comando di Cunningham, per
intercettare la formazione di Iachino. Unico intoppo nel piano
britannico, la bassa velocità (19-20 nodi) che la forza navale deve
tenere per non lasciare indietro la Warspite,
che ha aspirato della sabbia nell'uscire dal porto con conseguenze
ostruzione dei condensatori dell'apparato evaporatore. Ciò ritarderà
la riunione tra le Forze A e C e la Forza B di Pridham-Wippell,
impedendo che tali forze riunite incontrino quelle di Iachino già
nella giornata del 28 marzo. Da parte italiana si è all'oscuro di
tutto ciò.
28
marzo 1941
Alle
6.35 del mattino, un idroricognitore catapultato dalla Vittorio
Veneto avvista la
Forza B britannica (formata dagli incrociatori
leggeri Orion, Ajax, Perth e Gloucester e
dai cacciatorpediniere Vendetta, Hasty, Hereward ed Ilex,
sotto il comando dell'ammiraglio Henry Pridham-Wippell), in
navigazione con rotta stimata 135° e velocità 18 nodi una
quarantina di miglia ad est-sud-est dall'ammiraglia italiana. Alle
6.57, mentre la III Divisione riceve l'ordine di assumere rotta 135°
e velocità 30 nodi per raggiungere gli incrociatori britannici, poi
ripiegare verso la Vittorio
Veneto ed attirarli
così verso la corazzata, il resto della formazione italiana
(comprese la I e VIII Divisione, che devono così convergere verso
sudest con le altre navi) aumenta la velocità a 28 nodi (in quel
momento il gruppo «Zara»
– che si sarebbe dovuto congiungere con la Vittorio
Veneto all'alba – è
in leggero ritardo; alle 6.30 è circa 16 miglia a nordovest delle
altre unità, ed alle 6.57 riceve ordine dalla Vittorio
Veneto di aumentare la
velocità).
Alle
7.55 la III Divisione avvista la Forza B, ma dato che anche
quest'ultima vuole tentare di attirare le navi italiane verso il
grosso della Mediterranean Fleet (che è una novantina di miglia più
ad est), e dunque si ritira verso est, la manovra pianificata da
Iachino non si concretizza, ed al contrario sono le navi italiane ad
inseguire quelle britanniche. Comincia così scontro di Gaudo: tra le
8.12 e le 8.55 la III Divisione insegue la Forza B cannoneggiandola
con i propri cannoni da 203, ma non riesce a mettere a segno alcun
colpo e alla fine, dato che le distanze restano costanti, interrompe
l'inseguimento dietro ordine di Iachino.
Intanto,
alle 8.37, il Pessagno
comunica al comando della I Divisione di non poter sviluppare una
velocità superiore ai 25 nodi, causa un'avaria ad una caldaia; il
messaggio viene intercettato anche da Iachino, che alle 8.38 ordina
pertanto al gruppo «Zara»
di assumere rotta 300° e di ridurre la velocità a 20 nodi.
Concluso
il vano inseguimento e scambio di cannonate – al quale la I e VIII
Divisione, non ancora ricongiuntesi al resto della formazione, non
hanno potuto partecipare –, le navi italiane alle 8.55
accostano per 270° ed assumono rotta 300° e velocità di 28 nodi,
ora tallonate a distanza dalla Forza B, che tiene informato il resto
della Mediterranean Fleet dei movimenti delle unità italiane. Quando
se ne accorge, alle 10.02 l'ammiraglio Iachino ordina alla III
Divisione di proseguire sulla sua rotta, mentre la Vittorio
Veneto e le altre navi
invertono la rotta (assumendo rotta 90°) per sorprendere alle spalle
la Forza B (portandosi ad est delle navi britanniche e poi accostando
verso sud), porla tra due fuochi (la III Divisione ed il resto della
formazione italiana) e così impedirne la ritirata. L'esecuzione di
questa manovra viene però temporaneamente ritardata in quanto, alle
10.10, lo Zara
lancia un segnale di scoperta col quale riferisce di aver avvistato
fumo o alberatura sospetta per 300°; Iachino attende che tale
avvistamento venga chiarito, ma alle 10.34 lo Zara
annulla il segnale di scoperta e la manovra riprende.
Le
unità della Forza B sono però più a nord di quanto ritenuto (e
segnalato) e per questo l'incontro avviene alle 10.50: alle 10.56
la Vittorio Veneto apre
il fuoco da 23.000 metri e la Forza B, attaccata sul lato opposto
dalla III Divisione, accosta immediatamente verso sud e si ritira
inseguita dalle navi italiane, ma le distanze vanno aumentando ed il
tiro della Vittorio
Veneto risulta
inefficace. Solo l'Orion ed
il Gloucester (per
altre fonti anche il Perth)
subiscono lievi danni per proiettili caduti vicini. Alle 10.57
vengono avvistati sei aerei che si rivelano poi essere aerosiluranti
britannici Fairey Albacore (decollati dalla Formidable),
che alle 11.18 passano all'attacco: la Vittorio
Veneto accosta sulla
dritta, e la XIII Squadriglia si porta in posizione adatta ad
impedire l'attacco, aprendo intenso tiro contraereo; alle 11.25 gli
aerosiluranti lanciano, ma devono farlo da una distanza eccessiva, e
nessun siluro va a segno.
L'attacco
aerosilurante ha però obbligato le navi italiane a cessare il fuoco,
consentendo alla Forza B di sfuggire ad una situazione di grave
pericolo. In tutto, le navi di Iachino hanno sparato 94 colpi da 381
mm e 542 da 203 mm.
In
questa zona le navi di Iachino dovrebbero fruire della copertura
aerea dei caccia di Rodi (dodici caccia FIAT CR. 42 dell'Aeronautica
dell'Egeo, muniti di serbatoi supplementari per incrementarne
l'autonomia, di base a Scarpanto), ma questi velivoli non si fanno
vedere (per altra fonte sono presenti sul cielo della formazione, ma
solo saltuariamente ed in numero modesto, nel corso della mattinata);
intervengono invece due aerei tedeschi (gli unici che si vedranno
durante tutta la battaglia), due Junkers Ju 88 che tentano
valorosamente d'ingaggiare i tre caccia Fairey Fulmar di scorta agli
aerosiluranti. Il violento scontro aereo finisce male per i tedeschi:
uno Ju 88 viene abbattuto, l'altro viene messo in fuga. Le navi
italiane non si accorgono neanche dell'intervento degli Ju 88.
Frattanto,
alle 11.07, la I Divisione avvista un sommergibile a 3000 metri per
280°, comunicandolo alla nave ammiraglia; probabilmente si tratta di
un falso allarme.
Successivi
messaggi e segnalazioni, che confermano l'assenza di traffico
convogliato britannico da attaccare, ed insieme ad essi l'ormai
conclamata assenza della copertura aerea e la continua diminuzione
delle scorte di carburante dei cacciatorpediniere, portano
l'ammiraglio Iachino, alle 11.40, a disporre rotta verso nordovest:
si torna alla base.
Se
in mattinata l'appoggio dato dai CR. 42 dell'Aeronautica dell'Egeo è
stato pressoché inconsistente, nel pomeriggio esso cessa del tutto e
definitivamente: col rapido allontanamento della flotta italiana in
direzione di Taranto, infatti, questa si viene presto a trovare al di
fuori dei limiti dell'autonomia dei CR. 42, anche se questi impiegano
serbatoi supplementari.
Nel
pomeriggio del 28 marzo, la flotta italiana viene lungamente
sorvolata da un idroricognitore britannico. Lo pilota il capitano di
corvetta Bolt, dello Stato Maggiore di Cunningham, catapultato dalla
Warspite:
durante la sua missione ha modo di aggiornare il suo ammiraglio circa
posizione, composizione, rotta e velocità delle navi italiane, con
notevole accuratezza.
Cunningham
si è reso conto che la formazione di Iachino, più veloce della sua,
rischia di sfuggire facilmente all'inseguimento (del quale non sa
nemmeno di essere oggetto): sempre che non si provveda a rallentarla.
Questo si può fare danneggiando qualche nave, lanciando attacchi di
bombardieri ed aerosiluranti dalle basi di Creta e dalla Formidable.
Cunningham, pertanto, ordina ripetuti attacchi aerei contro le navi
di Iachino. Nel corso del pomeriggio, un totale di 30 bombardieri
Bristol Blenheim della RAF (decollati da basi aeree della Grecia) e
18 aerosiluranti Fairey Albacore e Fairey Swordfish della Fleet Air
Arm (decollati dall'aeroporto di Maleme, a Creta, e dalla Formidable)
effettua rispettivamente cinque e tre attacchi sulla formazione
italiana.
Alle
13.23 la I Divisione si trovava a 56 miglia per 266° da Gaudo. Alle
15.17 il gruppo «Zara»
viene attaccato da sei bombardieri britannici Bristol Blenheim (che
attaccarono lo Zara
ed il Garibaldi),
attacco che si ripete alle 15.26, alle 16.30 ed infine alle 16.44.
Nello stesso lasso di tempo anche la Vittorio
Veneto e la III
Divisione vengono più volte attaccate da aerei (rispettivamente tre
e due volte): un solo attacco causa danni, ma sufficienti a scatenare
la sequenza degli eventi che porterà al disastro.
Alle
15.19, infatti, tre aerosiluranti britannici attaccano la Vittorio
Veneto, mentre dei caccia
attaccano le unità della XIII Squadriglia mitragliandone la coperta;
anche dei bombardieri in quota partecipano all'attacco. Il violento
fuoco contraereo dei cacciatorpediniere della XIII Squadriglia
colpisce uno degli aerosiluranti, pilotato dal capitano di corvetta
John Dalyell-Stead: proprio questo velivolo, prima di cadere in mare
uccidendo i tre uomini del suo equipaggio, riesce a portarsi a meno
di 1000 metri dalla Vittorio
Veneto ed a lanciare
un siluro, che colpisce la corazzata a poppa. Alle 15.30 la Vittorio
Veneto, che ha imbarcato
4000 tonnellate d'acqua, si immobilizza nel punto 35°00' N e 22°01'
E; dopo sei minuti può rimettere in moto, ma solo alle 17.13 riesce
a sviluppare una velocità di 19 nodi.
La
squadra di Iachino fa rotta verso Taranto, distante 420 miglia, ed
alle 16.38 l'ammiraglio, prevedendo che nuovi attacchi aerei si
scateneranno al tramonto, ordina che le altre unità si posizionino
intorno alla danneggiata Vittorio
Veneto per proteggerla
da altri attacchi. Per quanto riguarda il gruppo «Zara»,
Iachino ordina alla I Divisione di avvicinarsi alla Vittorio
Veneto, mentre dà all'VIII
Divisione libertà di manovra per rientrare subito a Brindisi.
Da
Recco, Pessagno,
Duca degli Abruzzi
e Garibaldi,
pertanto, lasciano la formazione e dirigono per proprio conto verso
la base pugliese (secondo alcuni siti Internet, la decisione di
lasciare l'VIII Divisione libera di rientrare direttamente a Brindisi
sarebbe stata dovuta all'avaria al Pessagno,
che con il Da Recco
era l'unica unità di scorta di questa Divisione; di questo non si fa
però parola nella storia ufficiale dell'USMM). Non saranno quindi
coinvolti nei successivi drammatici eventi della serata e della
notte: il siluramento del Pola,
immobilizzato da un nuovo attacco di aerosiluranti britannici;
l'invio in suo soccorso dell'intera I Divisione con la IX
Squadriglia; l'annientamento della I Divisione da parte delle
corazzate della Mediterranean Fleet, in un vero e proprio tiro a
segno notturno nel quale le navi italiane sono massacrate prima di
poter abbozzare una reazione. Così si conclude la battaglia di Capo
Matapan: affondati lo Zara,
il Pola,
il Fiume,
l'Alfieri,
il Carducci;
seriamente danneggiato l'Oriani;
oltre 2300 i morti tra gli italiani, contro perdite sostanzialmente
nulle da parte britannica. La peggior sconfitta nella storia della
Marina italiana.
(Per
altra fonte, dopo il siluramento della Vittorio
Veneto Da
Recco e Pessagno
sarebbero stati inviati a nord del gruppo principale per fronteggiare
un possibile attacco di siluranti provenienti da tale direzione,
rimanendovi fino all'alba, quando le navi avrebbero ripreso la
formazione compatta più utile alla difesa contro gli attacchi aerei;
sembra probabile un errore).
29
marzo 1941
All'1.18,
quando il tragico destino della I Divisione si è ormai consumato,
l'ammiraglio Iachino richiama l'VIII Divisione perché si riunisca
entro le otto, nel punto a 60 miglia per 139° da Capo Colonne, al
gruppo composto da Vittorio
Veneto e III Divisione.
Viene fatta eccezione per il Pessagno,
che in considerazione dei problemi non ancora risolti all'apparato
motore viene lasciato proseguire per Brindisi.
L'VIII
Divisione (Da Recco
compreso) raggiunge puntualmente il resto della squadra, prendendo
posizione sulla sinistra della Vittorio
Veneto, mentre la III
Divisione viene disposta sulla dritta e la X Squadriglia
Cacciatorpediniere (Maestrale,
Grecale,
Libeccio,
Scirocco),
frattanto inviata da Messina su richiesta dell'ammiraglio Iachino,
viene messa in posizione di scorta sulla sinistra dell'VIII
Divisione. Assunta così la formazione di marcia diurna, la squadra
navale viene raggiunta alle 6.23 da cinque bombardieri tedeschi
Junkers Ju 88 che ne assumono la scorta aerea; più tardi arrivano
anche aerei da caccia tedeschi e – quando già le navi sono nel
Golfo di Taranto – una pattuglia tre caccia italiani. Nella
giornata del 29, durante la navigazione nel Golfo di Taranto, si
alterneranno in tutto sul cielo delle navi italiane 53 aerei da
caccia, 45 bombardieri e 6 aerosiluranti dell'Aeronautica della
Sicilia e della IV Squadra Aerea di base in Puglia, nonché 19
Junkers Ju 88 ed undici caccia Messerschmitt Bf 110 del X Corpo Aereo
Tedesco. Dopo tre giorni in cui la mancanza di protezione aerea ha
avuto risultati catastrofici, questo eccesso di copertura quando
ormai non è nemmeno più necessaria appare quasi beffardo.
Alle
9.08 la squadra italiana assume rotta 343°, mettendo la prua verso
Taranto, ed alle 9.40 l'ammiraglio Iachino, avendo ricevuto
dall'Oriani
un messaggio con cui questi riferisce di necessitare di rimorchio per
le conseguenze dei danni subiti, distacca Maestrale
e Libeccio
per andare in sua assistenza.
Prima
dell'arrivo della squadra a Taranto, che avverrà poco dopo le 15.30,
l'VIII Divisione viene distaccata per raggiungere Brindisi insieme a
Grecale
e Scirocco.
15
aprile 1941
Il
capitano di vascello Salvadori cede il comando del Da
Recco e della XVI
Squadriglia al quarantanovenne parigrado Antonio Muffone.
20
aprile 1941
Il Da
Recco (capitano di
vascello Antonio Muffone, caposquadriglia della XVI Squadriglia
Cacciatorpediniere), insieme ai gemelli Emanuele
Pessagno (capitano di
fregata Pietro Scammacca) della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere ed
Alvise Da Mosto (capitano
di fregata Gian Giacomo Ollandini), Antonio
Pigafetta (capitano di
vascello Mario Mezzadra, caposquadriglia della XV
Squadriglia), Giovanni
Da Verrazzano (capitano
di fregata Ugo Avelardi) e Nicolò
Zeno (capitano di fregata
Riccardo Piscicelli) della XV Squadriglia Cacciatorpediniere ed agli
incrociatori leggeri Raimondo
Montecuccoli (capitano
di vascello Arturo Solari), Eugenio
di Savoia (capitano di
vascello Giuseppe Lubrano, nave di bandiera dell'ammiraglio
Ferdinando Casardi), Muzio
Attendolo (capitano di
vascello Giorgio Conti) ed Emanuele
Filiberto Duca d'Aosta (capitano
di vascello Franco Rogadeo) della VII Divisione, molla gli ormeggi a
Taranto, alle 2.50, per prendere parte all'operazione di posa della
prima tratta («S 11») della prima spezzata («S 1», che si
estenderà dal punto 37°00' N e 11°08' E al punto 37°27' N e
11°17' E) del campo minato «S» del Canale di Sicilia (ad est di
Capo Bon). Alle 2.55 la formazione supera le ostruzioni foranee: in
testa Da Recco,
Pessagno, Pigafetta
e Zeno,
in posizione di scorta avanzata notturna, poi le unità incaricate di
posare le mine: prima i quattro incrociatori in linea di fila (in
testa l'Eugenio di Savoia,
nave ammiraglia) e per ultimi Da
Mosto e Da
Verrazzano in
posizione di scorta arretrata notturna. Le mine sistemate sulla
coperta delle navi sono occultate con sferzi mimetizzati con strisce
bianche; si pone grande attenzione nel non fare fumo, per non essere
avvistati da aerei avversari. La formazione, al comando
dell'ammiraglio di divisione Ferdinando Casardi, prosegue tenendosi
al largo della costa, zigzagando nello stretto di Messina.
Alle
3.50, ad ovest di Trapani, la formazione s'imbatte in una petroliera
isolata che procede oscurata verso nord; la nave defila lungo gli
incrociatori e poi accosta a sinistra, passando tra Da
Mosto e Da
Verrazzano, così vicino da
costringere quest'ultimo a compiere una manovra d'emergenza per non
entrare in collisione.
All'alba la formazione viene modificata:
gli incrociatori rimangono in linea di fila, mentre Da
Recco e Pessagno
passano in posizione di scorta ravvicinata a dritta, Zeno
e Pigafetta
in posizione di scorta ravvicinata a sinistra, e Da
Mosto e Da
Verrazzano in scorta
laterale a dritta ed a sinistra.
Alle 6 le navi italiane
riducono la velocità a 14 nodi; a causa della scarsa visibilità,
l'ammiraglio Casardi decide di proseguire a velocità ridotta in
attesa di migliori condizioni, tali almeno da riconoscere la costa,
prima di procedere alla posa delle mine, a costo di ritardarla. Alle
6.27, sette minuti dopo l'arrivo di un idrovolante che funge da
scorta antisommergibile (i caccia previsti non decolleranno invece da
Pantelleria a causa della foschia), è possibile riportare la
velocità a 18 nodi, ed alle 6.52 le navi incaricate della posa
(cioè Da Mosto, Da
Verrazzano ed
incrociatori) iniziano la manovra per disporsi in linea di fronte,
con distanza di 300 metri tra gli incrociatori e 200 tra
gli incrociatori ed i cacciatorpediniere, posizionati sui lati
esterni. Da Recco,
Pessagno, Pigafetta
e Zeno,
zigzagando, assumono la scorta prodiera e laterale delle navi
impegnate nella posa.
Tra le 7.07 e le 7.41 viene eseguita la
posa delle mine, che si svolge senza particolari problemi esclusa
l'esplosione prematura di 22 ordigni. L'Attendolo posa
124 boe esplosive e 37 mine ad antenna, il Duca
d'Aosta ed
il Montecuccoli
posano ciascuno 112 mine ad antenna, l'Eugenio
di Savoia posa 124 boe
esplosive e 37 mine ad antenna, e Da
Mosto e Da
Verrazzano posano
ciascuno 122 boe strappanti.
Alle 7.52 la formazione inizia la
navigazione di ritorno.
Alle 9.25 il Da
Mosto avvista una mina
e la affonda a colpi di mitragliera. Alle 9.51 il Pessagno,
che occupa la posizione «A» di dritta, alza bandiera verde per
dare l'allarme di avvistamento sommergibile, quindi accosta a dritta
e poco dopo inizia a lanciare bombe di profondità (ne lancia
tredici, otto da 100 kg e cinque da 50 kg), mentre la formazione
esegue un'accostata d'urgenza di 50° a sinistra, per poi tornare
sulla rotta originaria una volta a distanza di sicurezza dal presunto
avvistamento. Il Da
Mosto, essendo rimasto
indietro per affondare la mina, non può partecipare all'azione
antisommergibile. In seguito Casardi (che giudicherà la reazione dei
cacciatorpediniere «pronta, decisa e condotta con slancio e
perizia») riterrà che l'unità nemica sia stata “almeno
fortemente danneggiata”, ma è più probabile che si sia trattato
di un falso allarme.
Alle 10.35 vi è un nuovo allarme antisom:
il Pigafetta
(posizione «B» a sinistra) avvisa la scia di un siluro, dà
l'allarme e piomba sul sommergibile attaccante insieme allo Zeno
(che è nella posizione «A»). Zeno e
Pigafetta
lanciano rispettivamente quattro e nove bombe di profondità (tutte
da 50 kg quelle dello Zeno,
mentre quelle del Pigafetta
sono cinque da 50 kg e quattro da 100 kg), fino alla comparsa di
grosse chiazze di nafta.
Alle 10.50 l'ammiraglio Casardi, in
base agli ordini prestabiliti, ordina a Da
Mosto e Da
Verrazzano di
raggiungere Trapani per rifornirsi e poi aspettare nuovi ordini. Tra
le 22 e le 00.30, la VII Divisione ed i restanti cacciatorpediniere,
tra cui il Da Recco,
si ormeggiano nel porto di Messina.
Sullo sbarramento «S 11»
andranno perduti il piroscafo francese S.N.A.
7 (27
aprile 1941), i piroscafi britannici Parracombe (2
maggio 1941) ed Empire
Song (9
maggio 1941) e probabilmente il sommergibile britannico Usk (forse
intorno al 2 maggio 1941).
22
aprile 1941
Alle 21
(per altra fonte alle 00.15 del 23), Da
Recco e Pessagno,
scortando Attendolo
e Duca d'Aosta,
lasciano Messina alla volta di Augusta, dove i due incrociatori
devono imbarcare le mine destinate alla posa del secondo tratto («S
12» e «S 13») della prima spezzata («S 1») dello sbarramento
«S».
23
aprile 1941
Da
Recco, Pessagno,
Attendolo
e Duca d'Aosta
entrano ad Augusta alle cinque del mattino, e qui i due incrociatori
iniziano ad imbarcare le mine. L'operazione dura più del previsto, a
causa di avarie alle gruette dell'Attendolo,
terminando infine alle 10.30.
Alle
11.20 Da Recco,
Pessagno,
Pigafetta
e Zeno,
scortando Attendolo,
Montecuccoli,
Duca d'Aosta
ed Eugenio di Savoia,
salpano da Augusta diretti verso lo Stretto di Messina. Nel primo
tratto della navigazione le navi sono scortate da aerei da caccia per
protezione contro attacchi aerei nemici; per tutta la durata del
giorno fruiscono inoltre di scorta antisommergibili da parte di
velivoli della ricognizione marittima.
24
aprile 1941
Alle
cinque, in mare aperto, la formazione viene raggiunta anche da Da
Mosto e Da
Verrazzano, provenienti da
Trapani.
Alle
4.27, intanto, le navi di Casardi sono arrivate in zona; di nuovo la
visibilità è mediocre, pertanto si attende di poter meglio
determinare la propria posizione prima di procedere alla posa. Verso
le sei del mattino viene avvistata la vecchia torpediniera Simone
Schiaffino
(capitano di corvetta Riccardo Argentino), che dopo aver svolto un
rastrello antisommergibili preventivo nell'area designata per la posa
è rimasta sul posto ad attendere la VII Divisione per segnalarle il
punto in si trova il primo tratto dello sbarramento, come da ordini.
Alle
6.24 sopraggiungono otto caccia, che assumono la scorta aerea della
formazione; alle 6.37 il Pigafetta avvista
una mina, che viene affondata a colpi di mitragliera dallo Zeno.
Alle 6.52, migliorata la visibilità, le navi iniziano a manovrare
per portarsi in linea di fronte a distanza ravvicinata, come
previsto, ed alle 7.34 iniziano la posa delle mine. L'operazione,
svoltasi regolarmente, ha termine alle 9. La posa avviene in linea di
fronte con, da sinistra verso dritta, Da
Mosto, Da
Verrazzano, Eugenio
di Savoia, Montecuccoli, Duca
d'Aosta ed Attendolo;
la distanza tra le navi è di 300 metri. Da
Mosto e Da
Verrazzano posano
ciascuno 82 mine ad antenna (sfalsate e regolate per 3 metri di
profondità) ad intervalli di 150 metri su una distanza di 6,6
miglia, mentre gli incrociatori posano 144 mine ad antenna ciascuno
(le file di mine sono denominate, dal Da
Mosto all'Attendolo,
da «G» a «N»). Anche in questo caso la posa viene effettuata a 14
nodi dopo di che Da
Mosto e Da
Verrazzano accelerano
gradualmente a 18 nodi ed accostano di 30° in fuori per poi assumere
la posizione di scorta laterale.
Tutto
sembra procedere come previsto, ma alle 7.54 la Simone
Schiaffino –
cui Casardi ha appena accordato il permesso di lasciare l'area dopo
che, concluso un rastrello antisommergibile preventivo, era rimasta
sul posto ad attendere la VII Divisione come da ordini – urta una
delle mine del primo tratto ed affonda in tre minuti, portando con sé
79 dei 118 uomini dell'equipaggio. I naufraghi vengono recuperati
dallo Zeno.
Dopo
la fine della posa il Montecuccoli,
come da ordini ricevuti da Casardi, viene lasciato libero di
proseguire per La Spezia scortato da Da
Recco e Pessagno,
mentre le altre navi si avviano sulla rotta di rientro. Alle ore 20,
Da Recco e Pessagno
lasciano il Montecuccoli
per raggiungere Messina e poi Taranto, dove si trovano le altre navi.
Qui si preparano a prendere parte alla successiva operazione di posa
di mine (linee «d», «e», «f» e «i» del nuovo sbarramento
difensivo «T» al largo di Tripoli).
30
aprile 1941
La
formazione inizia a muovere alle 4.30, ed alle 5.55 supera le
ostruzioni foranee di Taranto: in testa sono Da
Recco (capitano di
vascello Antonio Muffone), Pessagno (capitano
di fregata Pietro Scammacca), Pigafetta (capitano
di vascello Mario Mezzadra) e Zeno (capitano
di fregata Riccardo Piscicelli) di scorta, seguiti da Eugenio
di Savoia (capitano di
vascello Giuseppe Lubrano, nave di bandiera dell'ammiraglio
Casardi), Duca
d'Aosta (capitano di
vascello Franco Rogadeo), Attendolo (capitano
di vascello Giorgio Conti), Da
Mosto (capitano di
fregata Gian Giacomo Ollandini) e Da
Verrazzano (capitano di
fregata Ugo Avelardi). Tra le 10.10 e le 11.05, al largo di Capo
Colonne, la formazione zigzaga. (Per altra versione, probabilmente
erronea, Da Recco
e Pessagno
sarebbero partiti da Messina, unendosi solo in un secondo momento al
resto del gruppo, partito da Taranto).
Alle 12.45 le navi
entrano in un denso banco di nebbia, che riduce la visibilità a non
più do 600 metri, uscendone solo alle 14.20. Alle 15.30 giunge
sul cielo della formazione una scorta di caccia e bombardieri (prima
vi erano degli aerei da ricognizione marittima), che resteranno sino
al tramonto; alle 16.05 le navi ricominciano a zigzagare, proseguendo
sino alle 20. Durante la sera, alle 21.05, le unità italiane
assistono in lontananza ad un'incursione aerea su Malta.
1°
maggio 1941
La
formazione arriva nella zona stabilita per la posa, ma la densa
foschia (visibilità 5-7 km) complica e ritarda l'individuazione dei
punti di riferimento assegnati per iniziare la posa, finché, alle
10.15, viene avvistato il fumo della torpediniera Partenope,
mandata da Marilibia a segnare con la sua presenza l'estremità
nordoccidentale della linea «f». Alle 10.22, data libertà di
manovra a Da Mosto
e Da Verrazzano
(scortati da Pigafetta
e Zeno)
per posare la loro linea di mine, gli incrociatori iniziano la
manovra per disporsi in formazione di posa; alle 10.52 l'Attendolo
ed il Duca d'Aosta
iniziano la posa della linea «f» (140 mine tedesche ad antenna
disposte su due file sfalsate, con un intervallo di 300 metri tra le
due file e di 100 metri tra le mine di una stessa fila);
successivamente l'Attendolo
e l'Eugenio di Savoia
posano la linea «d» e Duca
d'Aosta ed Eugenio
di Savoia posano la linea
«e», entrambe identiche alla «f». Per ordine dell'ammiraglio
Casardi, prima dell'inizio della posa di ogni linea il Da
Recco lancia due bombe di
profondità a scopo intimidatorio, essendo stata segnalata la
presenza di un sommergibile nemico non molto lontano.
La
posa delle tre file termina alle 12.27; solo cinque mine ad antenna
esplodono prematuramente, evento abbastanza comune durante le pose.
Entro
le 13 la formazione si è di nuovo riunita, e si mette pertanto in
rotta per tornare alla base. Stante la fitta foschia (che ostacola
anche l'attività della scorta aerea) ed il conseguente rischio di
attacchi da parte di navi nemiche, i cacciatorpediniere vengono
posizionati a 4000 metri dagli incrociatori, in posizione di scorta
avanzata, per formare uno schermo esplorativo nella più probabile
direzione di provenienza di eventuali navi britanniche.
2
maggio 1941
Alle
5.30, in base ad ordini ricevuti alle 18.30 della sera precedente,
l'ammiraglio Casardi distacca Da
Recco, Pessagno
ed Attendolo
perché raggiungano Messina, mentre il resto delle navi entra ad
Augusta alle 6.30. Da Recco,
Pessagno
ed Attendolo
arrivano a Messina alle 9.15.
Su
questo campo minato potrebbe essere affondato il sommergibile
britannico Undaunted,
scomparso al largo di Tripoli proprio il 1° maggio 1941 od in data
immediatamente successiva. Anche il sommergibile britannico Upholder,
scomparso nell'aprile 1942, potrebbe essere capitato su queste mine,
sebbene esistano molte altre ipotesi sulla sua fine.
4-5
maggio 1941
Da
Recco, Da
Mosto, Da
Verrazzano, Pigafetta, Zeno,
Eugenio di Savoia (nave
di bandiera dell'ammiraglio Ferdinando Casardi, comandante la VII
Divisione), Duca
d'Aosta ed Attendolo escono
in mare per fornire copertura a due convogli in navigazione tra
l'Italia e la Libia: uno composto dalle
motonavi Victoria, Calitea, Andrea
Gritti, Marco
Foscarini, Sebastiano
Venier, Barbarigo ed Ankara (tedesca),
partite da Napoli all'1.15 del 4 e dirette a Tripoli con la scorta
dei cacciatorpediniere Ugolino
Vivaldi (caposcorta), Lanzerotto
Malocello ed Antonio
Da Noli e delle
torpediniere Orione, Pegaso e Cassiopea;
l'altro formato dal trasporto truppe Marco
Polo e dalle
motonavi Rialto, Reichenfels, Marburg e Kybfels (la
prima italiana, le altre tre tedesche), salpate da Tripoli alle 9.30
del 5 e dirette a Napoli con la scorta delle
torpediniere Procione (caposcorta), Orsa, Centauro, Cigno e Perseo e
dei cacciatorpediniere Fulmine ed Euro.
La VII Divisione viene inviata a proteggere i due convogli in
considerazione della presenza a Malta di alcune unità leggere di
superficie britanniche, che il precedente 16 aprile hanno attaccato e
distrutto il convoglio «Tarigo».
Alle
20.03 del 4 la VII Divisione, con due successive accostate ad un
tempo, prende posizione circa 3 km a proravia del convoglio
«Victoria»
e dispone i cacciatorpediniere in posizione di scorta avanzata. La
VII Divisione, preceduta dai cacciatorpediniere, procede in linea di
fila, mentre il convoglio avanza in tre colonne, con scorta laterale;
l'ammiraglio Casardi ritiene che questa sia la posizione più adatta
affinché gli incrociatori possano reagire contro navi di superficie
britanniche che attacchino nei settori più pericolosi (e più
probabili; sembra invece improbabile un attacco da poppa, data la
posizione e velocità del convoglio, quindi si lascia alla scorta
diretta il compito di proteggere quel lato), senza essere intralciati
dalle manovre di convoglio e scorta diretta, ed in modo tale da
permettere a quest'ultimo di allontanarsi senza perdite. Fino al
tramonto il convoglio gode di forte scorta aerea, svolta sia da
caccia che da bombardieri.
La navigazione notturna si svolge
senza problemi; alle 5.45 del 5 la VII Divisione inizia la manovra
per portarsi sulla congiungente Malta-convoglio, posizione nella
quale resterà per il resto del giorno, procedendo a zig zag e
tenendosi in vista del convoglio. Alle 6.40 sopraggiungono i primi
velivoli della scorta aerea, questa volta composta da idrovolanti da
ricognizione marittima e da bombardieri.
Alle 14.26 viene
avvistato il convoglio «Marco
Polo», e la VII Divisione assume direttrice di marcia 16°,
mantenendosi di prora a tale convoglio, seguitando a zigzagare,
mentre il convoglio «Victoria» si dirige verso Tripoli, dove
giungerà senza alcun danno alle 20.45 dopo aver superato vari
attacchi aerei. Alle 19.50 la Divisione si posiziona 4 km a proravia
del convoglio «Marco Polo», assumendone la scorta. La visibilità
è cattiva per il resto della giornata; la navigazione notturna
procede senza intoppi, con formazione analoga a quella della notte
precedente.
(Secondo www.naval-history.net,
durante questa missione Pigafetta e
Zeno avrebbero
localizzato ed attaccato, il 4 maggio, un sommergibile ad ovest della
Sicilia; vittima di questo attacco potrebbe essere stato l'HMS Usk,
scomparso in quei giorni nelle acque del Canale di Sicilia, ma più
probabilmente questi si perse alcuni giorni prima su un campo minato
al largo di Capo Bon. La storia ufficiale dell'USMM non fa invece
menzione alcuna di quest'azione).
6
maggio 1941
Alle 5.45
la VII Divisione lascia la scorta ravvicinata del convoglio per
portarsi sulla sua sinistra; alle 6.40 viene avvistato il primo aereo
della scorta, mentre la Divisione prosegue a zig zag a 16 nodi. Il
convoglio arriverà a Napoli indenne.
Alle
12.26 Da Recco, Da
Mosto, Da
Verrazzano, Pigafetta, Zeno, Eugenio
di Savoia, Duca
d'Aosta ed Attendolo,
mentre sono in navigazione a 18 nodi ad est della Sicilia, vengono
avvistati in posizione
37°34' N e 15°27' E (su rilevamento 080°) dal sommergibile
britannico Unique (tenente
di vascello Anthony Foster Collett), in agguato all'imboccatura
meridionale dello stretto di Messina. Essendo a nove miglia di
distanza (troppe) a causa di un errore di rotta (alle nove del
mattino, quando è stato fatto il punto sulla base dei punti cospicui
della costa, Collett ha scoperto di trovarsi ben 25 miglia più a
sudest di dove dovrebbe essere), il sommergibile non ha modo di
attaccare.
7 maggio
1941
La formazione
rientra alle basi.
.jpg) |
Il Da Recco ad Augusta nel 1941; dietro di esso Da Mosto e Da Verrazzano (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
11-14
maggio 1941
Il
Da Recco
parte da Palermo alle 18.40 dell'11 maggio, insieme agli incrociatori
leggeri Giovanni delle
Bande Nere, Luigi
Cadorna (della IV
Divisione), Duca degli
Abruzzi e Garibaldi (della
VIII Divisione) ed ai cacciatorpediniere Pessagno, Usodimare,
Bersagliere, Fuciliere, Alpino,
Maestrale e Scirocco (i
tre “Navigatori” scortano l'VIII Divisione, gli altri cinque la
IV Divisione), per fornire protezione a distanza a due convogli: uno
(piroscafi italiani Ernesto e Tembien,
motonavi Giulia e Col
di Lana,
piroscafi tedeschi Preussen e Wachtfels,
scortati dai cacciatorpediniere Dardo, Aviere –
caposcorta –, Geniere, Grecale e Camicia
Nera) in navigazione da
Napoli (da dov'è partito alle due dell'11, dopo essere partito già
l'8 salvo poi rientrare per allarme navale) a Tripoli, dove arriva
alle 11.40 del 13; l'altro (motonavi italiane Victoria, Andrea
Gritti e Barbarigo,
motonave tedesca Ankara,
cacciatorpediniere Vivaldi, Malocello, Saetta e Da
Noli) in navigazione in
direzione opposta: partito da Tripoli alle 19.30 del 12, arriva a
Napoli alle 16.30 del 14.
La IV Divisione raggiunge il convoglio
in navigazione da Napoli a Tripoli alle cinque del mattino del 12
maggio, ma nel pomeriggio dello stesso giorno il Bande
Nere subisce delle
infiltrazioni di acqua salata nei condensatori delle caldaie
poppiere, che alle 17 costringono il Comando della IV Divisione a
trasbordare sul Cadorna,
dopo di che il Bande
Nere rientra a
Palermo, scortato dall'Alpino.
Il
resto della formazione rientrerà a Palermo al termine
dell'operazione.
2
giugno 1941
Il Da
Recco (capitano di vascello
Antonio Muffone, caposquadriglia della XVI Squadriglia
Cacciatorpediniere), parte da Taranto alle cinque del mattino insieme
all'Usodimare
(capitano di fregata Alfonso Galleani), facente parte della XVI
Squadriglia, ai gemelli Pigafetta
(capitano di vascello Mario Mezzadra, caposquadriglia), Da
Mosto (capitano di fregata
Gian Giacomo Ollandini) e Da
Verrazzano (capitano di
vascello Ugo Avelardi) della XV Squadriglia ed agli incrociatori
Eugenio di Savoia
(nave ammiraglia, capitano di vascello Giuseppe Lubrano), Attendolo
(capitano di vascello Giorgio Conti) e Duca
d'Aosta (capitano di
vascello Franco Rogadeo) della VII Divisione (sempre al comando
dell'ammiraglio Casardi), per partecipare alla posa delle nuove linee
dello sbarramento «T», a nordest di Tripoli.
Le
navi iniziano a mollare gli ormeggi alle tre di notte, e due ore
dopo, in franchia delle rotte di sicurezza, assumono rotta 160° con
velocità di 18 nodi. La navigazione procede con mare calmo e brezza
da sub; la visibilità è buona. Tra le 8 e le 9 e tra le 14 e le
18.14, quando le navi si trovano a passare vicine alla costa,
procedono a zig zag.
Alle
18.10 viene avvistata, a 20.000 metri, la IV Divisione, che
dovrà partecipare anch'essa alla posa, e che alle 18.30 assume la
sua posizione in formazione: la formano gli incrociatori
leggeri Giovanni delle
Bande Nere (capitano di
vascello Sesto Sestini), nave di bandiera dell'ammiraglio di
divisione Guido Porzio Giovanola, ed Alberto Di
Giussano (capitano di
vascello Giovanni Marabotto) ed i
cacciatorpediniere Scirocco (capitano
di fregata Domenico Emiliani) e Vincenzo
Gioberti (capitano di
fregata Marc'Aurelio Raggio), questi ultimi facenti parte anch'essi
della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere. A posare le mine saranno
gli incrociatori nonché Da
Mosto e Da
Verrazzano, mentre gli
altri cacciatorpediniere sono incaricati della scorta.
Proprio
alle 18.30, il Da
Mosto viene colto da
un'avaria di macchina, che gli impedisce di tenere la stessa velocità
del resto della formazione. Alle 21.30 la formazione accosta per
197°; alle 21.55 il Pigafetta viene
distaccato in assistenza al Da
Mosto, e l'ammiraglio
Casardi decide di proseguire a 20 nodi (invece di accelerare a 22
come previsto) per non lasciarlo indietro, essendo necessaria la sua
partecipazione alla posa.
Alle
22.12 anche lo Scirocco,
di scorta avanzata, viene colto da un'avaria, questa volta al timone,
ma riesce a ripararla celermente ed a tornare in posizione in 40
minuti.
3
giugno 1941
All'alba
la formazione, che a causa dell'avaria del Da
Mosto ha accumulato
due ore di ritardo, si ritrova senza scorta aerea, perché il ghibli
e la scarsa visibilità impediscono agli aerei di decollare ed
individuare le navi. Alle 10.05 viene avvistato il fumo emesso dalla
torpediniera Castore per
segnalare la posizione della posa, ed alle 10.37, dopo aver via via
ridotto la velocità, le unità ricevono l'ordine di dividersi nei
gruppi stabiliti per la posa.
Alle
11.06 le unità del gruppo «Eugenio» (Eugenio
di Savoia, Di
Giussano, Bande
Nere, Da
Mosto e Da
Verrazzano; si sono
separati Duca
d'Aosta, Pigafetta, Gioberti e Scirocco)
iniziano a manovrare per assumere rotta e formazione di posa (per la
linea «b», linea di fronte con, da sinistra, Bande
Nere, poi Di
Giussano a 300
metri, poi Eugenio di
Savoia a 200
metri da quest'ultimo, quindi Da
Mosto a 100
metri da esso); l'Usodimare è
colto da avaria al timone, ma la risolve rapidamente. La posa della
linea «b» inizia alle 11.31 e finisce alle 12.15, quella della
linea «c» (posata invece dall'Attendolo e
dall'Eugenio di Savoia)
comincia alle 12.22 e termina alle 12.51; entrambe vengono compiute a
10 nodi. Il Da
Mosto posa 116 boe
strappanti, dopo di che il Da
Verrazzano ne posa
altre 95 dello stesso tipo e 17 esplosive. Bande
Nere, Di
Giussano ed Eugenio
di Savoia posano
rispettivamente 139 mine ciascuno i primi due e 228 boe esplosive il
terzo, che poi, al pari dell'Attendolo,
posa 88 mine ad antenna per la linea «c».
La
linea «b» rappresenta il primo sbarramento di mine multiplo posato
da unità italiane, essendo composto da 4 file, di cui 2 di mine
antinave ad antenna (con intervallo di 100 metri tra ogni
ordigno), una di boe esplosive (60 metri tra ogni boa) ed una di
boe strappanti (anch'esse a 60 metri l'una dall'altra), con
le armi sfalsate tra le file. Le due file di mine sono distanziate
di 300 metri, quella di boe esplosive è a 200 metri dalla
seconda fila di mine e la fila di boe strappanti è a 200
metri da quest'ultima. Si tratta di uno sbarramento
sostanzialmente indragabile, ma la sua posa richiede grande
coordinazione e precisione.
Alle
13.30 le navi del gruppo «Eugenio» giungono nel punto di riunione;
il Da Mosto viene
inviato a Tripoli per le riparazioni dell'avaria, mentre il Da
Verrazzano e le altre
navi eseguono evoluzioni fino a quando, alle 14.10, sopraggiunge
anche il gruppo «Aosta». A questo punto Casardi ordina di assumere
la rotta di rientro e velocità 22 nodi; la visibilità migliora
leggermente e progressivamente con l'allontanamento dalla costa.
Alle
14.52 vengono avvistati degli aerei da caccia che si allontanano, ed
alle 17 il Di
Giussano avvista per
poco tempo un ricognitore sconosciuto; alle 23.15 Supermarina
comunica del decollo di aerosiluranti da Malta, ma il mare,
completamente calmo, non è molto favorevole ad attacchi di questo
tipo. La luna, al primo quarto, è alta ed il cielo è sereno,
sebbene vi sia foschia bassa. Casardi decide di proseguire sulla
rotta temporanea 45°, anziché accostare verso nord come aveva
deciso in precedenza, così da mantenere la luna nei settori poppieri
e permettere ai cacciatorpediniere di scorta avanzata di tenere
d'occhio il settore più pericoloso; per compensare l'allungamento
del percorso e giungere comunque all'alba nel raggio operativo dei
caccia della Regia Aeronautica, nonché per aumentare la possibilità
di manovra, fa incrementare la velocità a 25 nodi. Vi sono due
allarmi a seguito di presunti avvistamenti da parte
di Usodimare e Bande
Nere, ed ogni volta le navi
accostano per imitazione di manovra, ma senza aprire il fuoco.
4
giugno 1941
All'1.15,
dato che la luna più bassa mette in maggior risalto le sagome delle
unità italiane, Casardi ordina di accostare per rotta 70°, in modo
da lasciarsi la luna di poppa; tramontata la luna all'1.53, viene
assunta rotta nord. La formazione giungerà in porto senza problemi.
Sullo
sbarramento «T» capiterà, il 19 dicembre 1941, la Forza K
britannica: l'incrociatore leggero Neptune ed
il cacciatorpediniere Kandahar affonderanno
sulle mine, mentre gli incrociatori
leggeri Aurora e Penelope resteranno
danneggiati, il primo gravemente.
Giugno
1941
Il
capitano di vascello Muffone viene rilevato al comando del Da
Recco e della XVI
Squadriglia dal parigrado Stanislao Esposito, 42 anni, da Avellino.
(Altra fonte data l'assunzione del comando da parte del capitano di
vascello Esposito al 26 maggio 1941).
.jpg) |
Il capitano di vascello Stanislao Esposito (da www.movm.it) |
Estate
1941
Dislocato
a Palermo per svolgere attività di scorta ai convogli per la Libia.
Nei mesi successivi scorterà convogli e navi isolate, salverà
naufraghi, darà caccia a sommergibili, effettuerà crociere
protettive ed uscite in appoggio ad aerei e navi impegnate nella posa
di mine, ed abbatterà diversi aerei nemici.
22
giugno 1941
Da
Recco, Pessagno
e Usodimare
(la XVI Squadriglia) forniscono protezione antiaerea ed
antisommergibili alle corazzate Littorio
e Duilio,
impegnate in un'esercitazione di tiro notturno (con la Duilio
che funge da bersaglio) nel Golfo di Taranto.
26
giugno 1941
Il
Da Recco
alpa da Taranto alle 17.20, insieme a Da
Mosto, Da
Verrazzano, Pessagno, Pigafetta, Duca
d'Aosta (nave di bandiera
dell'ammiraglio Casardi) ed Attendolo,
per la posa della seconda spezzata («S 2») dello sbarramento minato
offensivo «S» nel canale di Sicilia. A posare le mine saranno
Pigafetta, Pessagno
e gli incrociatori, mentre gli altri cacciatorpediniere li
scorteranno.
27
giugno 1941
Vicino
ad Augusta Pessagno e Pigafetta vengono
distaccati per recarsi a Trapani, dove imbarcheranno le loro mine,
mentre il Da Recco e
le altre navi entrano ad Augusta alle sei del mattino. Alle 10.17
viene dato l'allarme aereo, essendo stati avvistati velivoli nemici
dalle stazioni di vedetta meridionali della piazzaforte di Augusta,
quindi Casardi, per non rischiare che le navi siano bombardate in
porto con il pericolosissimo carico di mine a bordo, fa partire la
formazione con un'ora di anticipo.
28
giugno 1941
Alle
5.10 Pessagno e Pigafetta,
provenienti da Trapani, si ricongiungono con il resto della
formazione.
Alle
6.54 le navi iniziano la posa delle mine, che concludono alle 7.32;
tutto si svolge regolarmente, salvo per lo scoppio prematuro di sei
mine. Gli ordigni vengono posati su quattro file parallele (da
sinistra a destra, quella posata dal Pigafetta,
quella del Pessagno,
quella del Duca d'Aosta
e quella dell'Attendolo);
le mine antidraganti sono regolate per una profondità di tre metri,
con intervalli di 120 metri tra un ordigno e l'altro. Le mine sono
sfalsate tra le file.
Terminata
la posa, Pessagno e
Pigafetta vengono
nuovamente inviati a Trapani, mentre le altre navi proseguono per
Augusta, dove arrivano a mezzanotte.
6
luglio 1941
Il
Da Recco
salpa da Augusta alle 13.30 insieme a Da
Mosto e Da
Verrazzano, scortando
l'Attendolo ed
il Duca d'Aosta.
Stavolta l'operazione, ancora una volta al comando dell'ammiraglio
Casardi sul Duca
d'Aosta, consiste nella
posa della terza tratta («S 3», con le spezzate «S 31» e «S 32»
per un totale di 292 mine e 444 boe esplosive) dello sbarramento «S»
nel Canale di Sicilia. A sud dello stretto di Messina, essendo stata
constatata la presenza di un sommergibile, le navi procedono a zig
zag, e dalle 15.45 alle 16.33 portano la velocità a 25 nodi.
7
luglio 1941
Alla
formazione si uniscono dapprima, alle
5.23, Pessagno e Pigafetta partiti
da Trapani, e poco dopo anche la IV Divisione (Bande
Nere e Di
Giussano scortati da
Maestrale,
Grecale,
Libeccio
e Scirocco),
partita da Palermo al comando dell'ammiraglio Guido Porzio Giovanola
per partecipare alla posa.
Data
la scarsa visibilità, l'ammiraglio Casardi tiene i
cacciatorpediniere in posizione di scorta ravvicinata anche di notte,
e fa zigzagare nelle zone dove più probabile è l'incontro con
sommergibili avversari.
Alle
5.37 l'Attendolo
catapulta un idrovolante da ricognizione, che poco dopo precipita in
mare; gli avieri vengono recuperati dal Da
Verrazzano.
Alle
7 le navi (le mine saranno posate dagli incrociatori nonché da
Pessagno
e Pigafetta)
iniziano a manovrare per assumere rotta e formazione di posa (Duca
d'Aosta, Attendolo,
Bande Nere
e Di Giussano,
in linea di rilevamento 47°, con Pigafetta
all'appoggio del Bande Nere
e Pessagno
all'appoggio del Di
Giussano; durante tale
manovra un aereo della ricognizione marittima avvista una mina, che
segnala con una fumata verde: uno dei cacciatorpediniere della X
Squadriglia viene quindi distaccato per distruggerla), ed alle 7.45
iniziano a posare le mine, terminando alle 8.57. Il Pessagno
posa, insieme al Di Giussano
(prima il Pessagno
e poi l'incrociatore), la linea “V”, la più a destra delle
quattro. L'operazione di posa, effettuata alla velocità di 10 nodi,
avviene con manovre più complesse del solito, poiché sulla terza e
quarta linea devono posare le torpedini prima i cacciatorpediniere e
poi gli incrociatori, senza soluzione di continuità nel ritmo e
nell'equidistanza; le navi danno comunque prova di buon addestramento
ed affiatamento in tali operazioni di precisione, sovente effettuate
con pochi elementi per la determinazione della posizione, oltre che
in zone pericolose per possibili attacchi nemici.
La
VII Divisione dirige poi per Taranto, mentre la IV Divisione verrà
lasciata libera di raggiungere Palermo alle 15.11.
22
luglio 1941
L'ammiraglio
Iachino, comandante della Squadra Navale, dispone con una circolare
che il Da Recco
venga verniciato interamente in grigio scuro, a scopo sperimentale,
al pari dei cacciatorpediniere Vivaldi
e Libeccio,
dopo che alcune esperienze con il cacciatorpediniere Aviere,
verniciato in questa tonalità il mese precedente, sembrano aver
messo in evidenza dei vantaggi rispetto al grigio cenerino chiaro
utilizzato solitamente dalle navi della Regia Marina. Successivi
studi più approfonditi mostreranno però che la nuova colorazione
non presenta particolari vantaggi.
1-2
agosto 1941
Da
Recco, Pessagno,
Pigafetta,
Da Mosto
e Da Verrazzano
salpano da Trapani e vengono inviati in appoggio ad una squadriglia
di torpediniere mandata ad effettuare rastrellamento notturno
nell'ipotesi del passaggio di un convoglio britannico nel Canale di
Sicilia, a seguito dell'avvistamento di una forza navale (due
corazzate, una portaerei, due incrociatori ed otto
cacciatorpediniere) uscita da Gibilterra e diretta verso est.
L'allarme rientrerà il 4 agosto, con il ritorno della squadra
britannica a Gibilterra.
8
agosto 1941
Il
marinaio cannoniere Mario Mamone, 24 anni, da Palermo, rimane ucciso
da una scheggia di bomba a bordo del Da
Recco, durante un attacco
aereo. Verrà decorato alla memoria con la Croce di Guerra al Valor
Militare, con motivazione: "Imbarcato
su C.T., mentre accorreva, durante una incursione aerea nemica, al
suo posto di combattimento, veniva mortalmente colpito da una
scheggia di bomba e cadeva nell'adempimento del dovere".
15
agosto 1941
Il
Da Recco
ed il resto della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (composta ora
soltanto da Da Recco,
Pessagno
ed Usodimare,
essendo il Tarigo
andato perduto) passano al Gruppo Cacciatorpediniere di Scorta.
19
agosto 1941
Alle due
di notte il Da Recco,
insieme al Vivaldi (caposcorta,
contrammiraglio Amedeo Nomis di Pollone) ed
ai cacciatorpediniere Alfredo
Oriani e Vincenzo
Gioberti, salpa da Napoli
diretto a Tripoli per scortarvi un convoglio veloce composto dai
trasporti truppe Esperia, Marco
Polo (capoconvoglio,
contrammiraglio Francesco Canzonieri), Neptunia ed Oceania.
Il convoglio deve seguire la rotta che passa a ponente di Malta,
passando per il Canale di Sicilia, Pantelleria e le Kerkennah.
Alle
13.30 si unisce alla scorta la vecchia torpediniera Giuseppe
Dezza, proveniente da
Trapani, ed alle 14.50 (al largo delle Egadi, poco a nord di
Marettimo), sempre quale rinforzo, anche i
cacciatorpediniere Maestrale, Grecale e Scirocco.
Vi
è inoltre una scorta aerea, presente continuamente durante le ore
diurne fino alle 21 (sia nel Tirreno che nel Canale di Sicilia),
consistente in bombardieri S.M. 79 e caccia FIAT CR. 42 nonché, nel
tardo pomeriggio del 19, idrovolanti CANT Z. 506 (ed in precedenza
anche CANT Z. 501) in funzione antisommergibili.
Il convoglio
procede a zig zag, seguendo la rotta che passa a ponente di Malta,
passando per il Canale di Sicilia, Pantelleria e le Kerkennah.
Nel
tardo pomeriggio il convoglio, che si trova a nord di Pantelleria,
incappa in uno sbarramento di sommergibili britannici, venendo
attaccato pressoché contemporaneamente dall'Urge (tenente
di vascello Edward Philip Tomkinson) e dall'Unbeaten (capitano
di corvetta Edward Arthur Woodward). Quest'ultimo avvista il
convoglio alle 18.18 (inizialmente i soli fumaioli, a 8700 metri di
distanza per 325°; le navi intere alle 18.22, quando la distanza è
scesa a 7315 metri) in posizione 37°02' N e 12°00' E, circa 15
miglia a nord di Pantelleria, ed alle 18.31 lancia tre siluri (un
quarto non parte per un'avaria) contro Esperia
e Marco Polo
da 5945 metri; le armi passano tutte molto a proravia del convoglio,
senza colpire nulla, ed un CANT Z. 501 della 196a Squadriglia
avvista le scie e lancia due bombe contro l'Unbeaten,
che tuttavia è già sceso in profondità dopo il lancio proprio per
via della nutrita scorta aerea.
L'Urge,
invece, avvista il convoglio (avente rotta 180°) alle 18.26, nel
punto 37°04' N e 11°51' E (una quindicina di miglia a
nord-nord-ovest di Pantelleria), a 6400-7315 metri di distanza su
rilevamento 30°, e manovra per attaccare, ma alle 18.32 la sua
manovra d'attacco viene interrotta da un'accidentale perdita di
assetto, e dal contemporaneo avvicinamento ad alta velocità di un
grosso cacciatorpediniere, avvisato da un aereo che ha avvistato il
sommergibile alle 18.15. Tra le 18.36 e le
19.25 Gioberti e Vivaldi bombardano
l'Urge con
bombe di profondità, senza riuscire a danneggiarlo, ma
costringendolo a ritirarsi verso nordovest ed a rinunciare
all'attacco. Prima di questi attacchi, alle 17.20 (a nord di
Pantelleria), il Marco
Polo ha già evitato
due siluri con la manovra, dopo la diramazione del segnale «Scie
di siluri a sinistra».
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Una foto scattata dal Da Recco durante una missione di scorta a trasporti truppe: sono riconoscibili Esperia e Marco Polo (foto Massimo Messina, via www.meludo.it) |
20
agosto 1941
All'una di
notte Maestrale e Grecale lasciano
il convoglio per tornare a Trapani, mentre alle 8.30 – quando il
convoglio imbocca la rotta di sicurezza numero 3 (rotta vera 138°) –
si aggregano alla scorta la torpediniera Partenope (con
funzioni di pilotaggio) e due MAS inviati da Tripoli; il convoglio è
inoltre preceduto da un gruppo di dragamine, che già da diverse ore
stanno passando a setaccio quel tratto di mare. Le navi procedono a
17 nodi di velocità, zigzagando fin dall'alba (tranne la Partenope);
pur essendo già sulla rotta di sicurezza, il caposcorta ha preferito
mantenere la formazione di navigazione in mare aperto e lo
zigzagamento, quale ulteriore precauzione contro i molti sommergibili
che si sapeva infestare le acque antistanti le coste della Libia. In
prossimità del punto «A» di atterraggio a Tripoli, l'Oriani lancia
sei bombe di profondità a scopo intimidatorio.
Il convoglio
procede su quattro colonne, due di mercantili e due di navi scorta:
da sinistra, una prima colonna formata da Vivaldi (a
proravia) e Gioberti (a
poppavia), con un MAS sul lato esterno; più a dritta, la colonna
formata da Marco
Polo (a proravia)
ed Esperia (a
poppavia); a dritta di queste, la Neptunia seguita
dall'Oceania (al
traverso a dritta dell'Esperia);
poi un altro MAS (a proravia sinistra della Neptunia)
e, sul lato esterno a dritta, una colonna formata da Da
Recco (a
proravia), Oriani (al
centro) e Scirocco (a
poppavia). La Partenope procede
in testa al convoglio, mentre la Dezza lo
chiude in coda, a poppavia di Esperia ed Oceania.
Il tempo è buono, il mare è calmo.
Fin dall'alba del 20 torna
sul cielo del convoglio la scorta aerea, costituita da due caccia e
da due idrovolanti CANT Z. 501 per scorta antisommergibili.
Tra
le 6.36 e le 7.25 il sommergibile britannico Unique (tenente
di vascello Anthony Richard Hezlet) avvista la Partenope ed
i MAS diretti incontro al convoglio e tre dei dragamine (che passano
a circa un miglio di distanza del sommergibile, più vicini alla
costa): ciò gli permette di dedurre la posizione del canale dragato,
e di posizionarsi vicino al suo imbocco per attendere il previsto
arrivo del convoglio, di cui è stato preavvisato. Alle 9.56 il
sommergibile avvista nel punto 33°03' N e 13°03' E (15 miglia a
nord di Pantelleria), a otto miglia di distanza su rilevamento 305°,
quattro transatlantici in avvicinamento con rotta 155°; alle 10.10
la distanza si è ridotta a 5945 metri, e Hezlet inizia a distinguere
alcune unità della scorta, tra cui un cacciatorpediniere classe
Navigatori ed una torpediniera “classe Partenope”.
Alle 10.19, dopo aver superato lo schermo della scorta,
l'Unique lancia
una salva di quattro siluri da appena 600 metri di distanza, contro
l'Esperia,
per poi scendere subito a 27 metri ed iniziare a ritirarsi verso
nord.
Alle 10.20 l'Esperia viene
colpito in rapida successione da tre siluri (uno a prua, uno al
centro ed uno a poppa), ed inizia rapidamente a sbandare sulla
sinistra.
Il resto del convoglio accosta immediatamente sulla
dritta, come prescritto dalle norme, poi il Marco
Polo segnala alle
altre navi di seguirlo e dirige a tutta forza verso il vicino porto,
preceduto dalla Partenope e
seguito dagli altri trasporti (arriveranno tutti indenni a Tripoli,
alle 12.30).
Pochi minuti dopo il siluramento, i velivoli della
scorta aerea – più precisamente, un idrovolante CANT Z. 501 della
145a Squadriglia
pilotato dal guardiamarina
De Solem –
sganciano alcune bombe contro l'Unique,
circa un chilometro al traverso a sinistra dell'Esperia;
a questo punto il caposcorta Nomis di Pollone, acclarato che la nave
è stata silurata da un sommergibile (prima vi era incertezza, sulle
altre unità, se le esplosioni fossero dovute a siluri oppure a
mine), ordina al Gioberti ed
ai MAS di dare la caccia al sommergibile ed
a Oriani, Dezza e Scirocco di
provvedere al salvataggio dei naufraghi, cui inoltre partecipa con il
suo stesso Vivaldi.
Il Da Recco
riceve inizialmente dal caposcorta l'ordine di accompagnare i
trasporti nella rotta di allontanamento, ma viene poi richiamato
affinché si unisca al Gioberti nella
caccia antisommergibili.
In soli dieci minuti l'Esperia affonda
nel punto 33°03' N e 13°03' E, ad undici miglia per 318° (cioè a
nordovest) dal faro di Tripoli, tra il caos totale dovuto al panico
che ha invaso le truppe imbarcate.
Per un'ora e
mezza Vivaldi, Oriani,
Scirocco e Dezza recuperano
dal mare centinaia di naufraghi; a mezzogiorno sopraggiungono tre
rimorchiatori ed alcuni motovelieri di Marina Tripoli, e dato che le
navi della scorta hanno già recuperato la maggior parte dei
superstiti, ed è pericoloso che si trattenessero ancora in zona
insidiata dai sommergibili con centinaia di naufraghi a bordo, Nomis
di Pollone ordina ad Oriani e Scirocco di
raggiungere Tripoli, e lascia sul posto i rimorchiatori e motovelieri
di Marina Tripoli per completare l'opera di salvataggio, sotto la
protezione della Dezza.
Grazie
all'operato delle unità soccorritrici, ben 1139 dei 1182 uomini
imbarcati sull'Esperia (oltre
il 96 %) vengono tratti in salvo, nonostante la rapidità e caoticità
dell'affondamento.
L'Unique
conta quindici esplosioni di bombe di profondità tra le 10.37 e le
11.37, ma nessuna esplode vicina. Tornato a quota periscopica alle
12.30, avvista soltanto un idrovolante ed un motoveliero, pertanto
torna in profondità per ricaricare i tubi,
Il
resto del convoglio entra a Tripoli alle 12.30.
21
agosto 1941
Il Da
Recco lascia Tripoli
alle 17 (o 19) insieme a Vivaldi (caposcorta), Oriani,
Gioberti
e Scirocco
(quest'ultimo lascerà il convoglio a Palermo), per scortare a
Napoli Marco
Polo, Neptunia ed Oceania
che rientrano in Italia dopo aver rapidamente scaricato truppe e
rifornimenti.
Durante la notte le navi vengono violentemente
attaccate da aerei, ma le unità della scorta vanificano l'attacco
emettendo cortine fumogene e dirottando la formazione.
23
agosto 1941
Il
convoglio giunge a Napoli alle 7 (per una fonte, i cacciatorpediniere
lo avrebbero però lasciato a Palermo).
Nel
suo rapporto, relativamente all'attacco aereo notturno, l'ammiraglio
Nomis di Pollone proporrà che per meglio difendersi da simili
attacchi la scorta emetta cortine nebbiogene non appena si accende il
primo bengala od anche a scopo preventivo, a crepuscolo avanzato,
prima ancora che appaia traccia di aerei nemici; che essa navighi con
ampi zig zag per impedire agli aerei nemici di determinare la rotta
dei piroscafi e per coprire con la nebbia artificiale un'area più
vasta; che – laddove le circostanze lo consentano – venga
compiuta una considerevole deviazione temporanea dalla rotta, di
almeno 45°; che si eviti il tiro di sbarramento e che sia la scorta
che i mercantili aprano il fuoco soltanto se gli aerei sono stati
avvistati con certezza (altrimenti, il tiro delle navi potrebbe
agevolare gli attaccanti nella loro individuazione); che i mercantili
non cambino rotta, velocità e formazione, onde non allontanarsi
dall'area protetta dalle cortine nebbiogene, manovrando soltanto per
evitare i siluri, se osservano dei lanci.
Alcune
ore dopo l'arrivo del convoglio, Da
Recco, Vivaldi
e Malocello
salpano da Napoli per unirsi alla scorta delle
corazzate Littorio e Vittorio
Veneto, salpate da Taranto
alle 16 del giorno precedente per intercettazione di forze navali
britanniche. È in corso l'operazione britannica «Mincemeat»,
consistente nell'uscita da Gibilterra di parte della Forza H (la
portaerei Ark Royal,
la corazzata Nelson,
l'incrociatore leggero Hermione e
cinque cacciatorpediniere, al comando dell'ammiraglio James
Somerville) con lo scopo di bombardare gli stabilimenti industriali
ed i boschi di sughero nella Sardegna settentrionale (con gli aerei
dell'Ark Royal),
posare mine al largo di Livorno (con il posamine veloce Manxman)
e dissuadere, con tale dimostrazione di forza, la Spagna dall'entrare
in guerra a fianco dell'Asse. I veri obiettivi dell'azione britannica
non sono comunque noti a Supermarina, che pensa soprattutto ad un
nuovo tentativo britannico di inviare a Malta un convoglio di
rifornimenti. Oltre all'uscita in mare delle forze da battaglia,
l'alto comando della Regia Marina ha anche dislocato otto
sommergibili ed altrettanti MAS in agguato nel Canale di Sicilia ed a
nord delle coste algerine.
Alle
17.52 Da Recco,
Vivaldi
e Malocello
si uniscono al largo di Capo Carbonara al gruppo «Littorio»
(corazzate Littorio e Vittorio
Veneto della IX
Divisione e cacciatorpediniere Aviere e Camicia
Nera della XI
Squadriglia e Granatiere, Bersagliere, Fuciliere ed Alpino della
XIII Squadriglia).
Il Vivaldi ha
a bordo un gruppo di crittografi di Supermarina, imbarcati a Napoli,
che subito dopo il ricongiungimento con la IX Divisione provvede a
trasbordare sulla Littorio,
la quale a questo scopo si mette alla cappa insieme ai
cacciatorpediniere della XIII Squadriglia.
Le
navi italiane assumono una rotta che le conduca al centro del
Tirreno; durante la notte la formazione deve tenere una velocità di
16-18 nodi, il massimo che la Vittorio
Veneto possa
sviluppare, a causa di problemi alle macchine della corazzata.
.jpg) |
Un’altra immagine del Da Recco durante una missione di scorta (da www.meludo.it) |
24
agosto 1941
Alle
cinque del mattino, risolto il problema, la Vittorio
Veneto può tornare a
procedere a tutta forza, e con essa il resto della squadra. All'alba
si uniscono alla formazione anche i cacciatorpediniere Pigafetta e Da
Verrazzano, salpati da
Trapani, nonché la III Divisione (incrociatori
pesanti Trento, Trieste, Bolzano e Gorizia)
e la XII Squadriglia Cacciatorpediniere
(Lanciere, Ascari, Corazziere e Carabiniere),
partite da Messina alle 9.50, ed i
cacciatorpediniere Maestrale e Scirocco,
inviati da Palermo.
Tra
le 6.30 e le 6.40 Littorio, Vittorio
Veneto e Trieste catapultano
i loro idrovolanti da ricognizione, che tuttavia non riescono a
trovare nulla; alle 11.15 è il Bolzano a
catapultare il suo ricognitore, ma con risultati non migliori.
La
formazione italiana, al comando dell'ammiraglio di squadra Angelo
Iachino, ha l'ordine di trovarsi per le otto del 24 trenta miglia a
sud di Capo Carbonara, dato che la Forza H è stata avvistata da un
ricognitore alle 9.10 del 23, circa 90 miglia a sud di Maiorca (il
ricognitore ne ha stimato la composizione in una corazzata, una
portaerei, un incrociatore e quattro cacciatorpediniere, con rotta
270° e velocità 14 nodi), ed alle 19.18 di quel giorno dei
rilevamenti radiogoniometrici hanno collocato la Forza H 145 miglia
ad ovest di Capo Teulada.
Intorno
alle cinque del mattino del 24, dieci Fairey Swordfish dell'Ark
Royal attaccano la
zona di Coghinas e Tempio Pausania con bombe e spezzoni incendiari,
causando però pochissimi danni (una casa distrutta ed un soldato
ucciso) nonostante la zona sia ricca di boschi di sughero, mentre
alle 7.45 la squadra italiana viene avvistata a sud della Sardegna da
un ricognitore britannico, proprio mentre anche la Forza H viena a
sua volta localizzata 30 miglia ad est di Minorca, con rotta 105° e
velocità 20 nodi.
Sulla
base di tale avvistamento, Supermarina (che ha intercettato il
segnale di scoperta del ricognitore nemico, informando subito
l'ammiraglio Iachino), ritenendo improbabile che le forze italiane
possano incontrare quelle britanniche entro il 24, a meno di non
uscire dal raggio di copertura della caccia aerea, ordina a Iachino
di tenersi ad est del meridiano 8° (salvo, per l'appunto, riuscire
ad incontrare la Forza H di giorno ed entro la zona protetta dalla
caccia italiana) e di rientrare nel Tirreno nel pomeriggio e di
trascorrervi la notte, dopo aver appoggiato la ricognizione che
l'VIII Divisione è stata mandata a svolgere nelle acque di Capo
Serrat e dell'isola di La Galite; ordina poi alla III ed alla IX
Divisione di trovarsi alle dieci del mattino del 25 agosto a 28
miglia per 150° da Capo Carbonara (cioè a sud-sud-est di tale
Capo), per ripetere la manovra del 24. Alle 17.20 (o 17.22) le forze
britanniche vengono avvistate da un altro ricognitore trenta miglia a
sudest di Maiorca, il che conferma che un incontro per il 24 non
sarebbe possibile, mentre sarebbe probabile il giorno seguente. La
Forza H, infatti, si è trattenuta nelle acque delle Baleari per
distogliere l'attenzione della ricognizione italiana dalla missione
del Manxman.
Non visto, il posamine penetra infatti in Mar Ligure e procede a
posare quattro campi minati tra Vada e Livorno, anche se le mine
verranno ben presto scoperte e neutralizzate dalla Marina italiana.
Alle 13 del 24 l'ammiraglio Somerville, informato dal
sommergibile Upholder (che
ha infruttuosamente attaccato l'VIII Divisione) della presenza in
mare di forze navali italiane a sud della Sardegna, ha deciso di
dirigere verso sudest per attaccarle con gli aerei dell'Ark
Royal; ma il ricognitore
lanciato dalla portaerei non riesce a trovarle, e quando alle 17
circa un bimotore Martin Baltimore decollato da Malta avvista le navi
di Iachino trenta miglia a sud della Sardegna, Somerville conclude
che è troppo tardi per tentare un attacco aerosilurante.
Durante
la notte, in mancanza di nuovi aggiornamenti sul(l'inesistente)
convoglio britannico, Supermarina annulla la puntata offensiva
dell'VIII Divisione e le ordina di rientrare a Palermo. Intanto il
gruppo al comando dell'ammiraglio Iachino, come da ordini, è tornato
in Tirreno.
25
agosto 1941
In
mattinata, dato che la ricognizione aerea (che si spinge fino al 3°
meridiano) non trova traccia della Forza H, ed il traffico radio
britannico sta tornando ai ritmi usuali, Supermarina decide di far
rientrare alle basi le proprie forze navali; alle 13.35 (o 13.36), di
conseguenza, l'ammiraglio Iachino riceve ordine di rientrare a Napoli
con la IX Divisione, e di rimandare la III Divisione a Messina.
La
sera del 25 si viene a sapere che all'alba la Forza H è stata
avvistata ormai già in acque spagnole, tra Sagunto e Valencia, prima
con rotta nord e poi diretta verso sud, accompagnata da numerosi
velivoli. Più tardi è stata vista a sud di Capo Sant'Antonio e si
sono sentite molte cannonate, probabilmente dovute ad esercitazioni
di tiro.
Si
è infatti trattata di una “crociera dimostrativa” condotta dalla
Forza H lungo le coste spagnole, allo scopo di dissuadere il
dittatore spagnolo Francisco Franco dall'entrare in guerra a fianco
dell'Asse. Le navi di Somerville rientreranno a Gibilterra nel
pomeriggio del 26.
1°
settembre 1941
Il
Da Recco
(caposcorta, capitano di vascello Stanislao Esposito) lascia Napoli
per Tripoli alle 22 (per altra fonte alle 24) scortando, insieme ai
cacciatorpediniere Dardo, Folgore e Strale,
un convoglio composto dalle motonavi Andrea
Gritti, Vettor
Pisani, Rialto, Sebastiano
Venier e Francesco
Barbaro. Il convoglio
attraversa lo Stretto di Messina ed imbocca la rotta di levante, per
tenersi il più possibile al di fuori del raggio d'azione degli
aerosiluranti di Malta.
2
settembre 1941
Durante
la notte sul 2 settembre, in Tirreno, il convoglio, informato della
probabile presenza di un sommergibile nemico, devia dalla rotta,
manovra che lo farà passare nello stretto di Messina con tre ore di
ritardo. Passato lo stretto, il convoglio si divide in due colonne,
con Rialto e Pisani a
dritta, Gritti e Barbaro a
sinistra, Venier più
a poppavia, tra le due colonne, e la scorta tutt'intorno (Da
Recco in
testa, Freccia e Strale a
dritta, Folgore e Dardo a
sinistra). La deviazione compiuta in precedenza fa però sì che il
convoglio si trovi in acque pericolose – nel raggio d'azione degli
aerei britannici di base a Malta – in acque notturne (senza cioè
poter fruire della scorta aerea italiana, che vi è solo di giorno),
contrariamente alle previsioni iniziali. Al calare della notte, come
al solito, la scorta aerea se ne va.
3
settembre 1941
Non
appena in franchia dello stretto di Messina, il convoglio assume
rotta 116° (mettendo la prua sulla Morea), cioè verso est, per
uscire dal cerchio di raggio 160 miglia con centro su Malta (che
corrisponde al raggio d'azione dei suoi aerei, che possono colpire
nella zona dello stretto e fino a sud di Capo Spartivento, ma non più
ad est) prima di assumere rotta sud, onde superare rapidamente il
tratto più pericoloso del viaggio. Il ritardo accumulato nello
stretto di Messina fa sì che il convoglio si trovi nella zona
pericolosa (entro il raggio d'azione degli aerei di Malta) nelle ore
notturne, quando non è disponibile la scorta aerea.
Alle
00.25-00.30, 26 miglia a sud/sudest (per 140°) di Capo
Spartivento (nel punto 37°33' N e 16°26' E), cioè mentre ancora si
trova – per poche miglia – entro il raggio d'azione degli aerei
di Malta, il convoglio viene attaccato da nove aerosiluranti Fairey
Swordfish dell'830th
Squadron F.A.A. decollati da Malta.
Gli
aerei, provenienti dal lato sinistro, nonostante la reazione delle
artiglierie contraeree delle navi (il Folgore abbatte
un aerosilurante), colpiscono Gritti e Barbaro con
un siluro ciascuna. La prima, incendiata, esplode dopo pochi minuti
uccidendo tutti i 349 uomini a bordo tranne due, mentre
la Barbaro viene
immobilizzata ma rimane a galla. Il Dardo fornisce
assistenza alla Barbaro,
avvicinandosi all'1.05 ed imbarcandone il personale di passaggio (9
ufficiali e 294 sottufficiali e soldati del Regio Esercito) tra
l'1.40 e le 7 (l'operazione viene interrotta per alcune ore, dalle
3.30 alle 5.15, per via del pericoloso stato del mare), dopo di che
viene teso un cavo di rimorchio tra le due navi. In questo frangente
sopraggiunge lo Strale,
che comunica col Dardo,
vi trasborda del personale e poi si allontana a tutta forza verso
sudest, ricongiungendosi al resto del convoglio. Il Dardo,
rimorchiando la Barbaro,
con la scorta dei cacciatorpediniere Ascari e Lanciere appositamente
inviati (e successivamente rilevato, nel rimorchio, dai
rimorchiatori Titano e Porto
Recanati),
riuscirà a portarla a Messina, giungendovi alle 18.30 dello stesso
giorno.
Il
resto del convoglio (Da
Recco, Folgore,
Strale,
Rialto,
Pisani,
Venier)
prosegue. Alle 13.45 il sommergibile britannico Otus
(tenente di vascello Richard Molyneux Favell) avvista verso nord due
aerei che girano in cerchio, evidentemente sulla verticale di un
convoglio: è il convoglio di cui fa parte il Da
Recco; il sommergibile
s'immerge ed apre i cappelli dei tubi, ed alle 14.12 rileva rumore di
macchine a proravia dritta. Alle 14.15 l'Otus
avvista il convoglio, di cui apprezza correttamente la composizione
come tre mercantili in due colonne, scortati da tre
cacciatorpediniere, ed inizia una manovra d'attacco con obiettivo la
nave di testa della colonna di dritta (la Rialto),
ritenuta erroneamente essere una motonave tipo RAMB. Giunto a 1830
metri di distanza, in posizione 35°40' N e 18°07' E (circa 175
miglia ad est della Valletta) il sommergibile lancia quattro siluri
alle 14.30; dopo un minuto e mezzo avverte due colpi sordi a grande
distanza. Sceso in profondità subito dopo il lancio, l'Otus
viene sottoposto a caccia fino alle 15, con il lancio di 16 bombe di
profondità, che non gli arrecano danni.
4
settembre 1941
Il
Da Recco ed
il resto del convoglio arrivano a Tripoli alle 18.30.
5
settembre 1941
Da
Recco (caposcorta,
capitano di vascello Stanislao Esposito), Freccia, Folgore
e Strale, partono
da Tripoli alle 14 per scortare un convoglio formato dal
piroscafo Ernesto,
dalla nave cisterna Poza
Rica e
dalla motonave Col di
Lana, dirette a Napoli.
6
settembre 1941
Alle
23.55 iniziano attacchi di aerosiluranti britannici. I
cacciatorpediniere iniziano manovre evasive e distendono cortine
nebbiogene per nascondere i mercantili; Col
di Lana e Poza
Rica riescono ad
evitare i siluri, ma non così l'Ernesto,
che viene colpito a prua, una ventina di miglia a nord di
Pantelleria. Lo Strale (capitano
di corvetta Giuseppe Angelotti) lo raggiunge subito e gli fornisce
assistenza, tentando di prenderlo a rimorchio; a causa del tempo
fortemente avverso e della forte inclinazione del piroscafo, tali
ripetuti tentativi dello Strale falliscono,
ed il cacciatorpediniere deve passare il cavo ai
rimorchiatori Costante, Marsigli e Montecristo,
frattanto inviati da Trapani. Lo Strale rimane
con essi per scortarli, mentre il resto del convoglio prosegue
(Strale,
Ernesto
e la torpediniera Circe,
unitasi ad essi alle undici del 7 settembre, riusciranno e
raggiungere Trapani all'1.30 dell'8).
8
settembre 1941
Da
Recco, Freccia,
Folgore,
Poza Rica
e Col di Lana
arrivano a Napoli alle quattro (o cinque) del mattino.
.jpg) |
Un'immagine scattata dal Da Recco durante un attacco di aerosiluranti ad un convoglio (foto scattata dal capo segnalatore di seconda classe Massimo Messina, via Giuseppe Messina e it.wikipedia.org) |
16
settembre 1941
Il Da
Recco (caposcorta,
capitano di vascello Stanislao Esposito) salpa da Taranto alle 20.20,
insieme ai cacciatorpediniere Pessagno, Da
Noli, Usodimare, Alfredo
Oriani e Vincenzo
Gioberti, per scortare a
Tripoli un convoglio veloce formato dalle
motonavi Vulcania, Neptunia ed Oceania,
cariche di truppe italiane e tedesche.
Sulla
scorta della dolorosa esperienza dell'affondamento dell'Andrea
Gritti, il convoglio non
segue subito la rotta diretta per Tripoli, mantenendosi invece molto
più ad est, in modo da tenersi completamente al di fuori del raggio
operativo degli aerosiluranti di base a Malta: deve passare ad est di
Malta ed accostare per Tripoli solo quando sarà giunto nei pressi
della costa libica, arrivando così a Tripoli con provenienza quasi
da est. Inizialmente la navigazione del convoglio si svolge
approssimativamente lungo la tangente al cerchio avente centro Malta
e raggio 160 miglia; poi, dopo l'accostata, le navi imboccheranno un
corridoio stretto tra il predetto cerchio di raggio 160 miglia, a
nord, ed i campi minati, a sud.
E
proprio nel tratto finale di questo “corridoio”, dove il percorso
è obbligato, sono stati inviati in agguato, a seguito di
decrittazioni di “ULTRA” su orari e rotte del convoglio, quattro
sommergibili britannici: l'Unbeaten (100
miglia ad est di Tripoli), l'Upholder (10
miglia a nordovest dell'Unbeaten)
e l'Upright (20
miglia a nordovest dell'Unbeaten),
a formare uno sbarramento perpendicolare alla presunta rotta dei
convogli diretti da Tripoli e provenienti da est; e l'Ursula,
30 miglia ad est di Tripoli, all'imbocco della rotta di sicurezza.
17
settembre 1941
In
mattinata il convoglio viene localizzato da un ricognitore
britannico, avvistato a sua volta dall'Usodimare,
che alle otto del mattino informa il Da
Recco di aver avvistato un
aereo sospetto su rilevamento 150°. Alle 16.52 l'Usodimare comunica
al Da Recco
di aver avvistato un sommergibile su rilevamento 140°, a 7000 metri
di distanza; mentre il convoglio accosta a
dritta, Pessagno ed Usodimare,
che sono in posizione di scorta laterale a sinistra, escono dalla
formazione e danno la caccia al sommergibile, mentre il comandante
Esposito ordina a Da Noli
e Gioberti
di lanciare bombe di profondità a scopo intimidatorio, per il caso
che vi fosse in zona un secondo sommergibile. Dopo pochi minuti
Esposito fa riprendere al convoglio la rotta della direttrice di
marcia, per poi ordinare rotta 180° in modo da eludere eventuali
agguati tesi da altri sommergibili sulla rotta seguita. Alle 17.20
Pessagno
e Usodimare
rientrano in formazione dopo aver dato la caccia al sommergibile;
probabilmente si è trattato di un falso allarme, non risultando che
vi fossero sommergibili britannici nella zona attraversata in quel
momento.
Alle
19.15 il comandante Esposito ordina di assumere rotta 255° per
giungere al punto di atterraggio "B" delle rotte di
sicurezza, tra Homs e Tripoli; la serata è molto scura, e quando le
navi accostano è già buio. Alle 21.05 il Pessagno segnala
al Da Recco
che una delle sue vedette ritiene di aver avvistato un bengala del
tipo utilizzato dai britannici, spentosi immediatamente.
Il
convoglio procede con le motonavi disposte in formazione a triangolo
(Oceania a
dritta, Vulcania
a sinistra, Neptunia in
coda tra le due), con i cacciatorpediniere tutt'intorno; il Da
Recco, in qualità di
caposcorta, procede in testa alla formazione.
In
previsione dell'arrivo del convoglio, Marilibia ha ordinato una
ricerca idrofonica da parte di una sezione di MAS nei pressi del
punto "B" nella notte tra il 17 ed il 18 settembre, l'invio
della torpediniera Perseo
incontro al convoglio per rinforzo alla scorta e pilotaggio,
l'approntamento delle torpediniere Circe
e Centauro
(che dovranno essere pronte a muovere dalle quattro del 18),
un'accurata perlustrazione nel pomeriggio del 17 della zona che il
convoglio dovrà percorrere durante la notte e la mattina del 18 da
parte di un idrovolante CANT Z. 501, e la scorta aerea del convoglio
a partire dall'alba del 18, con l'impiego di due CANT Z. 501, due
caccia FIAT CR. 42 e due bombardieri tedeschi Junkers Ju 87.
Il
Da
Recco
pitturato in grigio scuro nella tarda estate del 1941 (Coll. A.
Molinari, via Bollettino d’Archivio dell’USMM, anno VII, dicembre
1993). Altra fonte data l’immagine al 1936 (Coll. Luigi Accorsi,
via www.associazione-venus.it)
18
settembre 1941
Alle
3.30 sorge la luna all'ultimo quarto, a poppavia sinistra del
convoglio. Alcuni minuti prima, alle 3.07, l'Unbeaten (il
più a sud dei tre sommergibili dislocati a cavallo della rotta) ha
avvistato al limite della visibilità le navi italiane dirette verso
Tripoli; essendo troppo lontano per lanciare i siluri con concrete
possibilità di successo, il battello britannico comunica
l'avvistamento per radio ai tre “colleghi” in agguato nelle
vicinanze, che ricevono tutti il messaggio. Anche Supermarina
intercetta e decifra il messaggio dell'Unbeaten,
che ritrasmette il più rapidamente possibile al Da
Recco, per avvisarlo: ma è
già troppo tardi, il comandante Esposito riceverà il messaggio alle
4.15, contemporaneamente all'esplosione dei siluri.
L'Upholder,
infatti, non appena ricevuto il messaggio si è mosso verso il
convoglio, l'ha avvistato alle 3.50 a 6 miglia per 045° (la
visibilità del convoglio è aumentata da un problema della Vulcania,
dal cui fumaiolo esce un vistoso pennacchio di scintille) ed ha
lanciato una salva di siluri, alle 4.06 (orario britannico), da 4570
metri di distanza.
Alle
4.15 (orario italiano), due delle armi vanno a segno: in posizione
33°02' N e 14°42' E (fonti italiane; 33°01' N e 14°49' E per
l'Upholder),
la Neptunia e
l'Oceania vengono
colpite, una dopo l'altra. Il disastro coglie il convoglio del tutto
di sorpresa: nessuno, né sulle motonavi né sui cacciatorpediniere,
ha avvistato il sommergibile o le scie dei siluri, neanche all'ultimo
momento.
Subito
dopo il siluramento, il comandante Esposito del Da
Recco ordina alla Vulcania,
unica rimasta indenne, di proseguire per Tripoli con la scorta
dell'Usodimare
(capitano di fregata Alfonso Galleani) (le due navi giungeranno
indenni a destinazione, dopo aver eluso un attacco da parte
dell'Ursula);
a Da Noli
e Gioberti
di prestare assistenza alla Neptunia
e di recuperare gli uomini che da essa si stanno gettando in mare; al
Pessagno
di prestare assistenza all'Oceania.
Inoltre informa Marina Tripoli di quanto accaduto e chiede l'invio di
rimorchiatori e copertura aerea dall'alba, dopo di che, assicuratosi
che la Vulcania
stia effettivamente proseguendo verso Tripoli, compie con il Da
Recco una perlustrazione
delle acque in cui ritiene si trovi il sommergibile attaccante.
La Neptunia è,
delle due motonavi colpite, quella in condizioni più critiche: il
siluro è esploso a poppavia del traverso, probabilmente sotto la
chiglia, provocando immediatamente l'immobilizzazione della nave e la
cessazione dell'erogazione dell'energia elettrica. La motonave inizia
subito ad appopparsi ed a sbandare sulla sinistra (inizialmente
9°-10°); come ordinato dal caposcorta, Da
Noli e Gioberti si
portano sulla sua dritta (cioè sopravento), fermandosi a 50-100
metri dalla motonave, mentre questa cala tutte le scialuppe, cariche
di soldati. Molti altri soldati si sono gettati direttamente in
acqua; quelli rimasti a bordo dopo la partenza delle scialuppe
ricevono istruzione di calarsi in mare lungo corde e biscagline,
mentre vengono gettati in mare tutti gli zatterini e centinaia di
galleggianti di fortuna, quali tavole e pannelli da boccaporto. Da
Noli e Gioberti
recuperano incessantemente i naufraghi dalle imbarcazioni e dal mare;
tutti indossano i giubbotti salvagente e sono privi delle scarpe.
L'appoppamento e lo sbandamento della Neptunia si
aggravano sempre più; alle 6.20, fallito ogni tentativo di contenere
gli allagamenti, viene dato l'ordine di abbandono generale della nave
(a bordo sono rimasti pochi soldati e parte dell'equipaggio). Alle
6.50 la Neptunia s'inabissa
con la poppa in verticale. Da
Noli e Gioberti
continuano a recuperare i naufraghi; successivamente si unisce a loro
anche il Da Recco.
Maggiori
speranze si nutrono per l'Oceania,
che – colpita più a poppa della Neptunia
– non ha subito danni tali da comprometterne la galleggiabilità:
le paratie reggono, gli allagamenti vengono contenuti, e la maggior
parte dell'apparato propulsivo (eccetto la motrice interna di
sinistra, che dev'essere fermata per probabile perdita dell'elica)
rimane in funzione; l'iniziale lieve appoppamento assunto dalla nave
non sembra aumentare. Prima di tentare un rimorchio, comunque, il suo
comandante decide di trasferire le truppe sul Pessagno,
temendo che un tentativo di rimorchio potrebbe causare il cedimento
delle paratie (una volta sbarcate le truppe, tenterebbe di
raggiungere la costa con le due eliche esterne, ricorrendo al
rimorchio solo se necessario); quest'ultimo riferisce al Da
Recco che l'Oceania
appare in assetto normale, solo lievemente appoppata, che sta
mettendo a mare le imbarcazioni e che il suo comandante gli ha detto
di essere stato colpito ad un'elica e chiesto assistenza per il
recupero delle truppe imbarcate, rinunciando per il momento alla sua
proposta di prenderlo a rimorchio. Il Pessagno
chiede assistenza al Da
Recco perché teme che con
l'arrivare della luce del giorno il sommergibile attaccante potrebbe
tentare un nuovo attacco in immersione, chiedendo dunque l'invio di
un'altra silurante e di un rimorchiatore.
Alle
7.30 il Pessagno comunica
al Da Recco
di non avere più spazio dove mettere i naufraghi: ha a bordo oltre
2000 superstiti dell'Oceania;
chiede al Da Recco
di effettuare lancio preventivo di bombe di profondità attorno alla
motonave danneggiata, ma il comandante Esposito decide di sostituire
con la sua nave il sovraccarico Pessagno
nell'opera di soccorso ed assistenza all'Oceania.
Poco dopo, pertanto, il Da
Recco raggiunge il Pessagno
e gli comunica che sarà lui a continuare il recupero dei naufraghi,
ordinandogli di raggiungere Tripoli (distante una novantina di
miglia), sbarcare i naufraghi e tornare sul posto il prima possibile.
Nel
mentre, i britannici sono ancora all'opera: alle cinque del mattino
l'Upright,
avvistate le due motonavi immobilizzate, ha dato inizio ad una
manovra d'attacco per dare loro il colpo di grazia, salvo rinunciare
alle 5.25 per la presenza dei cacciatorpediniere.
Per
giunta l'Upholder,
sceso in profondità dopo l'attacco (alle 4.08) per ripiegare verso
sud, alle 4.45 è riemerso ed ha osservato la scena delle due
motonavi colpite con i cacciatorpediniere impegnati nei soccorsi, e
Wanklyn ha deciso di spostarsi verso est per ricaricare i siluri ed
attaccare nuovamente all'alba: alle 5.30 l'Upholder torna
ad immergersi e si avvicina alle navi italiane, ricaricando i tubi di
lancio, ed alle 6.30 avvista l'Oceania ed
il Pessagno,
decidendo di attaccare la prima.
Alle
6.52 anche l'Unbeaten (capitano
di corvetta Edward Arthur Woodward) avvista l'Oceania
danneggiata e si avvicina per attaccare, ma viene dissuaso dalla
presenza dei cacciatorpediniere.
Alle
7.56 l'Upholder sta
per lanciare i siluri, quando un cacciatorpediniere classe Navigatori
(probabilmente il Da
Recco o il Pessagno)
viene avvistato a poca distanza, inducendo Wanklyn a scendere in
profondità (il cacciatorpediniere passa sulla verticale del
sommergibile quando questo si trova a 13 metri di profondità, ma non
lancia nessuna bomba); alle 7.59 l'Upholder scende
a 21 metri e manovra per portarsi di nuovo in posizione di attacco,
passando sotto l'Oceania.
Alle
8.51, in posizione 32°58' N e 14°50' E, l'Upholder lancia
un'altra salva di siluri contro l'Oceania,
da 1830 metri di distanza: due delle armi vanno a segno colpendo la
motonave al centro e facendo esplodere anche le bombole di aria
compressa per l'avviamento dei motori, il che determina il rapido
affondamento di poppa del transatlantico. Per fortuna, le truppe sono
già state tutte sbarcate ed a bordo della motonave rimanevano
soltanto la parte di equipaggio civile necessaria alle manovre ed il
personale militare addetto all'armamento contraereo, che dopo il
secondo siluramento butta in acqua tutti gli zatterini rimasti a
bordo e poi si getta in mare per ordine del comandante. Alle 8.57
l'Oceania
affonda con la prua rivolta verso il cielo, una settantina di miglia
ad est/nordest di Tripoli.
Al Da
Recco – giunto
sottobordo all'Oceania
per rilevare il Pessagno
nei soccorsi soltanto pochi minuti prima del siluramento – non
resta che recuperare i naufraghi, partendo da quelli imbarcati sulle
zattere più grandi (messe in mare prima del secondo siluramento) e
poi passando agli zatterini. Marina Libia, intanto, ha disposto
l'invio sul posto di numerose unità per partecipare alle operazioni
di salvataggio: le torpediniere Circe,
Perseo,
Centauro
e Clio
(sopraggiunte verso le otto), la nave soccorso Laurana,
i rimorchiatori Pronta
e Salvatore
Primo
(questi ultimi fatti partire prima del secondo siluramento
dell'Oceania,
per prenderla a rimorchio) e due gruppi di dragamine. All'alba viene
anche inviato un idrovolante di soccorso della Croce Rossa, che
tuttavia perde un'ala ed affonda nel tentativo di ammarare nel mare
agitato; il Da Noli
ne recupera l'equipaggio. Sempre all'alba giungono alcuni aerei da
caccia e da ricognizione marittima, per proteggere le navi impegnate
nei soccorsi.
La
perdita dei due transatlantici è un duro colpo, ma grazie all'alacre
opera di soccorso delle siluranti risulta possibile salvare la
larghissima maggioranza del personale imbarcato: 5434 uomini su 5818,
cioè il 93 %. Il Da
Recco ha salvato ben 1302
uomini; il Pessagno ha
tratto in salvo 2083 naufraghi, il Da
Noli 682, il Gioberti
582, l'Usodimare (tornato
sul posto dopo aver accompagnato a Tripoli la Vulcania)
485, la Clio 163,
la Perseo 131,
la Circe 3
ed altri tre gli idrovolanti di soccorso.
Molti
gli episodi di altruismo e di vero e proprio eroismo: diversi marinai
dei cacciatorpediniere si sono tuffati in acqua per sostenere e
soccorrere i soldati che versavano in condizioni peggiori; una volta
a bordo, i naufraghi sono stati rifocillati e rivestiti con indumenti
offerti spontaneamente da ufficiali e marinai delle unità
soccorritrici. I cacciatorpediniere più carichi di naufraghi, quali
Da Recco
e Pessagno,
hanno messo a repentaglio la loro stessa stabilità per salvare
quante più vite possibile: commenta in merito la storia ufficiale
dell'USMM: “sembra
realmente impossibile che cacciatorpediniere tipo “Navigatori”
abbiano potuto prendere a bordo oltre 2.000 naufraghi come fece il
Pessagno, o anche solo 1300 come il Da Recco. Questi caccia avevano
in guerra un dislocamento sulle 3.000 tonnellate ed un equipaggio di
250 uomini circa, e l'averli sovraccaricati in tal modo deve aver
destato serie preoccupazioni nei comandi e negli ufficiali del genio
navale (…) ma
il desiderio di salvare il maggior numero possibile di naufraghi fece
passare in seconda linea anche le preoccupazioni”.
Il capitano di vascello Aldo Cocchia, che avrebbe assunto il comando
del Da Recco
nel 1942, avrebbe così descritto la situazione a bordo per come gli
era stata raccontata da chi c'era: “…sul
Da Recco non c'era più posto neppure per uno spillo. Soldati erano
in tutti i locali, comprese le caldaie, ammassati come sardelle; ve
n'erano sul ponte di comando, sugli alberi, perfino aggrappati ai
fumaioli (…) Inutile
dire che i naufraghi furono tutti rivestiti di indumenti asciutti
forniti da stato maggiore ed equipaggio che diedero fondo a tutte le
loro risorse pur di poter dare qualcosa di caldo ad ognuno degli
oltre 2.000 [sic]
uomini recuperati a bordo. Da tenere presente che l'equipaggio del Da
Recco era composto di circa 230 persone in tutto!”.
Il comandante Esposito del Da
Recco sarà decorato, per
la sua opera di soccorso, con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare
("Comandante di
cacciatorpediniere di scorta a convoglio, silurati due piroscafi da
sommergibile nemico, permaneva lungamente con la sua unità nelle
acque insidiate per portare tempestivo ed efficace soccorso ai
naufraghi. Dall'alba al tramonto manovrava continuamente con
arditezza e perizia marinaresca e, prodigandosi instancabilmente, con
elevato senso di abnegazione nell'opera di salvataggio, contribuiva a
recuperare gran parte dei naufraghi").
Da
Recco, Da
Noli, Gioberti,
Circe,
Centauro
e Perseo
entrano a Tripoli con i naufraghi alle 21.
.jpg) |
L’Oceania appena colpita dai siluri, fotografata dal Da Recco (da www.meludo.it) |
L’affondamento
(da www.meludo.it)
Recupero
di naufraghi dell’Oceania
(nell’ultima foto in basso, soldati tedeschi) da parte del Da
Recco
(da www.meludo.it)
19
settembre 1941
Da
Recco, Pessagno,
Da Noli
ed Usodimare
lasciano Tripoli alle 19.30 per scortare a Napoli la Vulcania,
che rientra per la rotta di ponente.
20
settembre 1941
Vulcania
e scorta vengono avvistate alle 10.15, in posizione 37°08' N e
11°02' E, dal sommergibile italiano Alagi
(tenente di vascello Giulio Contreas), che essendo stato preavvisato
del loro passaggio, rimane immerso a 20 metri di profondità. Uno dei
cacciatorpediniere passa sulla sua verticale alle 10.22.
21
settembre 1941
Le
navi arrivano a Napoli alle 2.45 dopo un viaggio di ritorno
tranquillo.
26-29
settembre 1941
Il
Da Recco,
insieme al Pessagno
ed al Folgore
(aggregato alla XVI Squadriglia Cacciatorpediniere), salpa da Napoli
unitamente alle navi da battaglia Littorio
e Vittorio Veneto
(IX Divisione) ed alla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere
(Granatiere,
Bersagliere,
Fuciliere,
Vincenzo Gioberti)
per raggiungere ed attaccare un convoglio britannico in navigazione
da Gibilterra a Malta e scortato dalla Forza H nell'ambito
dell'operazione "Halberd".
Il
convoglio, denominato WS. 11X, è formato dalla cisterna
militare Breconshire e
dalle navi da carico Ajax, City
of Lincoln, City
of
Calcutta, Clan
MacDonald, Clan
Ferguson, Rowallan
Castle, Imperial
Star e Dunedin Star,
aventi a bordo un carico complessivo di 81.000 tonnellate di
rifornimenti; la scorta diretta è costituita dagli incrociatori
leggeri Edinburgh, Sheffield, Euryalus, Kenya ed Hermione (quest'ultimo
distaccato per eseguire un brevissimo bombardamento di Pantelleria –
della durata di cinque minuti – nella notte tra il 27 ed il 28
settembre) e dai
cacciatorpediniere Cossack, Farndale, Foresight, Forester, Heythrop, Laforey, Lightning ed Oribi della
Forza X, in aggiunta ai quali è uscita in mare da Gibilterra per
proteggere la navigazione del convoglio la Forza H, con le
corazzate Prince
of
Wales, Rodney e Nelson,
la portaerei Ark
Royal ed i
cacciatorpediniere Duncan, Fury, Lance, Legion, Lively, Gurkha, Zulu, Isaac Sweers (olandese), Garland (polacco)
e Piorun (polacco).
La formazione è stata suddivisa dai britannici in vari sottogruppi,
partiti in momenti diversi tra il 24 ed il 25 settembre: Nelson
con Garland,
Piorun
ed Isaac
Sweers
alle 18.15 del 24; Rodney,
Ark Royal
ed Hermione
con Duncan,
Forester,
Foresight,
Gurkha,
Zulu,
Lance,
Lively
e Legion
alle 23.30 del 24; la cisterna militare Brown
Ranger
(incaricata del rifornimento in mare dei cacciatorpediniere impegnati
nell'operazione) scortata dalla corvetta Fleur
de
Lys
all 20 del 24; altre unità entrano dall'Atlantico insieme al
convoglio, che supera Punta Europa
all'1.30 del 25. La navigazione del convoglio WS. 11X si svolgerà in
contemporanea con quella di un altro convoglio (i mercantili scarichi
Port
Chalmers,
City
of
Pretoria
e Melbourne
Star,
scortati da una corvetta) da Malta a Gibilterra e con un'azione
diversiva
della Mediterranean Fleet nel Mediterraneo orientale.
Ben
sette sommergibili britannici (Upholder,
Upright,
Unbeaten,
Utmost,
Urge,
Ursula,
Trusty),
uno olandese (O
21) ed
uno polacco
(Sokol)
vengono schierati attorno alla rotta del convoglio, pronti ad
attaccare le navi italiane che dovessero tentarne
l'intercettazione.
Da parte italiana si ignora il vero obiettivo
dei britannici: la partenza della Forza H in più gruppi (solo alcuni
dei quali vengono avvistati dalla ricognizione aerea) e le rotte
seguite da questi fino alla riunione (che avviene il mattino del 27
settembre, cento miglia a sud di Cagliari) traggono in inganno i
comandi italiani, che ritengono erroneamente che lo scopo
dell'operazione sia un bombardamento navale contro obiettivi sulle
coste italiane (come attestato dal "Notiziario 73" di
Maristat Informazioni, del mattino del 25 settembre, secondo cui
“Scopo missione sarebbe
rappresaglia contro coste italiane”)
insieme al lancio di aerei per rimpinguare le squadriglie di Malta.
L'ordine
per le forze italiane è quindi di riunirsi a nord della Sardegna in
una posizione difensiva, e di non ingaggiare il nemico a meno di non
essere in condizioni di netta superiorità (precisamente: radunarsi
alle 12 del 27 50 miglia a sud di Capo Carbonara per intercettare il
convoglio intorno alle 15, ad est di La Galite, e di attaccare solo
se l'Aeronautica riuscirà a danneggiare almeno una delle corazzate
che saranno presumibilmente presenti).
Oltre
alla IX Divisione con la XIII e la XVI Squadriglia, escono in mare a
contrasto di «Halberd» anche la III (Trento,
Trieste,
Gorizia)
e l'VIII Divisione (Duca
degli Abruzzi, Attendolo)
rispettivamente da Messina e La Maddalena (dove l'VIII Divisione si è
trasferita da Palermo il 24-25 settembre), accompagnate
rispettivamente dalla XII (Lanciere,
Carabiniere,
Corazziere,
Ascari)
e dalla X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale,
Grecale,
Scirocco):
gli incrociatori con le relative squadriglie di cacciatorpediniere
dovranno formare un gruppo unico, mentre le corazzate con le loro
squadriglie costituiranno l'altro gruppo. Il tutto sotto il comando
dell'ammiraglio Angelo Iachino. (Secondo www.naval-history.net,
il gruppo che comprende il Da
Recco sarebbe uscito in
mare già la tarda serata del 24 settembre, assumendo rotta verso
sudovest per intercettare il gruppo della Rodney.
Sembra probabile un errore).
Sempre
per contrastare l'operazione britannica, Supermarina invia quattro
sommergibili ad est delle Baleari, altri tre a sudovest della
Sardegna, tre a sud/sudovest di Ibiza e cinque in Mar Ligure.
A
mezzogiorno del 27 la III, la VIII e la IX Divisione, con le
rispettive squadriglie di cacciatorpediniere, si riuniscono una
cinquantina di miglia ad est di Capo Carbonara, per intercettare il
convoglio, poi dirigono verso sud (o sudest) a 24 nodi per
l'intercettazione, con gli incrociatori che precedono di 10 km le
corazzate. Alla stessa ora, dato che la ricognizione ha avvistato una
sola corazzata britannica ed una portaerei, e che la Regia
Aeronautica sta per attaccare in massa (gli aerosiluranti italiani,
al prezzo di sette velivoli abbattuti, riusciranno a silurare e
danneggiare la Nelson,
costringendola a ridurre la velocità a 18 nodi), la flotta italiana
viene autorizzata ad ingaggiare battaglia (Iachino riceve libertà
d'azione); alle 14 viene ordinato il posto di combattimento, e le
corazzate sono schierate nella direzione di probabile avvicinamento
del nemico.
Quando
però il contatto appare imminente, in seguito a nuove segnalazioni
dei ricognitori viene appreso che le forze britanniche ammontano in
realtà a due corazzate (in realtà tre: Prince
of
Wales,
Nelson
e Rodney
sono state distaccate insieme a sei cacciatorpediniere per attaccare
la squadra italiana, anche se la Nelson
deve successivamente essere sostituita dagli incrociatori Sheffield
ed Edinburgh
perché i danni causati dal siluramento le impediscono di tenere il
passo delle altre navi), una portaerei e sei incrociatori, il che
pone la squadra italiana in condizioni di inferiorità rispetto alla
forza britannica, e per giunta la prima è sprovvista di copertura
aerea (soltanto sei caccia, con autonomia dalle basi non superiore a
100 km), mentre le navi italiane sono tallonate da ricognitori
maltesi fin dalle 13.07 (e più tardi, dalle 15.15 alle 17.50, da
aerei dell'Ark Royal)
ed esposte ad attacchi di aerosiluranti lanciati dalla portaerei.
Alle 14.30, considerata la propria inferiorità numerica, la scarsa
visibilità e la mancanza di copertura, la squadra italiana inverte
la rotta per portarsi fuori dal raggio degli aerosiluranti nemici.
Alle
15.30 sopraggiungono tre caccia italiani FIAT CR. 42 assegnati alla
scorta aerea, ma, per via della loro somiglianza agli aerosiluranti
britannici (sono anch'essi biplani), vengono inizialmente scambiati
per aerei inglesi ed il Fuciliere
ne abbatte il capo pattuglia, mentre gli altri due si allontanano. Il
pilota dell'aereo, fortunatamente, rimane illeso e riesce a
paracadutarsi, venendo poi recuperato dal Granatiere.
Alle
17.18, avendo ricevuto comunicazioni secondo cui la squadra
britannica avrebbe subito pesanti danni a causa degli attacchi aerei,
la formazione italiana dirige nuovamente verso sud (prima stava
procedendo verso nord), salvo invertire nuovamente la rotta alle
18.14, portandosi al centro del Mar Tirreno, come ordinato da
Supermarina perché ormai non è più possibile intercettare il
convoglio prima del tramonto.
Alle
otto del mattino del 28 le navi italiane attraversano il canale di
Sardegna e, come ordinato, raggiungono un punto 80 miglia ad est di
Capo Carbonara, poi fanno rotta per ovest-sud-ovest ma infine, alle
14.00, dato che i ricognitori non trovano più alcuna nave nemica a
sud e ad ovest della Sardegna (il convoglio è infatti passato) viene
ordinato il rientro alle basi. La XVI Squadriglia (meno il Folgore,
dirottato su Messina causa avaria) e la IX Divisione raggiungono
Napoli.
Parimenti
infruttuosi risulteranno gli agguati di sommergibili (uno dei quali,
l'Adua,
viene affondato con tutto l'equipaggio dai cacciatorpediniere Gurkha
e Legion
che aveva infruttuosamente attaccato) e MAS; unici risultati contro
"Halberd" sono colti dalla Regia Aeronautica, che silura la
corazzata Nelson
ed affonda il piroscafo Imperial
Star,
oltre a danneggiare lievemente il cacciatorpediniere Zulu
(che subisce danni causati da bombe cadute in mare a poca distanza).
Paradossalmente
i britannici subiranno diversi danni e perdite a causa di incidenti
ed episodi di “fuoco amico”: ben tre aerei dell'Ark
Royal (tutti caccia Fairey
Fulmar, due dell'807th
Squadron ed uno dell'808th
Squadron) vengono accidentalmente abbattuti dalle artiglierie
antiaeree della Rodney
e della Prince
of
Wales,
mentre i mercantili City
of
Calcutta
e Rowallan
Castle
rimangono danneggiati in una collisione.
Arrivato
il convoglio a Malta, la Forza H rientra a Gibilterra tra il 30
settembre ed il 1° ottobre.
12
ottobre 1941
Il
Da Recco
(caposcorta, capitano di vascello Stanislao Esposito) ed il
cacciatorpediniere Sebenico
salpano da Trapani per Tripoli alle 17, scortando i piroscafi Nirvo
e Bainsizza
ed il rimorchiatore d'altura tedesco Max
Berendt.
Il convoglio dovrà seguire la rotta che passa ad ovest di Malta.
13
ottobre 1941
Alle
2.50 il convoglio subisce un attacco aereo al largo di Pantelleria,
ma nessuna nave è colpita.
Dall'alba al tramonto il convoglio
gode di numerosa ed efficiente scorta aerea, con l'impiego di dieci
caccia FIAT CR. 42, quattro FIAT CR. 25, sei aerosiluranti Savoia
Marchetti S.M. 79 “Sparviero” e due C.A. 42 (?). In navigazione
nel Canale di Sicilia, poco lontano dal convoglio, si trova anche il
piroscafo Achille
Lauro,
in navigazione da Trapani a Tripoli con la scorta della torpediniera
Generale
Marcello Prestinari;
le scorte aeree dei due convogli finiscono col formare un tutt'uno,
che tiene lontani gli aerei britannici. Calato il buio, però, come
sempre la scorta aerea se ne va; non passa molto prima che velivoli
di Malta avvistino il convoglio e diano inizio ad una serie di
accaniti attacchi aerei.
Prima
di sera il convoglio, per ordine di Supermarina, effettua un ampio
dirottamento per evitare una zona in cui è stato avvistato un
sommergibile; le accostate ordinate non sono eseguite da tutte le
navi con sufficiente tempestività, e ciò, insieme alle difficoltà
nelle comunicazioni notturne, fa sì che le due colonne in cui il
convoglio si è disposto per la navigazione notturna si perdano di
vista e diventino due gruppi separati, distanziati di 4-5 km: il
primo formato da Da Recco
e Nirvo
(in posizione più avanzata), il secondo da Bainsizza,
Berendt
e Sebenico.
La distanza tra i due gruppi impedisce alle unità che li compongono
di supportarsi reciprocamente in caso di attacco, ed al caposcorta
Esposito di seguire personalmente la navigazione delle unità
dipendenti.
14
ottobre 1941
Non
appena si accorge del frazionamento del convoglio, il comandante
Esposito ordina al Sebenico
di riavvicinarsi a lui insieme a Bainsizza
e Berendt,
comunicandogli anche la rotta da seguire, ma prima che la manovra
abbia inizio, all'1.20 (o 1.45), si verifica un nuovo attacco aereo
da parte sei aerosiluranti britannici Fairey Swordfish
dell'830th Squadron
della Fleet Air Arm, decollati da Malta.
Stavolta
il Bainsizza
viene colpito a prua da un aerosilurante, rimanendo immobilizzato con
gravi danni nel punto 34°18' N e 12°16' E, ad una novantina di
miglia da Tripoli e 65 miglia a nord di Zuara.
Il
Da Recco,
che trovandosi a diversi km di distanza non si è accorto
dell'accaduto, ne viene informato soltanto dopo due ore; non potendo
lasciare solo il Nirvo
per tornare indietro a fornire assistenza, il comandante Esposito dà
col radiosegnalatore al Sebenico
gli ordini del caso e comunica a Roma e Tripoli la notizia del
siluramento del Bainsizza.
Il
Sebenico,
il cui comandante è alla prima missione di scorta sulle rotte
nordafricane, interviene tardivamente nel salvataggio del piroscafo
danneggiato, mentre il Max
Berendt prima di prenderlo
a rimorchio si dedica al recupero dei molti soldati tedeschi
gettatisi in mare; questo ritardo risulterà fatale, perché prima
dell'arrivo dei mezzi di soccorso prontamente inviati da Tripoli
(rimorchiatore Ciclope
e torpediniera Polluce)
il Bainsizza
verrà colpito da un nuovo attacco aereo ed affonderà all'alba del
15 in posizione 34°15' N e 12°12' E, un centinaio di miglia a nord
di Tripoli.
Il
gruppo Da Recco-Nirvo
viene successivamente raggiunto dalla torpediniera Generale
Antonino Cascino,
inviata da Tripoli in rinforzo alla scorta; le tre navi raggiungono
Tripoli alle 12.30.
18
ottobre 1941
Da
Recco e Sebenico,
al pari del rimorchiatore Ciclope,
vengono fatti uscire da Tripoli per andare in soccorso del piroscafo
Beppe,
silurato dal sommergibile britannico Ursula
alle 9.10 in posizione 35°25' N e 11°39' E, a sud di Lampedusa e
140 miglia a nord di Tripoli (per altra fonte, 85 miglia ad
ovest-nord-ovest di tale città), durante la navigazione in convoglio
da Napoli a Tripoli. In attesa dell'arrivo delle unità inviate da
Tripoli, il Beppe
è assistito dal cacciatorpediniere Vincenzo
Gioberti (capitano di
fregata Vittorio Amedeo Prato) appositamente distaccato dal
caposcorta.
19
ottobre 1941
Alle
quattro del mattino il Da
Recco si congiunge con il
Gioberti,
che ha ordinato al Beppe
di dare fondo presso la boa numero 3 delle Kerkennah per la notte ed
ha poi passato a sua volta la notte incrociando a sud della boa
numero 4. I due cacciatorpediniere dirigono in modo da trovarsi
presso il Beppe
poco dopo l'alba; avendo il Gioberti
comunicato che la sua scorta d'acqua è appena sufficiente per
raggiungere Tripoli, il Da
Recco gli ordina di andare
a Tripoli e rimane da solo con il Beppe
fino all'arrivo del Ciclope
e delle torpediniere Calliope
e Cascino,
anch'esse inviate da Tripoli.
Avvicinatosi
al Beppe,
il Da Recco
gli ordina di salpare le ancore, annunciando che a breve arriverà un
rimorchiatore; il piroscafo esegue, mantenendo le macchine indietro a
tutta forza per evitare di essere spinto in secco dalla bassa marea.
Il
Ciclope
arriva sul posto alle dieci del mattino e prende il Beppe
a rimorchio di poppa (onde evitare eccessiva pressione sulle paratie
dei compartimenti danneggiati, che si trovano a prua); alle undici ha
così inizio la difficile navigazione verso Tripoli, alla velocità
di otto nodi, con la scorta del Da
Recco. Alle 20 il Beppe
rimette in moto, ma alle 21.30 si spezza un filo del cavo di
rimorchio; informato il Ciclope,
le due navi si fermano per far rientrare il cavo di alcuni metri ed
escludere la parte interessata, per impedire che si rompa. Nel corso
di questa manovra, tuttavia, il Ciclope
va ad urtare la poppa del Beppe,
mettendone fuori uso il timone; nondimeno, alle 22.30 è possibile
riprendere la navigazione.
Alle
23.30 si verifica un nuovo intoppo: il cavo di rimorchio si strappa e
si attorciglia attorno all'asse dell'elica del Beppe;
si tenta allora il rimorchio di prua.
20
ottobre 1941
All'1.30
il nuovo cavo di rimorchio si strappa, pertanto si ritorna al
rimorchio di poppa con due cavi, uno a dritta e l'altro a sinistra,
in modo da poter correggere le accostate del Beppe.
Alle tre di notte la navigazione riprende, adesso con il Beppe
che ha le macchine ferme; alle sette, constatato che il cavo di
rimorchio attorcigliato attorno all'asse non dà problemi, il
piroscafo rimette in moto.
Alle
14.50 arriva il Max Berendt,
che prende a sua volta a rimorchio il Beppe;
allestito questo secondo rimorchio in aggiunta a quello del Ciclope,
la navigazione riprende alle 16.
Scortato
da Da Recco
e Calliope,
il Beppe
raggiungerà infine Tripoli alle otto del 21.
20
(23?) ottobre 1941
Il
Da Recco
(caposcorta) riparte da Tripoli alle 17.30 insieme all'Usodimare
ed al Sebenico,
di scorta alla motonave Giulia ed
alla nave cisterna Proserpina,
dirette a Napoli. Successivamente l'Usodimare
viene sostituito dal Folgore.
24
(?) ottobre 1941
Dato
che il 21 ottobre la ricognizione aerea ha avvistato la neocostituita
Forza K britannica – incrociatori leggeri Aurora e Penelope e
cacciatorpediniere Lance e Lively –
in arrivo a Malta (da dove questa formazione leggera opererà contro
i convogli dell'Asse, come i comandi italiani hanno subito intuito),
viene diramato un allarme navale e Supermarina dispone a scopo
precauzionale la temporanea sospensione del traffico da e per la
Libia, fermando o dirottando tutti i convogli in partenza per il
Mediterraneo centrale o che già vi si trovano; il convoglio di cui
fa parte il Da Recco
riceve pertanto ordine di rientrare urgentemente, arrivando a Tripoli
alle 13.
A
causa dei successivi eventi (distruzione del convoglio «Duisburg»
da parte della Forza K, il 9 novembre), che renderanno estremamente
pericoloso percorrere la rotta per Tripoli, il convoglio finirà col
trattenervisi per un mese: ne ripartirà soltanto il 24 novembre,
giungendo a Napoli il 27.
9
novembre 1941
Il
Da Recco,
l'Usodimare
ed il cacciatorpediniere Vincenzo
Gioberti vengono fatti
uscire da Trapani per partecipare alle operazioni di soccorso in
seguito alla distruzione, la notte precedente, del convoglio
«Duisburg» diretto in Libia ad opera della Forza K britannica, 135
miglia ad est di Siracusa. Sono state affondate ben nove navi: i
mercantili italiani Maria,
Rina
Corrado,
Conte
di
Misurata,
Sagitta
e Minatitlan,
i tedeschi Duisburg
e San
Marco
ed i cacciatorpediniere Fulmine
e Libeccio,
quest'ultimo silurato dal sommergibile britannico Upholder
mentre era intento al recupero di naufraghi delle altre unità.
Oltre
a Da Recco,
Gioberti
ed Usodimare,
partecipano ai soccorsi anche le navi ospedale Arno
(dirottata sul posto durante la navigazione da Bengasi all'Italia) e
Virgilio
(fatta appositamente uscire da Augusta) e le unità superstiti della
scorta del convoglio: i cacciatorpediniere Maestrale,
Euro,
Oriani,
Alpino,
Bersagliere
e Fuciliere.
In tutto vengono tratti in salvo 764 naufraghi (401 dal Maestrale,
189 dall'Euro,
48 dall'Oriani,
35 dall'Alpino,
34 dalla Virgilio, 21 dall'Arno,
20 dal Fuciliere,
undici dal Bersagliere);
il Da Recco,
come pure Gioberti
ed Usodimare,
non riesce però a trovarne neanche uno.
21
novembre 1941
Il
Da Recco
(caposcorta, capitano di vascello Stanislao Esposito) e la
torpediniera Enrico Cosenz
(tenente di vascello Lelio Campanella) salpano da Napoli alle 5.30,
scortando la motonave Monginevro
e la motonave cisterna Iridio
Mantovani (che formano il
secondo scaglione del convoglio «C») dirette a Tripoli. Il
convoglio fa parte di un'operazione di traffico volta ad inviare
urgenti rifornimenti in Libia, dov'è iniziata da pochi giorni
un'offensiva britannica (operazione «Crusader») e dopo che la
distruzione del convoglio «Duisburg», avvenuta il 9 novembre ad
opera della Forza K britannica, ha provocato la perdita di un ingente
quantitativo di rifornimenti diretti in Africa Settentrionale.
Dopo
qualche giorno di parziale stasi dovuto al disastro del 9 novembre,
infatti, il capo di Stato Maggiore generale, maresciallo Ugo
Cavallero, ha dato ordine il 13 novembre di far partire
immediatamente per la Libia le motonavi già cariche e pronte alla
partenza, con poderosa scorta di almeno due divisioni di
incrociatori, con operazione da svolgersi al più presto, al fine di
“sfruttare il vantaggio della sorpresa”.
Supermarina,
d'accordo con Superareo, ha quindi subito provveduto a dare le
disposizioni per l'invio a Tripoli delle sei motonavi già pronte a
Napoli (Monginevro,
Ankara,
Sebastiano Venier,
Vettor Pisani,
Napoli
ed Iridio Mantovani),
lungo la rotta di levante, passando per lo Stretto di Messina e
tenendosi poi al di fuori del raggio d'azione degli aerosiluranti di
Malta (190 miglia).
L'operazione
vede in mare altri due gruppi di due moderne motonavi ciascuno: il
primo scaglione del convoglio «C», partito da Napoli alle 20 del 20
(motonavi Napoli
e Vettor Pisani,
cacciatorpediniere Turbine,
torpediniera Perseo)
ed il convoglio «Alfa», salpato da Napoli alle 19 del 20 (motonavi
Ankara
e Sebastiano Venier
e cacciatorpediniere Maestrale,
Alfredo Oriani
e Vincenzo Gioberti).
La III e VIII Divisione Navale dovranno dare loro protezione; dallo
stretto di Messina in poi, dovranno navigare ad immediato contatto
col convoglio «C», quasi incorporate in esso.
Al
contempo, una motonave veloce (la Fabio
Filzi) sarà inviata sempre
a Tripoli ma sulla rotta di ponente (per il Canale di Sicilia), con
la scorta di un paio di cacciatorpediniere (oltre che di aerei: sia
sui due convogli che sulla Filzi
la scorta aerea dovrà essere continua, nelle ore diurne, dal 20 al
23 novembre), per non dare nell'occhio. Contestualmente saranno
inviati a Bengasi l'incrociatore leggero Luigi
Cadorna in missione di
trasporto di carburante (da Brindisi) e le motonavi Città
di
Palermo
e Città
di
Tunisi
cariche di truppe (da Taranto), e verranno fatte rientrare in Italia
le navi rimaste bloccate a Tripoli dall'inizio di novembre. L'idea è
che un tale numero di navi in movimento contemporaneamente, divise in
più convogli sparsi su una vasta area, confonda e disorienti la
ricognizione maltese; che i convogli finiscano col coprirsi a
vicenda; che la presenza in mare della III e VIII Divisione scoraggi
interventi da parte della Forza K britannica (autrice della
distruzione del convoglio «Duisburg»), notevolmente inferiore per
numero e potenza (incrociatori leggeri Aurora
e Penelope
e cacciatorpediniere Lance
e Lively).
L'Aeronautica, oltre alla scorta antiaerea ed antisommergibile dei
convogli, effettuerà anche azioni di ricognizione e di bombardamento
degli aeroporti di Malta. Alcuni sommergibili vengono disposti in
agguato nelle acque circostanti l'isola.
Dopo
vari rinvii dovuti al maltempo (che impedisce l'utilizzo degli
aeroporti della Sicilia), l'operazione prende il via, ma fin da
subito molte cose non vanno per il verso giusto. Il convoglio «Alfa»
viene avvistato da un ricognitore britannico poco dopo la partenza;
quando viene intercettato un messaggio radio britannico dal quale
risulta che una forza navale britannica non è molto lontana, il
convoglio viene dirottato ad Argostoli, ponendo così fine alla sua
partecipazione nell'operazione.
I
due scaglioni del convoglio «C», invece, si uniscono invece poco
prima di imboccare lo stretto di Messina (poco dopo le 16 del 21),
costituendo una formazione unica, sotto la direzione del Da
Recco, procedendo a 14
nodi.
A
protezione dell'operazione esce in mare da Napoli, alle 8.10 del 21,
la VIII Divisione (incrociatori leggeri Luigi
di Savoia Duca degli Abruzzi,
nave di bandiera del comandante superiore in mare, ammiraglio di
divisione Giuseppe Lombardi, e Giuseppe
Garibaldi;
cacciatorpediniere Aviere,
Geniere,
Corazziere,
Carabiniere
e Camicia Nera)
quale scorta indiretta, seguita alle 19.30 dello stesso giorno dalla
III Divisione (incrociatori pesanti Trento,
Trieste
e Gorizia,
quest'ultimo nave ammiraglia) per scorta strategica.
Poco
dopo le 16, la VIII Divisione raggiunge il convoglio «C» e ne
assume la scorta diretta; quasi contemporaneamente, però (mentre
ancora la formazione è a nord della Sicilia), convoglio e scorta
vengono avvistati da un ricognitore e da un sommergibile avversari,
che segnalano a Malta la presenza di navi mercantili e navi da guerra
italiane dirette verso lo stretto di Messina. Supermarina intercetta
e decifra entrambi i segnali di scoperta; stante però la potente
scorta di cui il convoglio gode, sia Supermarina che l'ammiraglio
Lombardi decidono di proseguire, senza neanche modificare la rotta.
Alle
18 Da Recco
e Cosenz
lasciano la scorta, venendo sostituiti dai cacciatorpediniere Ugolino
Vivaldi, Emanuele
Pessagno ed Antonio
Da Noli.
Attacchi
aerei e subacquei britannici, tra la sera e la notte successiva,
determineranno il fallimento dell'operazione, col grave
danneggiamento degli incrociatori Trieste
e Duca degli Abruzzi
ed il rientro in porto dei mercantili.
.jpg) |
Una mitragliera contraerea del Da Recco (foto Massimo Messina, via www.meludo.it) |
12
dicembre 1941
Da
Recco (caposcorta,
capitano di vascello Stanislao Esposito) ed Usodimare
lasciano Messina alle 10.20 (o 10.30) per scortare a Taranto le
motonavi Fabio Filzi
e Carlo Del Greco,
cariche di carri armati (52 carri medi M13/40 per la 133a Divisione
Corazzata "Littorio"
del Regio Esercito e 43 tra Panzer II e Panzer III per il 5.
Panzerregiment dell'Afrika Korps) e dirette in Libia nell'ambito
dell'operazione di traffico «M. 41».
Dopo
le gravi perdite subite dai convogli diretti in Libia nelle settimane
precedenti, le forze italo-tedesche in Nordafrica si trovano in
situazione di grave carenza di rifornimenti proprio mentre è in
corso l'operazione «Crusader», ed urge rifornirle (particolarmente
importanti per contrastare l'offensiva sono proprio i carri armati
trasportati da Filzi
e Del Greco);
con la «M. 41», Supermarina intende inviare a Tripoli e Bengasi
tutti i mercantili già carichi presenti nei porti dell'Italia
meridionale, mobilitando per la loro protezione, diretta e indiretta,
pressoché tutta la flotta in condizioni di efficienza (una parte
delle navi maggiori navigherà insieme al convoglio, “incorporate”
in esso, per difenderlo da attacchi notturni da parte di unità di
superficie, mentre un'altra parte costituità un gruppo d'appoggio a
distanza che interverrà in caso di attacco diurno). A inizio
dicembre il Da Recco,
insieme alla torpediniera Generale Achille Papa, ha scortato la Fabio
Filzi da Napoli, dove la
nave ha imbarcato il suo carico, a Messina.
In
origine erano previsti tre convogli: l'«A», da Messina a Tripoli,
formato da Filzi
e Del Greco
scortate da Da Recco
ed Usodimare;
l'«L», da Taranto per Tripoli, formato dalle motonavi Monginevro,
Napoli e Vettor Pisani
scortate dai cacciatorpediniere Freccia
e Pessagno
(avente a bordo l'ammiraglio Amedeo Nomis di Pollone) e dalla
torpediniera Pegaso;
e l'«N», da Navarino ed Argostoli per Bengasi, costituito dai
piroscafi Iseo e Capo Orso scortati dai cacciatorpediniere Turbine
e Strale,
cui si devono aggiungere la motonave tedesca Ankara,
il cacciatorpediniere Saetta
e la torpediniera Procione
provenienti da Argostoli.
Ogni
convoglio deve fruire della protezione di una forza navale di
sostegno, che di giorno si terrà in vista dei trasporti e di notte a
in formazione con essi, incorporato. Ciascun convoglio avrebbe fruito
della protezione di una forza navale di sostegno, che di giorno si
sarebbe tenuta in vista dei trasporti e di notte a stretto contatto
con essi. Il gruppo assegnato al convoglio «A» è costituito dalla
corazzata Andrea
Doria e dalla VII
Divisione (ammiraglio di divisione Raffaele De Courten) con gli
incrociatori leggeri Muzio
Attendolo ed Emanuele
Filiberto Duca d'Aosta
(nave ammiraglia di De Courten). Quello assegnato al convoglio «L»
è al comando dell'ammiraglio di squadra Carlo Bergamini e consiste
nella corazzata Duilio (nave
ammiraglia di Bergamini) e da un'eterogenea VIII Divisione, formata
per l'occasione dagli incrociatori leggeri Giuseppe
Garibaldi (con a bordo
l'ammiraglio Giuseppe Lombardi, comandante dell'VIII Divisione)
e Raimondo
Montecuccoli e
dall'incrociatore pesante Gorizia (avente
a bordo l'ammiraglio di divisione Angelo Parona) più i
cacciatorpediniere Maestrale
e Gioberti
della X Squadriglia, Oriani
e Corazziere
della XII e Carabiniere
e Zeno
della XV.
Infine,
a tutela dell'intera operazione contro un'eventuale uscita in mare
delle corazzate della Mediterranean Fleet, prende il mare la IX
Divisione Navale (ammiraglio di squadra Angelo Iachino, comandante
superiore in mare) con le moderne corazzate Littorio
e Vittorio Veneto,
scortate dalla XIII Squadriglia Cacciatorpediniere (Granatiere,
Bersagliere,
Fuciliere,
Alpino).
Queste navi si dovranno posizionare nel Mediterraneo centrale.
A
completamento dello schieramento, un gruppo di sommergibili viene
dislocato nel Mediterraneo centro-orientale con compiti esplorativi
ed offensivi; è inoltre previsto un imponente intervento della Regia
Aeronautica (comprensivo, tra l'altro, di ricognizioni su Alessandria
e nel Mediterraneo orientale e centro-orientale).
L'ammiraglio
Iachino ha emanato un ordine d'operazione che stabilisce che "a)
Il gruppo Littorio ha funzioni di sostegno per il caso d'intervento
di forze nemiche provenienti da levante. Se il gruppo nemico,
dislocato ad Alessandria, sarà in porto sino al tramonto del giorno
13, non avrà possibilità di agire contro il convoglio estremo di
levante [convoglio «N»]
prima del tramonto del
giorno 14, anche se prenderà il mare nelle prime ore della notte sul
14. Esso potrà però, continuando la marcia verso ponente, trovarsi,
all'alba del giorno 15, in posizione favorevole per agire contro i
nostri gruppi di scorta ed eventualmente anche contro il convoglio di
ponente in caso di ritardi nell'itinerario. Pertanto, nel caso di
avvistamenti di forze nemiche provenienti da levante nella giornata
del 14, il convoglio di levante (n. 2) potrà ricevere ordini da
Supermarina di rientrare a Navarino, scortato da AOSTA e Attendolo.
Il Doria invece si riunirà al gruppo Littorio la stessa sera del 14,
o, se ciò non è possibile, all'alba del giorno 15, in un punto a
levante dei convogli 1 e 3, presumibilmente all'incirca nella zona
compresa tra i paralleli 32°30'N e 32°50'N e i meridiani 16°06'E e
16°26'E. In questo modo le corazzate si verranno a trovare, la
mattina del 15, circa 25 miglia a levante del convoglio diretto a
Tripoli, e in posizione tale da proteggerlo sicuramente da attacchi
del grosso nemico. Anche il Duilio riceverà ordine di riunirsi
all'alba del 15 al gruppo Littorio il nostro gruppo corazzato
dirigerà quindi verso il nemico per attaccarlo. La III e VIII
Divisione resteranno con il convoglio di ponente. b) Nel caso
d'intervento di forze leggere provenienti da Alessandria o da Malta,
ciascuno dei tre gruppi di scorta può sostenere o respingere
l'attacco nemico. La limitata distanza tra i gruppi ne consente
l'azione coordinata in caso di necessità. Qualora il mattino del 15,
fossero avvistate in mare le forze di Malta dirette verso sud, la III
e VIII Divisione Dirigeranno per intercettarle, manovrando in modo da
impedire a queste forze l'attacco al convoglio. In tal caso, il
Duilio rimarrà fuori dal cerchio pericoloso di 190 miglia da Malta,
in posizione di eventuale appoggio; il Doria si riunirà al più
presto al Duilio".
Il
primo problema consiste nel reperire tutte le navi da guerra
necessarie per un'operazione tanto vasta: non è sufficiente
concentrare a Taranto, Argostoli e Messina tutte le unità sottili
presenti nei porti dell'Italia meridionale, e non basta neanche
accelerare il completamento dei lavori in corso su alcuni
cacciatorpediniere, per renderli pronti il prima possibile. La data
prevista per l'inizio della «M. 41» è il 12 dicembre, ma quel
giorno il numero di navi scorta disponibili è tanto ridotto,
rispetto al necessario (anche per via del maltempo, che ha ritardato
il trasferimento di varie siluranti nei porti di partenza dei
convogli), che Supermarina decide di rimandare l'operazione di
ventiquattr'ore. Anche così, le scorte risultano essere
numericamente ridotte, eterogenee e poco affiatate, dato che è stato
necessario accontentarsi di quello che c'era a disposizione.
Le
decrittazioni di “ULTRA” sono stavolta tardive ed erronee:
riportano la partenza del convoglio come prevista per il 14 dicembre,
anziché il 13.
Secondo
i piani originari, da Messina Filzi e
Del Greco si
sarebbero dovute dapprima trasferire ad Argostoli, per poi partire
per Tripoli nella notte tra il 12 ed il 13 dicembre (per altra fonte,
alle quattro del mattino del 14 dicembre), scortate da Da
Recco ed Usodimare,
andando ad aggregarsi durante la navigazione al convoglio «L» e
raggiungendo Tripoli alle 16 del 15 dicembre. (Per altra fonte, dopo
la partenza da Messina si sarebbero dovute trasferire ad Argostoli,
da dove sarebbero poi proseguite per Bengasi, ma Supermarina variò
il piano ed ordinò invece che andassero a Taranto, ritenuto il
miglior porto in cui accentrare mercantili e navi scorta).
Prima
che l'operazione prendesse avvio, tuttavia, i piani sono stati
modificati, e si è deciso di sopprimere il convoglio «A» e
trasferire le sue navi a Taranto per farle partire insieme al
convoglio «L», del quale faranno parte fin da subito.
In
seguito a questa decisione, Da
Recco, Usodimare,
Filzi
e Del Greco
sono stati fatti partire da Messina per trasferirsi a Taranto.
Durante
l'attraversamento della zona di maggior pericolo di attacchi
subacquei, a sud dello stretto di Messina, la scorta viene
temporaneamente rinforzata (per alcune ore) dalla vecchia
torpediniera Giuseppe
Dezza, uscita da Messina.
Superata la zona pericolosa, Del
Greco e Filzi imboccano
le abituali rotte del Mar Ionio, navigando a 16 nodi.
Intercettazioni
radio rivelano che nel primo pomeriggio del 12 dicembre il convoglio
è stato localizzato da velivoli nemici, ma gli ordini non vengono
cambiati; d'altro canto, nel Golfo di Taranto è già in funzione un
considerevole dispositivo antisommergibili (anche e soprattutto in
vista della prevista partenza del convoglio «L» il giorno
seguente): due MAS e due motopescherecci requisiti effettuano
vigilanza antisommergibili ed ascolto idrofonico a sud di Messina,
fino al meridiano di Spartivento, dalle 7 alle 16 del 12 dicembre,
mentre idrovolanti CANT Z. 501 svolgono esplorazione aerea pendolare
nella fascia a sud di Taranto, i MAS
440 e 438 e
la motovedetta Marongiu svolgono
rastrello antisom al largo di Punta Alice e Punta Stallitti ed il MAS
439 e
la motovedetta Saba fanno
lo stesso tra Gallipoli e Santa Maria di Leuca. Infine, quattro unità
della vigilanza antiaerea formano una catena di vigilanza sulla
congiungente Gallipoli-Crotone. Il convoglio di cui è
caposcorta il Da Recco gode
anche di scorta e vigilanza antisommergibili da parte di aerei dalla
partenza fino al tramonto.
Per
tutta la giornata del 12, il convoglio naviga senza
inconvenienti. Le due motonavi procedono a 16 nodi in linea di
fronte (Filzi a
sinistra, Del Greco a
dritta), con i due cacciatorpediniere che zigzagano in posizione di
scorta laterale (Usodimare a
dritta, Da Recco a
sinistra).
Quando
il convoglio raggiunge il punto di atterraggio su Taranto, il mare ed
il vento sono quasi calmi, la luna è all'ultimo quarto.
Ma
alcuni sommergibili britannici attendono in agguato nel Golfo di
Taranto: in tre, Unbeaten,
Utmost
ed Upright,
hanno formato uno sbarramento nel Golfo, anche se l'Unbeaten
(che si trova all'estremità orientale dello sbarramento) ha dovuto
lasciare la posizione assegnata a causa della caccia antisommergibili
cui è stato sottoposto nella giornata del 13 dicembre.
Questi
tre battelli hanno ricevuto il 9 dicembre l'ordine di formare uno
sbarramento nel Golfo di Taranto a partire dal 12; altri due
sommergibili della flottiglia di Malta, Unique
ed Urge,
sono stati invece inviati in agguato a sud dello stretto di Messina,
per attaccare le corazzate della IX Divisione di cui i britannici si
aspettano il trasferimento da Napoli a Taranto. Successivamente,
avuta notizia della grande operazione di traffico italiana, il 12
dicembre i britannici hanno fatto partire per il Mar Ionio tutti gli
altri sommergibili disponibili a Malta, ossia il P
31, il
P
34,
l'Upholder
ed il polacco
Sokol.
.jpg) |
Il complesso binato prodiero da 120 mm del Da Recco (foto del secondo capo radiotelegrafista Massimo Messina, via il figlio Giuseppe e it.wikipedia.org) |
13
dicembre 1941
Alle
00.50 il sommergibile britannico Utmost
(capitano di corvetta Richard Douglas Cayley), il sommergibile più
occidentale dello sbarramento, capta rumore di motori su rilevamento
135°, ed all'1.10 avvista il convoglio italiano in posizione 39°47'
N e 17°22' E, a sei miglia di distanza su rilevamento 130°, con
rotta 330° e velocità 15 nodi. Cayley valuta la stazza dei
mercantili in 5000 tsl.
All'1.32
l'Utmost lancia
quattro siluri, due contro ciascuna motonave (la più vicina dista
4570 metri), poi s'immerge e ripiega verso sud all'1.33. Nonostante
Cayley ritenga di aver sentito un siluro andare a segno all'1.39,
seguito a partire dall'1.50 da caccia con il lancio di una quarantina
di bombe di profondità nel corso della notte, nessuna nave viene
colpita.
Proprio
all'1.50, intanto, un secondo sommergibile britannico,
l'Upright (tenente
di vascello John Somerton Wraith), che si trova fermo in ascolto
ASDIC in posizione 40°08' N e 17°00' E (o 40°10' N e 17°60' E; è
il sommergibile centrale dello sbarramento) e cioè proprio sulla
rotta del convoglio, rileva all'ASDIC il rumore di navi in
avvicinamento da sud con rotta stimata 000°. Il sommergibile vira
pertanto in quella direzione, assumendo rotta 80°; poco dopo, la
luna sorge su rilevamento 100° rispetto all'Upright.
All'1.55, sentendo il rumore di motori diventare più forte e
spostarsi verso sinistra, Wraith ordina di virare nuovamente per
portarsi in una posizione d'attacco favorevole; alle 2.03 avvista le
navi italiane (una grossa nave seguita da una più piccola, e poco
dopo un'altra grossa nave che segue le prime due) ed accosta ancora
una volta, assumendo rotta 110°, così che la luna si trovi a 10° a
dritta del mercantile di testa al momento del lancio. Alle 2.04
l'operatore dell'ASDIC, rilevando 130 rivoluzioni, stima che i
bersagli abbiano una velocità di 14 nodi, ed alle 2.07 uno dei
cacciatorpediniere, dopo aver superato il mercantile di testa, passa
“davanti” alla luna, permettendo a Wraith, che col suo battello
si trova su rotta 70° e pronto al lancio, di stimare la distanza
come compresa tra i 3660 e 4570 metri.
Intanto,
il convoglio italiano è giunto 15 miglia a sud del faro di Capo San
Vito (in posizione 47°10' N e 17°06' E per le fonti italiane,
40°09' N e 17°04' E per l'Upright):
a questo punto, poco prima che cominci la rotta di sicurezza per
Taranto (che dista solo una decina di miglia), i cacciatorpediniere
cessano lo zigzagamento; alle 2.10 del 13 dicembre il comandante
Esposito del Da Recco
ordina di disporsi in linea di fila. Filzi e
Del Greco
danno inizio alla manovra per passare dalla linea di fronte alla
linea di fila, ma l'hanno appena cominciata – in questo modo, ad un
attaccante posizionato sulla sinistra la Filzi,
in posizione leggermente più avanzata, si “sovrappone”
parzialmente alla Del
Greco, facilitando un
lancio che colpisca entrambe – quando l'Upright,
che si trova in affioramento, lancia contro di esse una salva di
quattro siluri, da 4115 metri di distanza, cogliendo proprio il
momento in cui si “sovrappongono” ed al contempo si stagliano
contro la luna. Come punto di mira, Wraith ha scelto la prua della
nave di testa, la Filzi.
Particolarità di questo attacco è che pur essendo in contatto
visivo con i bersagli, il sommergibile abbia effettuato i calcoli e
condotto l'attacco interamente sulla base dei dati forniti
dall'ASDIC.
Sono
le 2.12; nessuno vede l'Upright,
né le scie dei siluri, provenienti da sinistra.
Tutte
le armi fanno centro: due raggiungono la Filzi,
e subito dopo le altre due colpiscono la Del
Greco.
Mentre
la Filzi si
capovolge ed affonda in soli sette minuti, portando con sé 208
uomini, la Del Greco –
colpita alle 2.15 – regge inizialmente al danno, e rimane a galla.
Mentre
l'Usodimare passa
subito al contrattacco, con un sistematico ma infruttuoso lancio di
bombe di profondità (l'Upright,
che si è immerso subito dopo il lancio, conta 48 esplosioni tra le
2.12 e le 7.37), il Da
Recco tenta di
prendere la Del Greco a
rimorchio, nel tentativo di salvarla; ma dopo poco più di un'ora,
anche questa motonave cola a picco, quindici miglia a sud di Capo San
Vito. (Per altra fonte, prima di tentare il rimorchio anche il Da
Recco avrebbe virato verso
la direzione di provenienza dell'attacco, scaricando in mare bombe di
profondità anche a scopo precauzionale).
Al Da
Recco non rimane
allora che provvedere al recupero dei naufraghi, opera nella quale
viene assistito da una torpediniera, due dragamine, tre rimorchiatori
e quattro unità d'uso locale, tutte inviate da Taranto. In tutto
vengono recuperati dal mare 331 superstiti italiani e 101 tedeschi, e
le salme di 133 uomini (99 italiani e 34 tedeschi). Il personale
imbarcato sulla Del Greco
viene salvato quasi per intero (289 uomini su 298, compresi i
comandanti civile e militare), mentre della Filzi
i sopravvissuti sono solo 143 su 351.
L'Upright,
che ha rilevato i rumori prodotti da Filzi
e Del Greco
in affondamento alle 2.28 ed alle 3.41, riesce a sottrarsi alla morsa
dei cacciatorpediniere dopo sette ore di attacchi con bombe di
profondità, pur dovendo rimanere immerso tutto il giorno seguente,
fino alle 19.
Raggiunta
Taranto e sbarcati i naufraghi, il Da
Recco ne riparte alle 15
insieme ai gemelli Vivaldi
(nave ammiraglia del gruppo di scorta diretta), Da
Noli, Malocello e Zeno facendo
parte del gruppo di scorta diretta per i convogli della «M. 41».
(Per altra fonte il Da
Recco, insieme a Vivaldi
e Da Noli
della XIV Squadriglia Cacciatorpediniere ed Aviere,
Geniere
e Camicia Nera
della XI Squadriglia, avrebbe fatto parte del gruppo dell'ammiraglio
De Courten, incaricato della protezione del convoglio «N»; per
un'altra ancora si sarebbero uniti al gruppo «Littorio»).
Nel
tardo pomeriggio, quando i convogli sono già in mare (l'«L» con
relativo gruppo di scorta è partito da Taranto alle 17, l'«N» da
Argostoli alle 18), la ricognizione aerea comunica a Supermarina che
una consistente forza britannica, comprensiva di corazzate ed
incrociatori (in realtà sono solo quattro incrociatori leggeri: i
ricognitori hanno grossolanamente sovrastimato la composizione e
potenza della forza avvistata), si trova tra Tobruk e Marsa Matruh,
diretta verso ovest. Questa erronea impressione è rafforzata dalle
intercettazioni del Servizio Intercettazioni Estere dello Stato
Maggiore della Marina, che ha intercettato e radiogoniometrato dei
messaggi da cui sembra che oltre alla Forza K di Malta siano uscite
in mare da Alessandria anche le corazzate della Mediterranean Fleet:
si tratta in realtà di uno stratagemma di Cunningham, che ha fatto
uscire da Haifa il posamine veloce Abdiel e gli ha fatto effettuare
delle trasmissioni radio fasulle volte proprio a trarre in inganno i
comandi italiani che le intercettassero sull'uscita in mare della
Mediterranean Fleet.
Anche
così, la somma delle forze italiane in mare è complessivamente
superiore rispetto alle presunte forze britanniche, ma si trova
divisa in gruppi tra loro distanziati e vincolati a convogli lenti e
poco manovrieri; per questo, alle ore 20 Supermarina decide di
sospendere l'operazione, ed i convogli ricevono ordine di rientrare
nei porti di partenza.
Ciò
non basterà ad evitare danni: durante la notte, il sommergibile
britannico Urge
silurerà la Vittorio
Veneto, danneggiandola
gravemente. I piroscafi Iseo
e Capo
Orso
entrano in collisione in fase di rientro, danneggiandosi gravemente.
Parte dei cacciatorpediniere vengono inviati a rafforzare la scorta
della corazzata danneggiata.
14
dicembre 1941
Il
Da Recco
e le altre navi raggiungono Taranto tra pomeriggio e sera.
16
dicembre 1941
Dopo
il fallimento della «M. 41», viene rapidamente organizzata al suo
posto l'operazione «M. 42», che prevede l'invio di quattro
mercantili (Monginevro, Napoli, Vettor
Pisani, Ankara:
le motonavi uscite indenni dalla «M. 41», non essendovene altre
pronte) riunite in un unico convoglio per gran parte della
navigazione, ed inoltre l'impiego delle Divisioni di incrociatori
adibite alla scorta secondo la loro struttura organica, a differenza
che nella «M. 41». In tutto le quattro motonavi trasportano 14.770
tonnellate di rifornimenti (103 tonnellate di olio in fusti, 859
tonnellate di nafta in taniche, 2738 tonnellate di munizioni e 6869
tonnellate di materiali vari per le forze italiane; 761 tonnellate di
carburante e 3540 tonnellate di materiali vari per le forze
tedesche), 312 automezzi e 212 uomini.
La scorta diretta è
costituita dal Da Recco
(capitano di vascello Stanislao Esposito, caposquadriglia della XIV
Squadriglia Cacciatorpediniere), dai gemelli Pessagno, Da
Noli, Vivaldi (caposcorta,
contrammiraglio Amedeo Nomis di Pollone), Malocello
e Zeno,
dal più piccolo cacciatorpediniere Saetta e
dalla torpediniera Pegaso.
L'ordine
d'operazione prevede che le navi procedano in formazione unica, a 13
nodi di velocità, sino al largo di Misurata, per poi scindersi in
due convogli: «L», formato da Monginevro, Napoli, Vettor
Pisani ed i cinque
“Navigatori” tra cui il Da
Recco, per Bengasi; «N»,
composto da Ankara, Pegaso e Saetta (caposcorta),
per Tripoli.
I due convogli e la scorta diretta partono da
Taranto il 16 dicembre, ad un'ora di distanza l'uno dall'altro: alle
15 l'«N», alle 16 l'«L». (Per altra fonte, Ankara,
Pegaso
e Saetta
sarebbero partite da Napoli, unendosi all'altro convoglio in mare
aperto).
Da Taranto esce inoltre la sera del 16 un gruppo di
sostegno composto dalla corazzata Duilio (nave
di bandiera dell'ammiraglio Carlo Bergamini, comandante del gruppo),
dalla VII Divisione (incrociatori leggeri Emanuele
Filiberto Duca d'Aosta –
nave di bandiera dell'ammiraglio Raffaele De Courten –, Raimondo
Montecuccoli e Muzio
Attendolo) e dai
cacciatorpediniere Ascari, Aviere e Camicia
Nera della XI
Squadriglia; i suoi ordini sono di tenersi ad immediato contatto del
convoglio fino alle 8 del 18, per poi spostarsi verso est così da
poter intervenire in caso di invio contro il convoglio di forza di
superficie da Malta.
Vi è anche un gruppo di appoggio composto
dalle corazzate Giulio
Cesare, Andrea
Doria e Littorio (nave
di bandiera dell'ammiraglio Angelo Iachino, comandante superiore in
mare), dagli incrociatori pesanti Trento e Gorizia (nave
di bandiera dell'ammiraglio di divisione Angelo Parona, comandante
della III Divisione) e dai
cacciatorpediniere Granatiere, Bersagliere, Corazziere, Fuciliere, Carabiniere, Alpino, Oriani, Gioberti ed Usodimare delle
Squadriglie X, XII e XIII, anch'essi salpati da Taranto il 16 sera,
nonché ricognizione e scorta aerea assicurata dalla Regia
Aeronautica e dalla Luftwaffe (che in totale mettono a disposizione
ben 552 aerei italiani – 82 bombardieri, 30 aerosiluranti, 6
ricognitori strategici e 434 caccia – e 200 tedeschi), l'invio dei
sommergibili Topazio, Santarosa, Squalo, Ascianghi, Dagabur e Galatea in
agguato nel Mediterraneo centro-orientale, e la posa di ulteriori
campi minati al largo della Tripolitania.
Già prima della
partenza, i comandi italiani e l'ammiraglio Iachino sono stati
informati dell'avvistamento alle 14.50, da parte di un ricognitore
tedesco, di una formazione britannica che comprende una corazzata. In
realtà, di corazzate britanniche in mare non ce ne sono: il
ricognitore ha scambiato per corazzata la nave cisterna
militare Breconshire,
partita da Alessandria per Malta con 5000 tonnellate di carburante
destinato all'isola, con la scorta degli incrociatori
leggeri Naiad, Euryalus e Carlisle e
dei
cacciatorpediniere Jervis, Havock, Hasty, Nizam, Kimberley, Kingston, Kipling e Decoy,
il tutto sotto il comando dell'ammiraglio Philip Louis Vian.
Comunque, Supermarina decide di procedere egualmente con
l'operazione, sia per via della disperata necessità di far arrivare
rifornimenti in Libia al più presto, sia perché la formazione
italiana è comunque molto più potente di quella avversaria.
Convoglio e gruppo di sostegno procedono dunque lungo la rotta
prestabilita.
Poco prima di mezzanotte il sommergibile
britannico Unbeaten
(tenente di vascello Edward Arthur Woodward) avvista parte delle
unità italiane e ne informa il comando britannico (messaggio che
viene peraltro intercettato e decrittato dalla Littorio);
quest'ultimo ne è in realtà già al corrente grazie alle
decrittazioni di “ULTRA”, che tra il 16 ed il 17 dicembre
forniscono a più riprese molte informazioni su mercantili, scorte
dirette ed indirette, porti ed orari di partenza e di arrivo. Il 16
dicembre “ULTRA” informa che è probabile un nuovo tentativo di
rifornimento della Libia con inizio proprio quel giorno, dopo quello
fallito di tre giorni prima. Il 17 dicembre “ULTRA” aggiunge
informazioni più precise: Monginevro, Pisani e Napoli,
scortate dal Vivaldi e
da altri cinque cacciatorpediniere, dovevano lasciare Taranto a
mezzogiorno del 16 insieme all'Ankara,
scortata invece da due siluranti tra cui il
cacciatorpediniere Saetta;
arrivo previsto a Bengasi alle 8 del 18 per l'Ankara,
a Tripoli alle 17 dello stesso giorno per le altre motonavi; presenza
in mare a scopo di protezione della Duilio,
della VII Divisione e forse anche di altre forze
navali, Littorio compresa
("Ankara (4770),
escorted by destroyer Saetta and one other. Pisani
(6400), Monginevro (5500) and NAPOLI (5450) escorted by destroyer
Vivaldi and five others were to leave Taranto about noon/16. The
first named is due Benghazi 0800/18 and the rest Tripoli at 1700/18.
The convoy will be supported by the battleship Duilio and the 7th
cruiser division (probably 6” cruisers AOSTA and Attendolo). It is
possible other forces including the battleship Littorio may be at
sea").
Il 18 aggiungerà che le
motonavi sono partite da Taranto alle 13 del 16 e che sono scortate
da 2 corazzate, 2 incrociatori e 12 cacciatorpediniere, più una
forza di supporto di 3 corazzate, 2 incrociatori e 10
cacciatorpediniere a nordest.
Alle
23.20 anche l'Utmost
(capitano di corvetta Richard Douglas Cayley) ha avvistato le navi
italiane (la III Divisione) nel Golfo di Taranto, e dopo averle
infruttuosamente attaccate ha lanciato il segnale di scoperta.
I
comandi britannici, tuttavia, non si trovano in condizione di poter
organizzare un attacco contro il convoglio italiano.
.jpg) |
Il Da Recco in un dipinto (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
17
dicembre 1941
Alle
16.25 il convoglio viene avvistato da un ricognitore britannico; in
quel momento la Breconshire e
la sua scorta si trovano a sole 60 miglia di distanza (per altra
fonte, il convoglio sarebbe già stato avvistato una prima volta da
ricognitori nemici alle 9.25, ma i britannici non avrebbero tentato
di “pedinarlo” per via della scarsità di aerei da ricognizione
disponibili).
Nel tardo pomeriggio del 17 dicembre il gruppo
«Littorio»
si scontra con la scorta della Breconshire,
in un breve ed inconclusivo scambio di colpi passato alla storia come
prima battaglia della Sirte. Iniziato alle 17.23, lo scontro si
conclude già alle 18.10, senza danni da ambo le parti; Iachino,
ancora all'oscuro dell'invio a Malta della Breconshire e
convinto che navi da battaglia britanniche siano in mare, attacca gli
incrociatori di Vian per tenerli lontani dal suo convoglio (ritiene
infatti che gli incrociatori britannici siano lì per attaccare i
mercantili italiani, mentre in realtà non vi è alcun tentativo del
genere da parte britannica) e rompe il contatto al crepuscolo, per
evitare un combattimento notturno, per il quale la flotta italiana
non è preparata.
Alle 17.56, per evitare un pericoloso incontro
del convoglio con unità di superficie britanniche (si crede ancora
che in mare ci siano una o più corazzate britanniche), il convoglio
ed il gruppo di sostegno accostano ad un tempo ed assumono rotta nord
(in modo da allontanarsi dalla zona dove si trova la formazione
britannica), sulla quale rimangono fino alle 20 circa; poi, in base a
nuovi ordini impartiti da Iachino (e per non allontanarsi troppo
dalla zona di destinazione), manovrano per conversione di 20° per
volta (in modo da mantenere per quanto possibile la formazione, in
una zona ad elevato rischio di attacchi aerei) ed effettuano un'ampia
accostata sino a rimettere la prua su Misurata. Convoglio e gruppo di
sostegno sono “incorporate” in un'unica complessa formazione (i
mercantili su due colonne, con Monginevro in
posizione avanzata a dritta, Pisani in
posizione avanzata a sinistra, seguite rispettivamente
da Napoli ed Ankara;
il Vivaldi procede
in testa all'intera formazione, mentre Da
Noli e Malocello sono
posizionati rispettivamente 30° di prora a dritta e sinistra
di Pisani e Monginevro, Zeno e Da
Recco 70° di prora a
dritta e sinistra rispettivamente di Pisani e Monginevro, Saetta a
sinistra della Pisani e Pessagno a
dritta della Napoli;
il convoglio è seguito dal gruppo di sostegno su due colonne,
con Duca
d'Aosta seguito
da Attendolo e Camicia
Nera a
sinistra, Duilio seguita
da Montecuccoli ed Aviere a
dritta, più Pigafetta a
sinistra di Duca
d'Aosta ed Attendolo e Carabiniere a
dritta di Duilio e Montecuccoli),
il che fa sì che occorra più del previsto perché la formazione
venga riordinata sulla rotta 210°: ciò accade alle 22.
Durante
la notte il convoglio, che avanza a 13 nodi, viene avvistato da
ricognitori nemici, ma non subisce attacchi. Le forze di Vian
(incrociatori leggeri Naiad,
Euryalus
e Carlisle,
cacciatorpediniere Jervis,
Nizam,
Kingston,
Kimberley,
Kipling,
Havock,
Hasty
e Decoy),
affidata la scorta della Breconshire
alla Forza K uscita da Malta, si dirigono a nord di Bengasi per
tentare d'intercettare il convoglio italiano, ma essendo questo
diretto a Tripoli non riesce a trovarlo e rientra allora ad
Alessandria.
18
dicembre 1941
Poco
prima dell'alba del 18, i
cacciatorpediniere Granatiere e Corazziere entrano
in collisione, distruggendosi a vicenda la prua; gli incrociatori
della VII Divisione prestano loro soccorso. Alle 13 la Duilio si
riunisce al gruppo «Littorio»,
lasciando la VII Divisione a protezione immediata dei
mercantili.
Poco prima di mezzogiorno il convoglio avvista la
costa della Libia, ed alle 12.30 (in posizione 33°18' N e 15°33' E)
le navi mercantili si separano come previsto: il convoglio «N»
dirige per Bengasi, mentre il convoglio «L» prosegue per Tripoli
con la scorta diretta al comando dell'ammiraglio Nomis di Pollone e,
fino al tramonto, anche quella della VII Divisione. Calato il buio,
anche la VII Divisione lascia il convoglio per rientrare a Taranto; a
questo punto il contrammiraglio Nomis di Pollone ordina al convoglio
«L» di dividersi in tre gruppi, ognuno formato da una
motonave e due cacciatorpediniere (Monginevro con Da
Recco e Malocello; Pisani con Vivaldi e Pessagno; Napoli con Da
Noli e Zeno),
in modo da rendere la formazione più maneggevole; i gruppi devono
distanziarsi di 4 miglia l'uno dall'altro.
Nel
rapporto Nomis di Pollone motiverà così la sua decisione: "Poco
prima di ricevere dal Duilio l'ordine di separazione per il convoglio
"N", ho proposto al Comando 5a Divisione che il convoglio
principale "L" eseguisse nelle ore notturne una inversione
di rotta temporanea per i seguenti motivi: 1°) Arrivare a Tripoli in
ore diurne per evitare il bombardamento aereo notturno che certamente
sarebbe stato seguito sul porto in previsione dell'arrivo del
convoglio. 2°) Tentare di eludere gli attacchi notturni al convoglio
che erano molto probabili e che avrebbero trovato la formazione sulle
rotte di sicurezza ossia in acque ristrette. La proposta comportava
che la 7a Divisione rimanesse nelle ore notturne presso il convoglio
per proteggerlo contro attacchi di navi di superficie; non essendo
stata approvata da Supermarina, ho disposto che, a notte fatta, il
convoglio si suddividesse in tre gruppi ognuno composto di un
piroscafo e due cacciatorpediniere, che tra le 1900 e le 2330 del 18,
ora prevista di arrivo a Tagiura, avrebbero dovuto distanziarsi fra
di loro di circa 4 miglia. La suddivisione aveva i seguenti scopi:
1°) Rendere i vari gruppi più maneggevoli in caso di attacco ad uno
dei due gruppi, gli altri potessero sfuggire all'avvistamento del
nemico. 2°) Aumentare le probabilità che, in caso di attacco ad uno
dei due gruppi, gli altri potessero sfuggire all'avvistamento del
nemico. 3°) Facilitare la manovra di entrata e di ormeggio a
Tripoli. Secondo l'ordine impartito da Supermarina alle 15.10 del 18
le siluranti del Gruppo "Vivaldi" dovevano rientrare in
Italia, se possibile, per la rotta passante a levante di Malta;
oppure per quella più breve di ponente se vi fosse stata deficienza
di autonomia. I cacciatorpediniere dovevano anche evitare di entrare
nel porto di Tripoli, se le condizioni tecniche potevano
permetterlo".
L'ordine
di frammentazione del convoglio è in corso d'esecuzione, ed i gruppi
si sono già distanziati di 2-3 miglia, quando alle 20.40 si
accendono a distanza (a poppavia sinistra; in quel momento il
convoglio è al largo di Ras Hallab) i bengala che preannunciano un
attacco aereo. Nomis di Pollone ordina di emettere cortine fumogene e
di seguire all'ecometro, nel proseguire la navigazione, la
batometrica di 30 metri, cui corrisponde grosso modo la rotta di
sicurezza.
L'attacco è condotto da quattro aerosiluranti Fairey
Albacore dell'828th
Squadron della Fleet Air Arm, di base a Malta: il loro avvicinamento
al convoglio, così come la ricognizione svolta in precedenza da
bimotori Vickers Wellington del 69th
Squadron della Royal Air Force (uno dei quali nel pomeriggio ha
avvistato e segnalato le navi italiane che procedono frazionate in
un'ampia area ad est di Tripoli), è stato reso difficoltoso dal
tempo burrascoso.
In
seguito all'avvistamento del convoglio i comandi britannici hanno
deciso di inviare contro di esso tutti gli aerei efficienti della
Fleet Air Arm presenti a Malta, ossia gli aerosiluranti Fairey
Albacore dell'828th
Squadron e Fairey Swordfish dell'830th
Squadron (tutti aventi base ad Hal Far), e di mandare sette
bombardieri Vickers Wellington del 104th
Squadron della Royal Air Force (tenente colonnello Philip Robert
Beare) a posare mine magnetiche all'imboccatura del porto di Tripoli
e sganciare bombe a scopo diversivo.
Le
forti piogge su Malta e le nuvole basse, che si aggiungono ai danni
causati alle piste degli aeroporti dai bombardamenti italo-tedeschi,
rendono difficile anche il decollo per gli aerei britannici; il
maltempo e la limitata visibilità impediscono agli Swordfish
dell'830th
Squadron (capitano di corvetta Frank Henry Edward Hopkins) di
avvistare il convoglio, ma gli Albacore – che in origine erano
cinque, uno dei quali è dovuto rientrare alla base di Hal Far per
problemi ai motori – riescono invece a trovarlo, attaccando alle
21.
Il
gruppo Monginevro-Da
Recco-Malocello viene
attaccato da un singolo velivolo, un Albacore (identificato
correttamente come un aerosilurante dalle navi italiane) pilotato
personalmente dal comandante dell'828th
Squadron, capitano di corvetta David Erskine Langmore: il Da
Recco (che occupa la
posizione a proravia della Monginevro)
lo colpisce con il tiro delle mitragliere di dritta e l'aereo
s'infila in mare, provocando la morte di entrambi gli uomini
dell'equipaggio.
Il
gruppo della Pisani non
subisce alcun attacco, mentre ha meno fortuna quello della Napoli:
alle 21.40 la motonave viene colpita all'estrema poppa, subendo pochi
danni che comprendono tuttavia la messa fuori uso del timone (un
altro Albacore viene danneggiato in questo attacco e si sfascerà in
fase di atterraggio ad Hal Far). Nella confusione, lo Zeno entra
in collisione con la Napoli stessa
e riporta una falla, anche se raggiungerà ugualmente Tripoli con i
propri mezzi.
Nella
notte tra il 18 ed il 19 dicembre la Forza K britannica (incrociatori
leggeri Aurora,
Penelope
e Neptune
e cacciatorpediniere Lance,
Lively,
Havock
e Kandahar),
uscita da Malta alle 18 del 18 per cercare il convoglio, finisce sui
campi minati posati al largo di Tripoli: affondano l'incrociatore
leggero Neptune ed
il cacciatorpediniere Kandahar,
viene gravemente danneggiato l'incrociatore leggero Aurora e
meno gravemente anche il gemello Penelope.
La temuta Forza K ha così cessato di esistere.
19
dicembre 1941
Dato
che intanto è iniziato un bombardamento aereo di Tripoli (che si
svolgerà in più ondate e si protrarrà fino alle tre di notte: a
condurlo sono sette bombardieri Vickers Wellington del 104th
Squadron della RAF, che attaccano scaglionati nel tempo mentre
lanciano le mine all'imboccatura del porto), Nomis di Pollone ordina
a Pisani e Monginevro,
con i rispettivi cacciatorpediniere, di mettersi alla fonda presso
Tagiura (che è già entro il sistema protettivo degli sbarramenti di
Tripoli), a dieci miglia dal porto, per attendere che terminino il
bombardamento e poi il dragaggio magnetico dell'avamporto di Tripoli
(si teme, a ragione, che gli aerei britannici vi abbiano lanciato
delle mine), conclusi i quali dovranno entrare in porto. Intanto,
Pessagno e
Malocello
vengono inviati a dare assistenza alla Napoli,
difendendola dai sommergibili che frequentano, notoriamente, la zona
in cui è stata colpita; sopraggiungono in rinforzo anche le
torpediniere Perseo e Prestinari.
Le
navi indenni riescono possono finalmente entrare a Tripoli alle 10.30
(per altra fonte, le dieci); la danneggiata Napoli (il
cui carico è però intatto), rimorchiata dal Ciclope
(in precedenza l'aveva presa a rimorchio il Da
Noli), giungerà in porto
alle 16, preceduta di due ore da Zeno, Da
Noli, Pessagno e Malocello.
L'operazione
«M. 42» si conclude così in un successo, con l'arrivo a
destinazione di tutti i rifornimenti inviati.
Il
Da Recco
riparte da Tripoli la sera stessa per tornare a Taranto insieme agli
altri cacciatorpediniere del gruppo di Nomis di Pollone, ma
manovrando per uscire dal porto, alle 19.45, sperona accidentalmente
il dragamine ausiliario G
32 Ferruccio,
un rimorchiatore requisito, provocandone l'affondamento presso
l'imboccatura del porto. Il Da
Recco riporta soltanto
un'ammaccatura sul lato di dritta della prua, che non gli impedisce
di proseguire normalmente la navigazione.
20
dicembre 1941
Il
Da Recco
e gli altri cacciatorpediniere arrivano a Taranto alle 2.50.
22
dicembre 1941
Dopo
aver effettuato degli esercizi di punteria in mattinata, alle 20.45
Da Recco,
Vivaldi ed Usodimare lasciano
Taranto per trasferirsi ad Augusta, da dove dovranno effettuare una
missione di trasporto truppe verso la Libia. Superate le ostruzioni
foranee, i tre cacciatorpediniere procedono a 22 nodi in linea di
fila.
23
dicembre 1941
Verso
le nove del mattino i tre cacciatorpediniere, giunti in vista della
rada di Augusta, riducono la velocità; alle 9.15 superano le
ostruzioni foranee e vanno poi ad ormeggiarsi alla banchina di Punta
Cugno, dove inizia l'imbarco delle truppe e dei materiali da portare
in Libia.
Alle
18.30 Da
Recco, Vivaldi (caposquadriglia,
capitano di vascello Giovanni Galati) ed Usodimare lasciano
Augusta diretti a Tripoli, navigando a 22 nodi in linea di fila. A
bordo hanno un reparto anticarro di 600 uomini con le relative armi,
nonché 150 tonnellate di gasolio.
Alle
19.10 le tre unità passano in formazione a linea di fronte, e
mezz'ora dopo avvistano dei razzi bianchi verso dritta: temendo che
si prepari un attacco aereo nemico, viene ordinato il posto di
combattimento, ma quando uno degli aerei passa a poca distanza viene
riconosciuto come italiano dal rumore dei motori. Alle 21.30 la
velocità viene portata a 25 nodi.
24
dicembre 1941
Verso
le otto del mattino, in vista della costa africana, viene avvistato
un aereo italiano che alle 9.15 lancia due fumogeni – uno bianco ed
uno rosso – a proravia del Vivaldi;
le tre navi seguono poi lungo la costa fino a Tripoli.
Alle
11.45 (o 11.22) i cacciatorpediniere arrivano a Tripoli, dove si
ormeggiano al Molo Sottoflutto; appena finito il posto di manovra,
iniziano a sbarcare rapidamente truppe e materiali, completando
l'operazione alle tre del pomeriggio. Verso le 18 iniziano quindi ad
imbarcare profughi civili e militari rimpatrianti (sul Vivaldi)
nonché prigionieri di guerra da trasportare in Italia (su Da
Recco ed Usodimare),
per poi ripartire alle 18.30 (o 19).
La
partenza avviene appena in tempo per evitare un'incursione aerea
britannica su Tripoli: l'allarme viene suonato mentre i
cacciatorpediniere si apprestano a superare le ostruzioni, e le
difese contraeree del porto aprono il fuoco subito dopo che Da
Recco, Vivaldi ed
Usodimare
ne sono usciti. Qualche aereo attacca anche i cacciatorpediniere, ma
viene respinto dal loro tiro contraereo.
Una
volta lasciate le rotte di sicurezza, Da
Recco, Vivaldi ed
Usodimare
si dispongono in linea di fila facendo rotta verso l'Italia; alle
21.05 vengono avvistati anche i
cacciatorpediniere Bersagliere e Fuciliere (arrivati
in porto quasi contemporaneamente alla Squadriglia Vivaldi,
provenendo da Taranto con un carico di lattine di benzina), che si
accodano alla squadriglia. In tutto i cinque cacciatorpediniere hanno
a bordo 870 prigionieri Alleati (460 anglosassoni e 410 coloniali)
scortati da 3 ufficiali e 45 militari italiani, nonché degli operai
di passaggio, diretti in Italia.
Le
cinque unità, costituendo un'unica formazione su due colonne (il cui
comando va al capitano di vascello Galati del Vivaldi),
seguono a 27 nodi una rotta che passa ad est di Malta anziché, come
prescritto dagli ordini ricevuti in precedenza, ad ovest dell'isola:
tale variazione è stata decisa dal capitano di vascello Galati di
propria iniziativa, alle ore 21 del 24, sulla base del fatto che i
suoi cacciatorpediniere sono stati attaccati da bombardieri
britannici dopo aver assunto la rotta definitiva per Lampione, il che
dà motivo di credere che ormai i britannici conoscano con certezza
gli elementi della navigazione delle navi italiane, cosa che
renderebbe estremamente facile, per il nemico, organizzare la loro
intercettazione nelle acque di Lampedusa. Considerato anche che le
sue navi, avendo a bordo ciascuna circa 300 tra prigionieri, operai e
militari di scorta e di passaggio, sono in condizioni tutt'altro che
ottimali per un combattimento notturno, Galati decide di cambiare
radicalmente il percorso da seguire, e pertanto cambia rotta in modo
da passare 100 miglia ad est di Malta, invece di percorrere il Canale
di Sicilia come previsto. La velocità viene portata a 25 nodi, in
modo da essere al traverso di Malta non più tardi delle prime luci
dell'alba.
25
dicembre 1941
Alle
7.30, trovandosi al traverso di Malta, Galati riferisce l'avvenuta
modifica della rotta e la sua attuale posizione a Supermarina, Marina
Napoli e Marina Messina.
Verso
le nove vengono avvistati in lontananza degli aerei di nazionalità
sconosciuta, che volano bassi sull'orizzonte, e viene ordinato il
posto di combattimento, ma successivamente viene dato il cessato
allarme in quanto gli aerei vengono identificati come velivoli da
trasporto tedeschi.
Alle
11.25 viene avvistata la vetta dell'Etna, ed alle 12.30 i
cacciatorpediniere sono al traverso di Capo dell'Armi; sempre in
formazione su due colonne, imboccano lo stretto di Messina. Superato
lo stretto, seguono le rotte di sicurezza fino al largo di Stromboli,
poi assumono rotta verso Napoli. Alle 21.30 viene avvistato il faro
di Punta Campanella.
Alle
24 Da
Recco, Vivaldi (caposquadriglia), Usodimare, Bersagliere (capo
sezione classe Soldati) e Fuciliere arrivano
indenni a Napoli.
3
gennaio 1942
Il Da
Recco lascia Messina
per Tripoli alle 10.15, insieme ai cacciatorpediniere Ugolino
Vivaldi (nave
ammiraglia del contrammiraglio Amedeo Nomis di Pollone, comandante
dei cacciatorpediniere della scorta diretta), Fuciliere, Antoniotto
Usodimare e Bersagliere,
scortando le motonavi Nino
Bixio, Lerici e Monginevro,
nell'ambito dell'operazione di rifornimento «M. 43». Il Da
Recco e gli altri
cacciatorpediniere del suo gruppo si sono trasferiti da Napoli a
Messina il giorno precedente, rifornendosi nel porto siciliano prima
di prendere il mare per la missione.
Le
tre motonavi formano il convoglio n. 1 di tale operazione; la «M.
43» prevede in tutto l'invio in Libia di cinque grandi motonavi da
carico ed una petroliera, tutte veloci (almeno 14 nodi) e di recente
costruzione, con una scorta poderosa: oltre alle siluranti di scorta
di ciascun convoglio, vi sono una forza di «scorta diretta
incorporata nel convoglio» (gruppo «Duilio»,
al comando dell'ammiraglio di squadra Carlo Bergamini, con il compito
di respingere eventuali attacchi di formazioni leggere di superficie
come la Forza K) composta dalla corazzata Duilio (nave
ammiraglia di Bergamini) con gli incrociatori leggeri Emanuele
Filiberto Duca d'Aosta (nave
di bandiera dell'ammiraglio di divisione Raffaele De
Courten), Raimondo
Montecuccoli, Muzio
Attendolo e Giuseppe
Garibaldi ed i
cacciatorpediniere Maestrale, Scirocco, Alfredo
Oriani e Vincenzo
Gioberti, ed un gruppo
d'appoggio a distanza (gruppo «Littorio»,
al comando dell'ammiraglio di squadra Angelo Iachino, con l'incarico
di proteggere il convoglio da un eventuale attacco in forze della
Mediterranean Fleet) formato dalle corazzate Littorio (nave
di ammiraglia di Iachino), Giulio
Cesare ed Andrea
Doria (nave ammiraglia
dell'ammiraglio di divisione Guido Porzio Giovanola), dagli
incrociatori pesanti Trento e Gorizia (nave
ammiraglia dell'ammiraglio di divisione Angelo Parona) e dai
cacciatorpediniere Aviere, Geniere, Carabiniere, Alpino, Camicia
Nera, Ascari, Antonio
Pigafetta ed Antonio
Da Noli. Alla scorta aerea
concorrono la Regia Aeronautica (Armata Aerea e Ricognizione
Marittima) e la Luftwaffe (II Corpo Aereo Tedesco e X Corpo Aereo
Tedesco, di base l'uno in Sicilia e l'altro in Grecia) per effettuare
ricognizione sul porto della Valletta (Malta) e nelle acque di
Alessandria, bombardamenti preventivi sugli aeroporti maltesi e
scorta di caccia, antiaerosilurante ed antisommergibile sui cieli del
convoglio nonché a protezione delle navi impegnate nello scarico una
volta giunte a Tripoli. Completa il dispositivo di difesa la
dislocazione di undici sommergibili sulle probabili rotte che una
ipotetica forza navale nemica dovrebbe percorrere per attaccare il
convoglio.
4
gennaio 1942
Tra
le 7 e le 11, come previsto, il convoglio n. 1 si unisce ai convogli
2 (motonave Monviso,
motocisterna Giulio
Giordani,
torpediniere Orsa, Aretusa, Castore ed Antares)
e 3 (motonave Gino
Allegri,
cacciatorpediniere Freccia,
torpediniera Procione),
partiti rispettivamente da Taranto e Brindisi; si forma così un
unico grande convoglio, il cui caposcorta è il contrammiraglio Nomis
di Pollone. Mentre il convoglio «Allegri»
si unisce al Gruppo «Duilio»,
la III Divisione Navale (Trento e Gorizia)
del gruppo d'appoggio viene avvistata da un ricognitore britannico;
da Malta decolla una formazione aerea per attaccare, ma deve
rientrare senza essere riuscita a trovare il convoglio. Al tramonto
il gruppo «Duilio»
s'incorpora nella formazione del convoglio, che durante la notte
mette la prua su Tripoli.
5
gennaio 1942
Poco
dopo le tre di notte il gruppo «Duilio»
lascia il convoglio, che giunge indenne a Tripoli alle 12.30 senza
aver subito alcun attacco. Complessivamente, con questo convoglio
giungono in Libia oltre 15.000 tonnellate di carburante, 12.500 di
munizioni, 650 veicoli e 900 soldati.
Gennaio
1942
Il
Da Recco
ed il resto della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere (Pessagno
ed Usodimare)
passano al Gruppo Cacciatorpediniere di Squadra.
12
gennaio 1942
Il
Da Recco
(caposcorta), l'Usodimare
e l'anziana torpediniera Generale
Antonio Cantore salpano da
Messina alle 20.40 alla volta di Tripoli, scortando il piroscafo
Bosforo.
13-14
gennaio 1942
Il
convoglio sosta a Palermo per due giorni, poi riparte e fa scalo a
Trapani.
16
gennaio 1942
Bosforo e
scorta giungono a Tripoli alle 13.15.
17
gennaio 1942
Da
Recco (caposcorta) e
Usodimare
lasciano Tripoli alle 17 per scortare in Italia la grande motonave
cisterna Giulio
Giordani.
18
gennaio 1942
Durante
la notte tra il 17 ed il 18, a sud della Sicilia, il convoglietto
viene soggetto a ripetuti attacchi aerei, compreso uno da parte di
cinque aerosiluranti britannici Fairey Swordfish dell'830th Squadron
della Fleet Air Arm, decollati da Hal Far (Malta), che ritengono di
aver colpito la Giordani con
un siluro, e probabilmente anche uno dei cacciatorpediniere. In
realtà, nessuna delle navi italiane subisce alcun danno; anche gli
Swordfish rientrano alla base senza perdite.
Giordani e
scorta arrivano a Palermo alle 13.
Il
Da
Recco
in uscita da La Spezia nella primavera 1942, con la sua prima
colorazione mimetica (g.c. Giorgio Parodi via www.naviearmatori.net)
20
marzo 1942
Assume
il comando del Da Recco,
e della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, il capitano di vascello
Aldo Cocchia, avvicendando il parigrado Esposito. Così Cocchia, che
nei due anni precedenti era stato in successione comandante del
sommergibile Torelli nella sua prima missione atlantica, capo di
Stato Maggiore della base atlantica di Betasom e comandante militare
dell'isola di Lero, partecipando anche alla spedizione italiana a
Creta nel maggio 1941, avrebbe rievocato l'emozione del suo nuovo
comando nel suo libro di memorie "Convogli": “…soltanto
ora sentivo soddisfatte le mie aspirazioni. Il comando di squadriglia
di cacciatorpediniere era stato il mio desiderio più vivo sin dal
principio della guerra e, a tale scopo, avevo tempestato di domande
il ministero della Marina…”.
Tuttavia, “la sua fama
[del Da Recco]
(…) non era buona. Non
perché fosse stato mal comandato
(…) La fama del Da Recco
era di essere disgraziato e, peggio, di portar disgrazia agli altri.
(…) La cattiva nomea del
Da Recco derivava dal gran numero di piroscafi che erano andati
perduti nei convogli che lo avevano avuto fino ad allora quale capo
scorta. Sappiamo che una triste fatalità accompagnava i nostri
convogli in genere senza che coraggio, abnegazione, abilità di
comandanti ed equipaggi potessero far nulla per mutarla, ma pareva
che tale triste fatalità si addensasse particolarmente sulle navi
che avevano il Da Recco quale comandante superiore, e da ciò era
venuto al caccia il brutto nome di iettatore. Non potevo certo
rinunciare al comando o rifiutarlo sol perché la silurante che mi
veniva affidata aveva reputazione poco simpatica. Formulai a me
stesso l'augurio di riuscire a capovolgere tale reputazione e
affrontai serenamente il mare. D'altra parte il Da Recco era sì
malfamato, ma aveva una tradizione di lavoro e di valore altamente
significativa”.
Cocchia
tratteggia la seguente descrizione del suo stato maggiore: “Sul
Da Recco ebbi la ventura di avere uno stato maggiore formato di
ufficiali veramente di prim'ordine. Assistente di squadriglia e mio
diretto collaboratore il capitano di corvetta Gian Luigi Sironi,
milanese, intelligentissimo, che sapeva il fatto suo in ogni
circostanza. Era stato comandante del Pegaso
(…) ed aveva molta pratica
di convogli e della tattica nemica, sperimentata a più riprese
durante il periodo del suo comando di torpediniera; per l'insieme di
queste sue qualità mi fu aiuto validissimo. Il capitano di corvetta
Pietro Riva era il secondo di bordo. Era stato fino ad allora
osservatore su aerosiluranti ed era decorato di due medaglie di
argento. Bravissimo, si mise rapidamente all'altezza del suo compito
e dimostrò poi ottime doti quando, in un momento difficilissimo, io,
ferito gravemente, fui costretto a cedergli il comando del Da Recco.
Una delle colonne di bordo era indubbiamente il capitano Cesare
Petroncelli, capo servizio genio navale, che non si sapeva quando
dormisse e che seppe fronteggiare con magiStrale abilità le
situazioni più difficili e le avarie più impensate che il nostro Da
Recco si divertiva talora ad imbastire. Pieno di sorprendente
vitalità e di esuberante attività, non poteva stare fermo un
momento, tanto che al ritorno da missioni di guerra, dopo aver messo
in ordine l'apparato motore, se gli avanzava tempo, anziché
andarsene a dormire come faceva la generalità dello stato maggiore e
dell'equipaggio, racimolava 4 o 5 suoi fidi e se li portava a fare
delle lunghe passeggiate in campagna. All'inizio della missione era
poi fresco come una rosa, e al suo posto pronto a qualsiasi
eventualità. La schiera dei giovani di bordo era capeggiata dal
tenente di vascello Alfredo Zambrini, ufficiale intelligente,
sveltissimo, che ricoprì lodevolmente prima la carica di segretario
di squadriglia, poi quella di ufficiale alle comunicazioni e ai
servizi elettrici. Valoroso ed entusiasta, non c'era niente che
potesse metterlo in agitazione, ed aveva un tal controllo di sé
stesso che quando fu ferito a morte nel combattimento del 2 dicembre
seppe eroicamente assolvere il suo dovere fino all'estremo limite
delle sue forze. Direttore del tiro era il sottotenente di vascello
Sciangula, famoso abbattitore di velivoli nemici; ufficiale di rotta
e mio segretario il sottotenente di vascello Giorgio Ascheri che,
modesto quanto capace, sapeva tirar fuori il «punto» anche nelle
condizioni atmosferiche più impossibili, anche dopo una notte di
combattimenti, anche quando la stanchezza annebbiava gli occhi e
faceva piegare le gambe. Sempre calmo, sempre imperturbabile, Ascheri
aveva il mio affetto e la mia stima.
(…) Non voglio tralasciare
di nominare tre bravi compagni, caduti in combattimento: il tenente
di vascello Tivegna, immolatosi al suo posto di dovere appena
imbarcato; Federigi, tenente commissario e instancabile ufficiale
alla cifra in navigazione, uomo di mare oltre che di tavolino, e
Giusfredi, guardiamarina che faceva il suo tirocinio a bordo per
diventare ufficiale di rotta, caro ragazzo che possedeva tutte le
doti e i pregi della sua età, ma che in servizio sapeva essere serio
e ponderato come i più vecchi del mestiere. Provai un vero dolore
quando questa giovane e promettente vita fu falciata dal fato
inesorabile”.
Al
momento dell'assunzione del comando da parte di Cocchia, il Da
Recco si trova a La Spezia
per grandi lavori, che avranno termine solo a inizio maggio; i lavori
comprendono la revisione completa dell'apparato propulsivo, la
sostituzione (nei limiti del possibile) di tutti i materiali
infiammabili con altri ignifughi, eliminando anche vernici
infiammabili e tutto il materiale superfluo che potrebbe alimentare
le fiamme in caso d'incendio a bordo, e l'installazione di un
ecogoniometro. Viene inoltre applicata una colorazione mimetica tipo
standard, con un disegno diverso su ciascun lato.
.jpg) |
Il capitano di vascello Aldo Cocchia, comandante del Da Recco dal maggio al dicembre 1942. Nato a Napoli il 30 agosto 1900, frequentò l'Accademia Navale di Livorno e ne uscì il 18 novembre 1917 con il grado di guardiamarina; durante la prima guerra mondiale fu imbarcato sulla corazzata Conte di Cavour, e nell'immediato dopoguerra sull'esploratore Augusto Riboty, partecipando alle operazioni in Albania. Dopo vari incarichi a bordo e a terra negli anni successivi, ebbe il suo primo comando negli anni Trenta, con il sommergibile Marcantonio Bragadin; tra il 1935 ed il 1938 partecipò alla guerra d'Etiopia ed alla guerra civile spagnola, venendo promosso a capitano di fregata nel dicembre 1935. Dopo un periodo a Massaua al comando della III Squadriglia Cacciatorpediniere (settembre 1938-marzo 1940) rientrò in patria ed all'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale era comandante del I Gruppo Sommergibili di La Spezia e del sommergibile Luigi Torelli, che portò in Atlantico per la sua prima missione oceanica. Raggiunta Bordeaux, divenne capo di Stato Maggiore della neocostituita base atlantica italiana di Betasom dall'ottobre 1940 al maggio 1941, quando fu promosso a capitano di vascello e rimpatriato. Fu comandante dell'eterogenea flottiglia che trasportò a Creta le truppe italiane inviate in rinforzo a quelle tedesche impegnate nei combattimenti per la conquista dell'isola, in quello stesso mese, e divenne poi comandante militare dell'isola di Lero fino al febbraio 1942. Ottenuto il 20 marzo 1942 il comando del Da Recco e della XVI Squadriglia Cacciatorpediniere, lo mantenne fino alla tragica notte del 2 dicembre 1942, quando rimase gravemente ustionato. Passò tre anni in ospedali e cliniche per arginare per quanto possibile i danni provocati dal fuoco, ma rimase comunque sfigurato. Trasferito al Ruolo d'Onore, proseguì la sua carriera nel dopoguerra diventando direttore della “Rivista Marittima” (nel 1958) e capo dell'Ufficio Storico della Marina Militare (dal 1960 al 1963), dirigendo la scrittura di parte della collana dedicata alla Marina italiana nella seconda guerra mondiale (altri libri sullo stesso tema, tra cui l'interessantissimo e più volte citato volume di memorie “Convogli”, li pubblicò per conto proprio); raggiunto il grado di contrammiraglio nel 1955, ammiraglio di divisione nel 1959 ed ammiraglio di squadra nel 1961, lasciò il servizio nel 1963 e morì a Napoli il 12 dicembre 1968. Per il suo servizio bellico ebbe la Medaglia d'Oro al Valor Militare (per la sua condotta nella notte del 2 dicembre 1942), una Medaglia d'Argento (per la sua attività a bordo del Da Recco) e tre di Bronzo (una per la spedizione di Creta del maggio 1941, una per l'abbattimento di diversi aerei durante l'attacco al Reichenfels nel giugno 1942, ed una per un'azione antisommergibili nel maggio 1942). Fu inoltre insignito degli ordini dei Santi Maurizio e Lazzaro, della Corona d'Italia e della Repubblica Italiana. |
8
maggio 1942
Il
Da Recco
scorta il sommergibile H 4
(tenente di vascello Gaetano Iaccarino) durante un'uscita per
esercitazione da La Spezia.
9
maggio 1942
Ultimati
i lavori e compiuto un breve ciclo di collaudi ed esercitazioni
diurne e notturne, il Da
Recco lascia La Spezia per
tornare a scortare convogli tra l'Italia e la Libia.
10
maggio 1942
Il
Da Recco arriva
a Napoli in mattinata. Recatosi a presentarsi alla sede del Comando
in capo del locale Dipartimento Militare Marittimo, il comandante
Cocchia vi trova riuniti ad attenderlo i comandanti civili e militari
del cacciatorpediniere Premuda,
delle torpediniere Pallade e
Polluce
e delle motonavi Agostino
Bertani, Gino
Allegri, Reginaldo
Giuliani e Reichenfels (quest'ultima
tedesca): insieme al Da
Recco, queste navi dovranno
formare il convoglio «G», destinato a partire quel giorno stesso
nell'ambito dell'operazione di traffico «Mira», consistente
nell'invio a Tripoli di sei grandi e moderne motonavi cariche di
rifornimenti, suddivise in tre convogli. Proprio a Cocchia ed al suo
Da Recco
spetterà il ruolo di caposcorta; nel corso della breve riunion
tenuta presso il Comando, Cocchia impartisce alcune istruzioni sulla
condotta della navigazione e sulle formazioni da tenere.
Per
la prima volta, per maggior protezione dell'importante carico ed a
titolo sperimentale, la scorta sarà interamente costituita da
siluranti dotate di ecogoniometro; alla riunione (ed alla missione)
partecipano allo scopo alcuni specialisti ecogoniometristi tedeschi
(gran parte degli ecogoniometri in dotazione alle navi italiane sono
di fabbricazione tedesca).
Il
convoglio parte da Napoli per Tripoli alle 17.15.
11
maggio 1942
Alle
3.30 la Giuliani è
colta da un'avaria al timone (secondo le memorie di Cocchia, alle
pompe di circolazione), non riparabile con i mezzi di bordo; il
comandante Cocchia la manda allora a Palermo, con la scorta
del Premuda
(capitano di fregata Mario Bartalesi).
All'alba
il convoglio «G» si congiunge con gli altri due convogli di «Mira»,
l'«X» (motonave Unione e
torpediniera Climene,
partite da Messina) e l'«H» (motonave Ravello e
torpediniera Castore,
partite da Napoli: anche i loro comandanti hanno partecipato alla
riunione tenuta il giorno precedente), costituendo un unico convoglio
sotto il comando del comandante Cocchia del Da
Recco. Il convoglio imbocca
la rotta di ponente per giungere a Tripoli, passando per il Canale di
Sicilia; transita a poca distanza da Pantelleria e Lampedusa e ad una
settantina di miglia da Malta.
12
maggio 1942
Alle
00.05 il convoglio viene raggiunto dalla torpediniera Generale
Marcello Prestinari,
inviata da Tripoli per pilotarlo sulle rotte di sicurezza, che
il convoglio imbocca all'alba.
Tutte
le navi arrivano a Tripoli in mattinata (tra le 6.40 e le 9.45) con
uno dei più grandi carichi mai portati in Libia da un singolo
convoglio: 58 carri armati, 713 automezzi, 3086 tonnellate di
carburanti e lubrificanti, 17.505 tonnellate di munizioni ed altri
materiali e 513 uomini. Ricorda Aldo Cocchia: “Quella
volta sapevano tutti magnificamente il loro mestiere, il mio
assistente fu un vero asso, le navi mercantili, bellissime,
stracariche principalmente di carri armati, automezzi e poi di
benzina, munizioni, viveri, erano chiuse in un vero cerchio di ferro
e la navigazione andò come meglio non si sarebbe potuto desiderare.
Perfino il tempo fu magnifico, sereno, idilliaco. Navigavamo in
formazione perfetta, come per una parata e sembrava che nemmeno
fossimo in guerra contro la più potente nazione marittima del mondo,
tanto il nemico fu assente. Neanche un ricognitore, neanche un fumo
all'orizzonte. Ogni tanto una delle unità di scorta credeva di
sentire qualcosa all'ecogoniometro (…) ma poi tornava nei ranghi
trattandosi sempre di un falso allarme (…) Ricorderò sempre questa
mia prima navigazione quale capo scorta perché mai più ho avuto una
navigazione così tranquilla e serena”.
(Curiosamente, la storia ufficiale dell'USMM parla invece,
alternativamente, di “attiva sorveglianza aerea” senza però
azioni offensive, oppure di attacchi aerei e subacquei nel Canale di
Sicilia, che tuttavia non causarono danni).
A
Cocchia Tripoli, che vede per la prima volta dall'inizio della
guerra, appare relativamente poco toccata dal conflitto: “Nel
centro qualche casa sventrata, qualche buca nei giardini, ma niente
di troppo grave; nel complesso era intatta. Sul lungomare nemmeno una
casa colpita…”.
L'agitazione che regna in città, il continuo afflusso di
rifornimenti e l'intenso traffico stradale preannunciano l'offensiva
italo tedesca che di lì a poco porterà le truppe di Rommel a cento
chilometri da Alessandria. La Reichenfels
è ormeggiata accanto al Da
Recco e “mi
sembrava quasi inverosimile che avesse potuto portare tanto
materiale. Era una vera miniera. Ed era anche il piroscafo più
disciplinato e più militarmente organizzato fra quanti ne ho visti.
Armato di alcune mitragliere contraeree, tutte le mattine allenava il
proprio personale con uno zelo, una meticolosità e una serietà
tutte germaniche”.
.jpg)
Il
Da Recco
al largo di La Spezia ad inizio maggio 1942 (per altra fonte,
nell’estate di quell’anno) (g.c. STORIA militare)
17
maggio 1942
Il
Da Recco
lascia Tripoli alle 6.30 per scortare a Brindisi la motonave Gino
Allegri.
19
maggio 1942
Da
Recco e Allegri
arrivano a Brindisi all'una di notte.
23
maggio 1942
Il Da
Recco (caposcorta) ed
il cacciatorpediniere Saetta
partono da Brindisi alle 10.30, per scortare a Bengasi le
motonavi Monviso ed Ankara.
Il convoglio procede a buona velocità, essendo composto da motonavi
moderne e veloci.
24
maggio 1942
Avvistato
da ricognitori, il convoglio subisce pesanti attacchi aerei dalle
00.30 alle due di notte, ma non subisce danni. Da
Recco e Saetta avvolgono
le due motonavi nelle cortine fumogene ed abbattono un aerosilurante,
colpito e danneggiato dal Da
Recco e poi incendiato
e distrutto dal Saetta.
Alle
18 un sommergibile lancia due siluri (tre secondo le memorie di Aldo
Cocchia), che il convoglio evita con pronta manovra, tempestivamente
ordinata da Cocchia e perfettamente eseguita dalle due motonavi (che
“manovrarono come per una
parata”); il caposcorta
ordina poi al Saetta
di eseguire caccia antisommergibili per mezz'ora e poi riunirsi
al convoglio. Così il Saetta
fa, senza successo, essendo sprovvisto di ecogoniometro (come Cocchia
sa: lo scopo del contrattacco da lui ordinato, infatti, è più che
altro di indurre il sommergibile a rimanere immerso in profondità
per un po', in modo da impedirgli di tornare all'attacco; potendo la
cosa migliore sarebbe di protrarre la caccia fino al tramonto, ma
Cocchia non vuole privarsi del Saetta,
unica altra unità di scorta oltre al Da
Recco, per troppo tempo).
Calato
il buio, Supermarina informa il Da
Recco di aver intercettato
e decifrato un messaggio trasmesso da parte di un'unità britannica –
con ogni probabilità, proprio il sommergibile che li ha attaccati
qualche ora prima – che comunicava a Malta la posizione che il
convoglio aveva alcune ore prima. In quel momento il convoglio si
trova a circa 200 miglia da Malta.
Verso
mezzanotte si accendono nel cielo alcuni bengala, e quasi
contemporaneamente iniziano a cadere anche le bombe. Per il
comandante Cocchia si tratta del primo attacco aereo notturno
dall'assunzione del comando del Da
Recco; reagisce nel modo
consueto per questi casi, accostando con tutte le navi per mettere i
bengala di prua o di poppa, in modo da offrire agli aerei (che
attaccano le sagome delle navi che si stagliano contro le luci dei
bengala) il minimo bersaglio possibile, ed occultando i mercantili
con cortine fumogene.
25
maggio 1942
Dopo
il lancio dei primi bengala, un bengaliere lancia tuttavia degli
altri bengala tutt'attorno al convoglio, in modo che non sia
possibile lasciarseli alle spalle con la manovra: non rimangono
quindi che le cortine di nebbia. Il convoglio si divide in due
colonne formate ciascuna da un mercantile ed un cacciatorpediniere,
distanziate tra loro di circa 1500 metri; Da
Recco e Saetta
coprono completamente le due motonavi con le loro cortine, e benché
numerose bombe cadano tra le navi, anche piuttosto vicine, nessuna va
a segno.
Dopo
un paio d'ore dall'inizio degli attacchi, Supermarina comunica al Da
Recco "Prevedo
prossimo attacco di aerosiluranti"; non passa molto, infatti,
prima che i bengalieri stendano una cortina di bengala sul lato
destro del convoglio, il che preannuncia un attacco di aerosiluranti
dal lato opposto. Scrive Aldo Cocchia: “…poi
finalmente avemmo il piacere di vedere uno degli aerei nemici.
Vederlo proprio con i nostri occhi. Fino ad allora avevamo visto
bengala e colonn di acqua
(…) ma aerei niente; ora
finalmente eccone uno che, proveniente da poppa, dirige su di noi,
basso, cattivo. Apriamo subito il fuoco con tutte le mitragliere da
20, e al nostro fuoco lui risponde con le armi di bordo. Il
combattimento è a distanza serrata e, per qualche secondo, le scie
luminose delle nostre traccianti intersecano quelle che partono
dall'aereo. Sembra un fuoco di artificio in onore di una qualche
mostruosa divinità del male; l'aereo è colpito più volte, sbanda,
mi passa di prora, sgancia erroneamente il suo siluro che si perde
fra le due colonne di navi, va a finire sotto il fuoco del Saetta, si
incendia, precipita in mare. 50-60 secondi ed è consumato l'ultimo
atto di questo dramma che è durato due ore e mezzo”.
Il
convoglio arriva a Bengasi alle 14, ed il comandante Cocchia riceve
da Supermarina un telegramma di elogio per aver brillantemente
superato l'attacco aereo notturno. Da
Recco (caposcorta) e Saetta
ripartono alle 19.30, di scorta alle motonavi Nino
Bixio e Mario
Roselli, dirette a
Brindisi.
26
maggio 1942
All'1.30
il convoglio viene avvistato da ricognitori ed inizia a subire
attacchi aerei; i due cacciatorpediniere occultano i mercantili con
cortine nebbiogene, vanificando l'attacco nemico.
Alle
7.30 un attacco da parte di un sommergibile viene sventato dalla
reazione della scorta.
27
maggio 1942
Il
convoglio giunge a Brindisi alle 10.30.
29
maggio 1942
Alle
13.45 il Da Recco (capitano
di vascello Aldo Cocchia, caposcorta) salpa da Brindisi per scortare
a Bengasi la motonave Gino
Allegri, con cui forma il
convoglio «L». Una volta in mare aperto, le due navi assumono una
velocità di 15,5 nodi. Marina Taranto ha predisposto una scorta
aerea in funzione antisommergibili, che accompagna Allegri e Da
Recco fino al
tramonto.
Nelle
stive dell'Allegri si
trovavano 4000 tonnellate di rifornimenti per le truppe
italo-tedesche operanti in Africa Settentrionale, compresi 160
autoveicoli, 400 tonnellate di nafta per la Regia Marina e ben 1800
tonnellate di munizioni, oltre a 148 militari di passaggio diretti in
Africa Settentrionale.
Il
comandante Cocchia del Da
Recco ricorderà nelle sue
memorie che sia il comandante civile che quello militare
dell'Allegri “non
avevano grande pratica della navigazione in convoglio, stavano male
in formazione ed erano piuttosto riluttanti a obbedire agli ordini
del capo scorta. Durante la navigazione da Tripoli a Brindisi
[viaggio del 17-19 maggio] per
non eseguire i miei ordini poco era mancato che andasse a finire su
un banco di nostre mine, tanto che, per evitare la sicura perdita
della motonave, fui costretto a fare dei segnali in chiaro a mezzo
radio, dicendo apertamente quel che stava per capitare. Commisi così
infrazione gravissima alle disposizioni vigenti e corsi il rischio di
giusta severa punizione…”.
Inoltre l'Allegri era
provvista di radiosegnalatori per comunicare con la propria scorta,
ma a detta di Cocchia apparteneva a quella categoria di navi con cui
“le comunicazioni a volte
andavano piuttosto male, o perché non capivano, o perché facevano
finta di non sentire o perché gli apparati, sempre delicati, non
erano in ordine”.
Fuori
Otranto, durante la notte, il Da
Recco avvista un
sommergibile emerso che si staglia vistosamente contro la luna; il
convoglio è stato avvisato che incontrerà un U-Boot tedesco, ma la
posizione e l'ora del previsto incontro sono differenti, e non vi è
quindi certezza sulla nazionalità del battello avvistato. Cocchia
ritiene necessario, prima di chiarire tale dubbio, mettere al sicuro
l'Allegri da
ogni possibile attacco da parte del sommergibile, ed a questo scopo
impartisce alla motonave, con tutti i mezzi disponibili, una serie di
ordini di cambiare rotta, ma il mercantile non dà segno di aver
inteso, anzi, secondo Cocchia, “sembrava
che la «L» [così
Cocchia chiama l'Allegri,
senza mai farne esplicitamente il nome] facesse
apposta per mettersi nelle condizioni migliori per essere attaccata”.
Alla fine è il sommergibile, accortosi a sua volta della presenza
delle due navi, a risolvere la questione immergendosi; il Da
Recco lancia solo
alcune bombe di profondità a scopo intimidatorio regolate per
scoppiare a bassa profondità, così che un sommergibile amico,
immersosi in profondità per evitare incidenti, non ne sarebbe
danneggiato, mentre un battello nemico, rimasto poco sotto la
superficie per attaccare, non potrebbe passare all'attacco.
%20e%20Gino%20Allegri%20fotografati%20dall'Euro%2030-5-42%20(da%20Convogli-Aldo%20Cocchia).jpg) |
Il Da Recco, a destra, e la Gino Allegri fotografati dall’Euro, il 30 maggio 1942 (da “Convogli” di Aldo Cocchia) |
30
maggio 1942
Alle
6.30, nel punto 37°26' N e 18°31' E (in Mar Ionio, un centinaio di
miglia a sudest di Punta Stilo), il gruppo Da
Recco-Allegri
si unisce come previsto al convoglio «P», formato da un'altra
moderna motonave, la Rosolino
Pilo, partita da Taranto
per Tripoli con la scorta del cacciatorpediniere Euro (capitano
di fregata Giuseppe Cigala Fulgosi): si formò così un unico
convoglio, il cui caposcorta è il Da
Recco. (Per altra fonte la
riunione sarebbe avvenuta il 29, poco dopo la partenza da Brindisi).
Di
nuovo l'Allegri non
obbedisce agli ordini trasmessi dal Da
Recco, tanto che il
cacciatorpediniere deve lasciare la propria posizione nella
formazione per avvicinarsi sino a portata di voce e ribadire gli
ordini al megafono, cui Cocchia aggiunge pesanti rimproveri. Non
c'era altro verso di farsi ascoltare, ma Cocchia si sarebbe più
tardi rammaricato della severità del suo rimprovero, vista la sorte
poi toccata alla nave ed al suo equipaggio.
Le
due motonavi e la relativa scorta viaggiano insieme fino alla sera
del 30 maggio, seguendo la rotta orientale per la Libia e passando
200 miglia ad est di Malta ad una velocità di 15,5 nodi. Le rotte
scelte per questa traversata sono alquanto differenti da quelle
seguite di solito, al fine di rendere più difficile ai britannici –
che in quel periodo hanno intensificato gli attacchi a mezzo di aerei
e sommergibili nel Mediterraneo centrale – l'individuazione del
convoglio.
Alle
sei del mattino del 30 (per altra fonte, durante la notte) il
convoglio, avendo ricevuto segnalazione della presenza di
sommergibili nemici sulla propria rotta (direttrice Taranto-Bengasi)
ed essendo cercato dalla ricognizione aerea, devia dalla rotta
prestabilita – per ordine di Supermarina – al fine di eludere
tali minacce.
Stavolta,
però, «ULTRA» ha fatto cilecca: già dal 27 maggio, infatti, il
servizio di decrittazione britannico ha segnalato che dal 25
l'Allegri stava
caricando munizioni a Brindisi, ma in seguito non è riuscito a
decifrare alcun altro messaggio utile su questo convoglio, e quando
vi riuscirà, il 31, sarà troppo tardi per influire sugli eventi,
ormai già giunti al termine. A scatenare gli attacchi sul convoglio
è invece il suo casuale avvistamento da parte di un aereo
britannico, alle 11.03 del 30 maggio.
Intanto,
anche per la giornata del 30 maggio il convoglio ha sul proprio cielo
alcuni aerei della Regia Aeronautica e del Corpo Aereo Tedesco (in
numero in verità piuttosto esiguo) con compiti di scorta
antisommergibili, come predisposto da Marina Messina. Comunque,
durante la giornata non si verifica alcun evento degno di nota.
Alle
22.30 (per altra versione, alle 2.30 del 31) le motonavi, raggiunto
un punto prestabilito a nord del Golfo della Sirte, si dividono
nuovamente per raggiungere le rispettive destinazioni, ciascuna con
un cacciatorpediniere, che sono però scambiati rispetto a prima
della riunione: il Da
Recco fa rotta per Tripoli
con la Pilo,
l'Euro
per Bengasi con l'Allegri.
Durante
la notte, il gruppo Euro-Allegri
viene attaccato da aerei britannici e poi anche dal sommergibile
Proteus: colpita da un siluro, la Gino
Allegri salta in aria,
lasciando soltanto una ventina di superstiti su circa trecento uomini
a bordo. Così Cocchia descrive la sua fine in "Convogli":
“Nella notte, poco prima
dell'alba, ci separammo e, mentre il Da Recco proseguiva col Pilo per
Tripoli, la «L», scortata dall'Euro, diresse per Bengasi. Non erano
passati forse 20 minuti dalla separazione che, in direzione
dell'Euro-«L», vedemmo chiari i segni di un attacco aereo. Lancio
di bengala, rabbioso fuoco antiaereo e intorno una forte vampata
della quale capimmo anche troppo bene il significato. Intercettammo
subito dopo le comunicazioni radio con le quali Cigala informava
Supermarina di essere stato attaccato da velivoli e che la «L» era
saltata in aria. Aveva a bordo diverse migliaia di tonnellate di
munizioni e, una volta colpita da una bomba, non potevano esserci
dubbi sulla sua sorte”.
31
maggio 1942
Alle
4.25 Pilo e Da
Recco (che la precede
a 1-2 miglia compiendo ampi zig zag) vengono avvistate, in posizione
33°34' N e 18°30' E, dal sommergibile britannico Taku (capitano
di corvetta Jack Gethin Hopkins), rispetto al quale si trovano a
cinque miglia di distanza su rilevamento 230°. Il sommergibile si
avvicina a tutta forza in superficie, poi alle 4.40 s'immerge e
prosegue nell'avvicinamento, sempre alla massima velocità.
Alle
4.43 il Taku lancia
tre siluri (un quarto non parte per un problema ad una valvola del
tubo numero 6) contro la Pilo,
la cui stazza è stimata da Hopkins in 7000 tsl, dall'eccessiva
distanza di 5500 metri: la presenza del Da
Recco gli impedisce di
avvicinarsi di più.
Hopkins
affermerà nel rapporto di aver avvertito una forte esplosione alle
4.51 e successivamente – dopo essere sceso in profondità subito
dopo il lancio perché il cacciatorpediniere stava tornando indietro
ed essere poi tornato a quota periscopica – di aver visto al
periscopio bagliori e un po' di fumo su rilevamento 130° (nella
direzione in cui si trova la Pilo), seguiti da una nuova,
violenta e vicina esplosione da egli attribuita ad una bomba di
profondità; in realtà nessuna nave è stata colpita, e l'attacco
non è anzi nemmeno notato.
Da
Recco e
Pilo raggiungono
indenni Tripoli alle 12.45.
4
giugno 1942
Da
Recco (caposcorta) e
Zeno partono
da Tripoli per Napoli alle 00.10, scortando le
motonavi Unione e Ravello.
5
giugno 1942
Il
convoglio giunge a Napoli alle 15.
Giugno
1942
Nella
seconda settimana del mese il Da
Recco passa cinque giorni
fermo per alcuni lavori all'apparato motore. Questi sono già
conclusi, e la nave è rifornita e operativa, quando giunge la
notizia che un grosso convoglio britannico è in navigazione verso
Malta: una forza navale italiana, unitamente ad aerei e sommergibili
italiani e tedeschi, sarà inviata ad intercettarlo, dando inizio
alla grande battaglia aeronavale di Mezzo Giugno. Secondo Aldo
Cocchia, “sul Da Recco il
desiderio di parteciparvi era vivissimo in tutti. Il nostro
cacciatorpediniere, rimesso a nuovo, vibrava di uno spirito
entusiastico che ci rendeva anelanti di misurarci col nemico
(…) eravamo tutti convinti
di aver fatto del Da Recco un buon strumento di guerra; ora volevamo
paragonarlo nel confronto col nemico…”.
Tuttavia, il Da Recco
non è tra le navi scelte per far parte della forza navale inviata ad
attaccare il convoglio britannico, e riceve invece ordine di cedere
la sua nafta al gemello Ugolino
Vivaldi, caposquadriglia
della XV Squadriglia Cacciatorpediniere, che invece è tra esse.
“Vedemmo uscire in mare
per la battaglia tutti i cacciatorpediniere che erano a Napoli, noi
soli restammo in porto, non ho mai capito il perché”.
14
giugno 1942
Il
giorno successivo alla partenza da Napoli delle navi destinate a
partecipare alla battaglia di Mezzo Giugno, anche il Da
Recco viene fatto partire,
ma diretto a Messina, con il compito di tenersi pronto ad uscire in
soccorso ad eventuali navi danneggiate nel combattimento. Il suo
intervento non sarà richiesto; mentre è all'ormeggio a Messina, il
Da Recco
ha la ventura di intercettare una colorita conversazione radio tra
piloti britannici, che si accusano a vicenda per il fallimento di un
attacco aerosilurante contro le navi italiane, così riassunta da
Aldo Cocchia: “I siluranti
accusavano i bengalieri di non saper fare il loro mestiere e questi,
di rimando, imputavano a quelli di arrivare sempre troppo tardi”.
20
giugno 1942
Il
Da Recco (caposcorta,
capitano di vascello Aldo Cocchia) parte da Napoli per Tripoli alle
2.30 (per altra fonte alle 2 od alle 2.45) insieme al
cacciatorpediniere Strale (capitano
di corvetta Oderisio Maresca) ed alla torpediniera Centauro,
scortando la motonave italiana Rosolino
Pilo
(che ha a bordo 2892 tonnellate di materiali vari, munizioni e
materiali d'artiglieria, 25 tonnellate di carburante e lubrificante,
un pontone da 554 tonnellate, 135 tra veicoli e rimorchi, quattro
carri armati e 153 militari) e la tedesca Reichenfels (con
a bordo 3671 tonnellate di munizioni, materiale d'artiglieria e
materiali vari, 613 tonnellate di carburante e lubrificante, 241 tra
automezzi e rimorchi e 137 uomini). Il convoglio segue una rotta,
stabilita da Supermarina, che passa tra la Tunisia e l'isola di
Zembra, passa a circa un miglio da Capo Bon e percorre il Canale di
Sicilia, ad una velocità di 15 nodi; l'arrivo a Tripoli è previsto
per le 21.30 del 21.
In
questo caso “ULTRA” si attiverà in ritardo, riuscendo solo il
giorno seguente ad intercettare e decifrare una comunicazione
riguardo al convoglio, troppo tardi per influire sul corso degli
eventi che comunque arrideranno egualmente ai britannici.
Dalle
memorie di Aldo Cocchia: “…avevo
un preciso presentimento che questa volta le cose non sarebbero
andate bene. Presentimento
(…) motivato
(…) da un elemento
positivo e tangibile: la composizione della scorta. Mi avevano
assegnato il Centauro, buona torpediniera, e lo Strale, brutto
cacciatorpediniere. Il comandante dello Strale, capitano di corvetta
M[aresca],
era stato per lungo tempo destinato a terra e pare che dovesse essere
definitivamente escluso dal comando navale quando dal ministero,
cedendo alle domande che egli, mosso da nobile impulso, aveva
reiteratamente avanzate, finì col nominarlo comandante dello Strale.
Era questa la prima missione che M. faceva con la sua unità e mi
parve molto perplesso sin da quando lo convocai per la consueta
riunione dei comandanti. A bordo aveva tutti ufficiali di complemento
poco pratici e anche, a quanto potei capire, scarsamente affiatati
fra di loro e con il comandante.
(…) [Alla partenza da Napoli] lo
Strale mi diede subito la misura delle sue scarse possibilità
stentando ad uscire, accendendo il proiettore quasi per aprirsi una
via, chiedendo infine più volte l'accensione dei fanali di via
mentre, come è ovvio, dovevamo navigare a fanali spenti. La sua
posizione era su uno dei fianchi del convoglio, ma ve lo vidi così
incerto che lo mandai di poppa e ve lo tenni fino all'alba. In quella
posizione non serviva a niente, ma almeno non poteva causare danni”.
21
giugno 1942
Fino
alle 00.47 il convoglio mantiene la prua sul faro di Capo Bon (rotta
vera 88°) con Da
Recco in testa,
seguito da Reichenfels al
centro e Pilo in
coda in linea di fila (la distanza tra Da
Recco e Reichenfels
è di mille metri, quella tra Reichenfels
e Pilo
di settecento), con lo Strale in
scorta laterale sulla dritta e Centauro in
scorta laterale sulla sinistra, a circa 700 metri dalle due
motonavi. A quell'ora, come prestabilito, il comandante Cocchia
ordina di passare a rotta vera 68° ed ordina allo Strale di
accostare a sinistra ed accodarsi alla Pilo per
non passare troppo vicino alla costa (anche sulla scorta della
cattiva esperienza con questa nave la notte precedente); il
cacciatorpediniere, tuttavia, accosta invece a dritta e, all'una di
notte, s'incaglia sulle secche presso Ras el Ahmar, a 3 km dalla
rotta che avrebbe dovuto seguire.
Saputo
dell'accaduto (“[lo Strale]
mi segnalò con la radio che
era incagliato a Ras el Amar. Lì per lì non seppi assolutamente
capire come fosse andato a finire su quella punta da cui il convoglio
era distante almeno due miglia…”),
Cocchia distacca la Centauro
per assistere lo Strale
(che non potrà essere disincagliato, ed andrà così perduto),
informa Supermarina del tutto e poi prosegue con il solo Da
Recco
scortando Pilo e Reichenfels.
Supermarina risponde ordinando a Marina Tripoli di inviare incontro
al convoglio le torpediniere Circe
e Generale
Antonio
Cantore
in rinforzo alla scorta; Cocchia riterrà in seguito che il traffico
radio intercorso tra Da
Recco, Supermarina e
Tripoli abbia permesso ai britannici di radiogoniometrare la sua
posizione.
Sorto
il sole, il tempo è bello, con ottima visibilità; in tarda
mattinata vengono avvistati bassi sull'orizzonte alcuni aerei in volo
verso il convoglio a bassa quota, e nel dubbio sulla loro
nazionalità, Cocchia fa sparare alcuni colpi di cannone nella loro
direzione, pur essendo essi fuori tiro. Subito gli aerei si sbandano
e si allontanano; Cocchia concluderà che fossero probabilmente aerei
da trasporto tedeschi.
Sempre
in mattinata le tre navi, in navigazione nel Canale di Sicilia con
una scorta aerea di tre velivoli (un bombardiere tedesco Junkers Ju
88, un aerosilurante italiano Savoia Marchetti S. 79 “Sparviero”
ed un idrovolante italiano CANT Z. 501, quest'ultimo in funzione
antisommergibili), vengono avvistate da ricognitori Martin Maryland
del 69th Squadron,
e ripetutamente attaccate dagli aerei britannici di base a Malta.
A
mezzogiorno (le 12.55 per l'orario britannico, probabilmente avanti
di un'ora causa il fuso orario) si verifica l'attacco più intenso,
con ben nove aerosiluranti Bristol Beaufort del 217th Squadron
della Royal Air Force, guidati dal maggiore scozzese Robert Gran Lynn
(caposquadriglia); gli altri otto sono pilotati dai tenenti Arthur
Harold Aldridge (inglese) e William Joseph Stevens (canadese),
sottordini di Lynn, dal tenente R. B. E. Phillips, dal sottotentente
Jim McSharry e dai sergenti William Dennis Smyth, Desmond William
Fenton e Downe, ma uno di essi è dovuto tornare indietro prima di
raggiungere il convoglio. Gli aerosiluranti sono scortati, per la
prima volta, da sei caccia Bristol Beaufighter del 235th Squadron:
tre, guidati dal maggiore Alec Ernest Cook, in scorta ravvicinata, e
tre, al comando del maggiore William Charles Wigmore, per protezione
ad alta quota. Non è stato però concordato un piano d'azione comune
tra i Beaufort ed i Beaufighter, e tra gli equipaggi degli
aerosiluranti c'è chi teme che la presenza dei caccia sulla loro
verticale, più che essere d'aiuto, aumenti il rischio di essere
localizzati dai radar (non possono sapere, ovviamente, che il Da
Recco ne è sprovvisto) od
essere avvistati da grande distanza, complice il cielo sereno e
l'ottima visibilità.
Decollati
dalla base maltese di Luqa alle 11.15, gli aerei britannici attaccano
il convoglio – le cui navi sono disposte in linea di fila – dal
lato sinistro, da una posizione leggermente a poppavia del traverso,
con l'intenzione di lanciare contro entrambe le motonavi; volano a
soli 10-15 metri
di quota e sono divisi in tre sottogruppi di tre aerei ciascuno che
procedono affiancati, con gli aerei di ogni sottogruppo in linea di
fila. Il primo dei tre sottogruppi è guidato personalmente dal
maggiore Lynn, il secondo dal tenente Aldridge (protagonista, appena
sei giorni prima, del siluramento dell'incrociatore Trento
durante la battaglia di Mezzo Giugno) ed il terzo dal tenente
Stevens.
Quando
gli attaccanti giungono ad un miglio di distanza, il Da
Recco apre un violento
e preciso tiro contraereo (lo stesso fanno anche Pilo e Reichenfels)
ed abbatte dapprima il caposquadriglia degli aerosiluranti, che
precipita in fiamme, e subito dopo altri due Beaufort: tutto il primo
gruppo, quello del maggiore Lynn, viene spazzato via nel volgere di
pochi attimi. I Beaufort abbattuti sono il W6052 del maggiore Lynn,
l'AW342 del sergente australiano William Dennis Smyth (che rimane
ucciso insieme ad altri tre dei cinque membri dell'equipaggio), ed il
DD996 del tenente Phillips, che riesce invece ad ammarare e salvare
così la vita dei suoi uomini, che verranno poi recuperati da unità
italiane.
Da
parte britannica si afferma che solo Lynn e Phillips furono
direttamente abbattuti dal tiro del Da
Recco, a circa un minuto di
distanza l'uno dall'altro, mentre l'aereo di Smyth, che seguiva in
formazione quello di Lynn, sarebbe stato accidentalmente colpito dal
siluro staccatosi da quest'ultimo, oppure da quello sganciato
dall'aereo del sergente Downs. Secondo Alfred Aldridge, Lynn fu
colpito in pieno da un proiettile che lo uccise sul colpo, ed il suo
navigatore, il sottotenente Reginald Dickinson, tentò inutilmente di
prendere i comandi; l'aereo del caposquadriglia sbandò
violentemente, costringendo il sergente Smyth a compiere una brusca
virata per evitare una collisione (finendo così direttamente sotto
l'aereo di Aldridge, contro il quale andò quasi a sbattere:
avvertito dal suo mitragliere, questi prese precipitosamente quota
per evitare a sua volta di entrare in collisione con il Beaufort di
Smyth), perse il siluro e cadde in mare. Smyth, dopo aver evitato di
stretta misura una collisione prima con Lynn e poi con Aldridge, andò
addosso al siluro caduto dall'aereo del maggiore e “rimbalzato”
sulla superficie del mare, riportando danni tali da precipitare in
mare a sua volta. Più o meno nello stesso momento, Phillips venne
abbattuto dal Da Recco.
Reginald
Dickinson sopravvisse all'abbattimento dell'aereo di Lynn, insieme ai
sergenti Tom Frith, il mitragliere, e George Horn, l'operatore radio.
Così avrebbe ricordato, anni dopo, l'attacco e lo schianto:
“Volavamo; il mare
sembrava vuoto, l'acqua rifletteva l'immagine come un grande specchio
dorato, ma all'improvviso vedemmo i mercantili... e anche i caccia.
Scendemmo a 100 piedi [30
metri] per iniziare la cOrsa
d'attacco. L'acqua e il cielo iniziarono a eruttare mentre navi e
caccia cercavano di abbatterci mentre ci avvicinavamo al bersaglio,
in stile classico, dritti ed allineati a 100 piedi, pronti a lanciare
il nostro siluro. Spararono e per allontanarci dalla nave
attraversammo gli aerei della radio. Ci fu uno schianto. L'aereo si
riempì di fumo e Robert Lynn era morto ai comandi. Con le sue mani
che ancora tenevano la barra di comando tirandola indietro, l'aereo
prese quota mentre con l'equipaggio cercavo di staccarlo dai comandi
e prendere il controllo. Per un momento sembrò esserci una quiete da
cattedrale. Le navi erano a poppa, i caccia se n'erano andati e con
loro il resto della nostra squadriglia. In qualche modo, riuscii ad
afferrare i controlli. C'era qualcosa per cui essere grati. Stavamo
ancora volando a circa 1000 piedi
[300 metri]. Delicatamente
girai l'aereo verso Malta, chiedendomi se ci fossimo mai arrivati,
come sarei atterrato. Dopo cinque minuti di volo sapemmo che il
ritorno a Malta era improbabile. Il nostro motore era in fiamme, le
ali erano a pezzi, eravamo tutti feriti e l'aereo stava lentamente
perdendo quota, ma continuava a volare. Come noi, sembrava
aggrapparsi alla vita. Iniziammo ad andare in stallo. Abbassai il
muso del Beaufort ed a 240 nodi abbiamo toccammo la superficie del
mare. I controlli erano pesanti come il piombo. Il muso di perspex si
ruppe, un grande muro di acqua di mare ci inghiottì e sembrò
attutire l'impatto mentre venivo proiettato in avanti. Eravamo sotto
dell'acqua verde e poi improvvisamente tornò la luce del sole. Dai
loro posti, Tom il mitragliere e George l'operatore radio si
spostarono verso la coda per uscire e rilasciare il canotto. La mia
imbragatura era incastrata nel meccanismo dell'acceleratore, ma una
memoria d'infanzia mi ricordò di non dimenarmi, e via via che
l'acqua saliva all'altezza del petto, l'imbragatura galleggiò libera
e strisciai fuori dall'abitacolo. Tom si era mosso velocemente. Fuori
dall'ala aveva la mano sul rilascio contrassegnato con "Tirare
per rilasciare il canotto". Tirò e la maniglia gli rimase in
mano. Non ci sarebbe stato nessun canotto. Maledicemmo l'uomo che
aveva fatto la giunzione difettosa. L'aereo si era stabilizzato e
sapevamo che mancavano solo pochi secondi. Rapidamente noi tre
sopravvissuti ci lanciammo lontani mentre affondava silenziosamente
alla vista con Robert Lynn a bordo. Erano esattamente le 13:22, nel
mezzo del Mar Mediterraneo ed a 90 miglia dalla terraferma più
vicina. Ci raggruppammo insieme, gonfiammo i nostri Mae West
[nomignolo dei giubbotti
gonfiabili utilizzati dagli avieri della RAF, dal nome di una celebre
attrice dell'epoca] e
cercammo di esaminare le nostre ferite, e traemmo conforto
dall'annuncio di Tom che poco prima che ci schiantassimo, aveva
emesso un SOS”.
La
furibonda reazione del Da
Recco ha così scompaginato
la formazione attaccante; oltre ai tre aerosiluranti abbattuti, altri
due vengono danneggiati gravemente (per altra fonte sono tre i
Beaufort danneggiati, ma dagli aerei tedeschi della scorta aerea,
mentre altra versione accredita al Da
Recco l'abbattimento di
quattro aerei anziché tre), ma nonostante il violento fuoco
contraereo gli aerei superstiti riescono egualmente a lanciare i loro
siluri contro entrambe le motonavi.
Il
tenente Aldridge avrebbe così ricordato quei momenti nelle sue
memorie (“The Last Torpedo Flyers”): “…e
potevo vedere quei proiettili che arrivavano dalle navi nemiche –
non erano molto amichevoli, quei tedeschi
[sic]. (…) Quando vidi il
benvenuto che avevano preparato per noi sottoforma di quella
terribile, apparentemente impenetrabile barriera di fuoco contraereo,
fu il momento in cui la sentii. Quella sensazione di nausea, di vuoto
nello stomaco, l'estraneo non desiderato – la paura. Tutto quel che
potevo fare era continuare a volare, sapendo che i secondi a venire
sarebbero stati profondamente spiacevoli. Mi infilai nel fuoco
contraereo ad una velocità di 140 nodi. C'erano sbuffi di fumo
dappertutto e compresi di essere adesso al suo interno. Chiuso dentro
un muro di contraerea, che ci circondava, oscurando tutto. Sapevo che
un oblio più definitivo poteva arrivare in qualsiasi momento. Non
sentivo niente, neanche gli scoppi dei proiettili, perché avevo
indosso le mie cuffie. Le esplosioni non scuotevano l'aereo, né lo
invadevano con l'odore della cordite. Gli sbuffi di fumo, neri e
grigi e tutt'intorno a noi, ci privavano quasi dei sensi. Eppure
potevo vedere abbastanza da sapere perché avevo paura. Non potevano
avvicinarsi di più, quegli scoppi, o saremmo morti”.
Non aveva mai incontrato un tiro contraereo così intenso in vita
sua.
Secondo
Bill Carroll, mitragliere di Aldridge, “il
tiro contraereo era grigio, scoppiava qui, là, tutt'intorno, ma
almeno potevamo vederlo. I colpi che non vedi sono quelli che ti
colpiscono. Questi tedeschi erano molto bravi. C'era una differenza
enorme tra un mitragliere tedesco ed uno italiano. Questi erano
mitraglieri tedeschi e sapevano cosa stavano facendo. Un crucco stava
persino sparando colpi che rimbalzavano sulla superficie del mare,
una cosa che non avevo mai visto nessuno fare prima. Dico, stavano
sparando colpi deliberatamente in modo da farli rimbalzare contro la
superficie del mare. Ero nella mia torretta e quando guardai avanti
vidi che c'era contraerea dappertutto”.
Il commento di Carroll sulla maggiore abilità dei mitraglieri
tedeschi rispetto a quelli italiani risulta piuttosto ironico quando
si considera che i “tedeschi” che gli stavano sparando addosso
così bene erano in realtà gli italianissimi mitraglieri del Da
Recco.
Uno
degli ultimi siluri sganciati colpisce a prua (nella stiva numero 1)
il Reichenfels,
dopo aver corso con rotta quasi parallela a quella del mercantile
tedesco, da poppa verso prua. Forse l'aereo siluratore è quello del
tenente Aldridge, che ha sganciato la sua arma da 685 metri di
distanza e 24 metri di quota; egli scriverà nelle sue memorie:
“Superammo la barriera di
tiro contraereo (…) Non
so come ci ritrovammo ‘liberi', momentaneamente, ed a distanza
quasi perfetta per il lancio del siluro. La nave mercantile stava
compiendo manovre evasive, accostando in fuori verso dritta
(…) ciò significava che
non avrei dovuto mirare a proravia della nave per anticiparne il
percorso, neanche leggermente. Mira alla nave e normalmente la
mancherai perché non hai tenuto conto del suo movimento. Ma non
questa volta. Questa era lenta, e dopo quel che avevamo passato, ero
determinato a colpirla. Salii a quota compresa tra 60 e 80 piedi
[tra 18 e 24 metri] e mirai
alla prua (…) potevo
puntare alla giugulare, al punto di massimo danno. Sarebbe stato
perfetto. “È il momento giusto, Arthur. Qual è la tua distanza?
Ottocento iarde [730
metri]…
andato! Avevo premuto il
pulsante (…) e
sganciato il siluro da una distanza di circa 750 iarde
[685 metri] dalla nave. (…)
non c'era tempo per rimanere
e vedere cosa sarebbe successo. La contraerea era ancora orrenda. Si
trattava di rimanere vivi adesso. Ma ero scosso, e non stavo pensando
lucidamente. Volevo soltanto andarmene. Volevo andarmene il più
rapidamente possibile. Ero così scosso che feci una cosa stupida.
Nelle manovre evasive, normalmente si serpeggia da un fianco
all'altro. Questo è quel che avrei dovuto fare; intraprendere le
solite manovre evasive, scendere a pelo d'acqua serpeggiando mentre
mi allontanavo. Invece, come un idiota, mi feci prendere dal panico e
mi inclinai a dritta; mi inclinai tanto che offrii un bersaglio
migliore ad alcuni tedeschi
[sic] molto arrabbiati. Non
potevano mancarmi adesso… e non lo fecero.
(…) Un'esplosione!
Un'altra, una terza, ed una quarta! Eravamo stati colpiti da quattro
proiettili di cannoncino; vidi delle scintille volare e sentii il mio
aereo che andava fuori controllo. Un proiettile aveva colpito il
timone verticale di dritta della coda, un altro l'estremità dell'ala
di sinistra; ed un terzo aveva colpito il bordo anteriore dell'ala di
dritta, mettendo fuori uso uno degli alettoni. I cavi di controllo
degli alettoni di dritta erano stati tranciati, era probabilmente
questa la causa della mia perdita di controllo. Il proiettile che
aveva fatto più danni all'equipaggio aveva colpito uno dei
contenitori delle munizioni che Aspinall aveva tolto dal suo gancio e
messo sul pavimento. L'impatto del proiettile contro il contenitore
aveva creato schegge dall'esplosione del bossolo, ed un pezzo mi
aveva colpito. (…) Una
scheggia era entrata nel mio avambraccio destro. Non era molto
doloroso ma il sangue mi preoccupò per una frazione di secondo,
finché non mi resi conto che non c'era tempo di preoccuparsi, perché
sembrava che stessimo per cadere in mare. Eravamo a meno di 80 piedi
[24 metri] dalle onde
adesso. Ci saremmo finiti dentro. (…)
Quando riuscii a tornare in
rotta, volli verificare cos'era successo. “Asp, abbiamo messo a
segno un colpo? Ero un po' troppo occupato a lottare con i comandi
per sincerarmene”. “Sì! Ho visto il siluro esplodere sul lato
sinistro della nave; ma la cosa divertente è che ci sono state due
esplosioni” insisté Aspinall”.
Concluso
l'attacco, gli aerei britannici invertono poi la rotta per andarsene;
i tre aerei della scorta aerea del convoglio li attaccano (l'aereo
del tenente Stevens viene attaccato da degli Ju 88), ma vengono tutti
abbattuti dai Beaufighter (che rivendicano l'abbattimento di due Ju
88; per altra fonte avrebbero fatto parte della scorta aerea del
convoglio anche due bimotori FIAT CR. 25, pilotati dal tenente pilota
Pietro Rindone e dal maresciallo pilota Fabrizio Dori, che avrebbero
rivendicato l'abbattimento di due Beaufort). Il tenente Aldridge,
mentre il suo mitragliere gli sta medicando la ferita, vede un caccia
tedesco attaccare un altro Beaufort e si avventa su di esso,
costringendolo a rinunciare all'attacco.
Il
pilota di uno dei Beaufort danneggiati, il sottotenente australiano
Jim McSharry (aereo L9799), viene gravemente ferito alla giugulare da
una scheggia (secondo fonti britanniche, durante lo scontro con i
caccia della scorta aerea) e cede i comandi al suo navigatore, il
connazionale sergente Alfred Leslie Augustinus; all'arrivo a Malta
McSharry, indebolito dalla perdita di sangue e tenendo chiusa la
ferita con una mano, riprenderà i comandi ed atterrerà con l'aiuto
di Augustinus. Nonostante la gravità della ferita e della perdita di
sangue, riuscirà a rimettersi completamente.
Anche
l'aereo del tenente Aldridge riesce ad atterrare a Luqa nonostante i
gravi danni subiti; Aldridge ricorderà nelle sue memorie l'estremo
pallore dei volti dei suoi uomini quando scesero dall'aereo, dopo che
avevano visto la morte in faccia nell'attacco al convoglio. Oltre a
lui, un altro membro dell'equipaggio del suo Beaufort era rimasto
ferito, anche se nessuno dei due in modo grave. Aldridge, che per
ironia della sorte è di parziali origini italiane ed ha passato la
sua infanzia in Italia (è nato vicino a Firenze, dove ha passato i
primi nove anni della sua vita), riceverà per quest'azione la sua
seconda Distinguished Flying Cross (“Il
tenente Aldridge ha attaccato del naviglio in diverse occasioni e
nonostante l'intenso tiro contraereo, ha ottenuto grandi successi.
Durante tre attacchi in giugno, nel Mediterraneo, ha colpito una nave
da guerra italiana, che è successivamente affondata, e ne ha messa
un'altra fuori uso. Nell'ultima occasione il tenente Aldrige ha
sfidato uno sbarramento di colpi estremamente violento”).
Con
notevole ottimismo, i piloti britannici si attribuiscono ben cinque
siluri a segno, due su ciascuna motonave ed uno sul Da
Recco ad opera di uno degli
aerei abbattuti. Similmente ottimista sarà la stima da parte
italiana sul numero degli aerei nemici abbattuti, ritenuti essere ben
sei.
Abbandonato
ordinatamente dall'equipaggio e dalle truppe tedesche imbarcate,
il Reichenfels affonda
in un quarto d'ora, senza perdite umane. Si tratta della prima nave
affondata dai Beaufort di Malta; sarà inoltre l'unico mercantile
perso da Cocchia per attacco aereo durante il suo periodo di comando
del Da Recco.
Aldo
Cocchia descrive vividamente l'attacco aereo e l'affondamento del
Reichenfels
nelle sue memorie: “Alle
12 precise, dalla stessa direzione di prima, apparve un altro gruppo
di aerei, anch'essi bassi sul mare, anch'essi puntati dritti su di
noi. Pensai subito trattarsi di un nuovo gruppo di velivoli da
trasporto ed esitai un istante a sparare, ma, quando li vidi
persistere veloci nella rotta di avvicinamento, aprii contro di essi
un intenso fuoco con tutti i sei cannoni da 120 dei quali il Da Recco
era dotato. Fu un tiro magiStrale. Alla prima salva tre degli
apparecchi precipitarono in mare, in fiamme; gli altri si aprirono un
po', ma continuarono nella rotta di avvicinamento. (…)
Continuai il rapido violento
fuoco delle artiglierie da 20, mie e dei mercantili. Il fortunato
tiro del Da Recco doveva però aver disorientato alquanto gli aerei
attaccanti che non fecero la classica manovra sui due fianchi del
convoglio, ma rimasero ammucchiati rendendo così il nostro fuoco
ancora più efficace. Intanto avevo fatto accostare in fuori i
mercantili e, col Da Recco, mi ero posto fra essi e gli aerei
assalitori. In breve il mare non fu che una ragnatela di scie di
siluri, mentre si facevano sempre più intensi la voce dei cannoni e
il coro delle mitragliere contraeree del Da Recco, del Pilo, del
Reichenfels. I due velivoli di scorta si gettarono brillantemente
nella mischia, ma furono in pochi secondi abbattuti entrambi dagli
apparecchi inglesi che ora, dopo aver lanciati i siluri, sorvolavano
le unità navali per spezzonarle. Sotto il tiro delle nostre
artiglierie però altri aerosiluranti si incendiavano l'uno dopo
l'altro e precipitavano in mare rigando di rosso il cielo
tutt'intorno a noi. I due piroscafi navigavano accoppiati volgendo la
poppa al teatro dell'azione, il Da Recco aveva evitato qualche siluro
e tutto sembrava terminato felicemente quando un siluro, proveniente
da poppa con rotta quasi parallela a quella dei piroscafi, colpì il
Reichenfels nella stiva di prora. Ebbi l'impressione che una maggior
prontezza di manovra da parte del comandante germanico avrebbe
permesso di evitare il siluro, magari a rischio di una collisione col
Pilo, ma in questi casi è molto difficile, per chi sta al di fuori,
giudicare esattamente. Dei 14 aerei attaccanti ben 6 [sic]
erano stati abbattuti (…)
Tutta l'azione era durata
esattamente due minuti (…)
Il Reichenfels prese di
colpo un certo appruamento per l'acqua che aveva fatto irruzione
nell'interno attraverso lo squarcio del siluro, ma poco, solo qualche
grado, poi il movimento si arrestò e il piroscafo rimase fermo,
immobile sul mare, lievemente sbandato. Sembrava dovesse
sopravvivere: si ebbe la sensazione che le paratie reggessero la
pressione che esercitava il mare
(…),
pareva che fosse possibile
salvarlo. Chiamai più volte col radiotelefono in ultracorte, sia
perché volevo conoscere l'esatta situazione del piroscafo, sia per
dare ordine che fosse tentata qualche manovra intesa a tamponare la
falla e a puntellare, dalle stive adiacenti, le paratie del locale
allagato, ma nessuno rispose. I radiotelegrafisti avevano abbandonato
il posto e, del resto, l'intero equipaggio cominciava già ad
abbandonare la nave. Si vedeva che il comandante considerava il
piroscafo ormai perduto. Il tempo era il migliore che si potesse
desiderare, cosicché il personale del piroscafo non ebbe nessuna
difficoltà a mettere in mare tutte le imbarcazioni e a scendervi
piuttosto rapidamente, per quanto senza disordine. Alcuni si
gettarono direttamente in acqua facendo affidamento sulle cinture di
salvataggio. Mi avvicinai col Da Recco al Reichenfels per tentare un
rimorchio e perché volevo trasbordarvi mio personale che cercasse di
fare quant'era possibile per salvarlo, ma, proprio quand'ero giunto a
pochi metri dalla nave ferita, l'appruamento del piroscafo prese ad
accentuarsi, dapprima lentamente, poi con rapidità sempre maggiore.
Le paratie si erano evidentemente sfondate ed ora si andava allagando
la stiva numero due. Non c'era più niente da fare se non
allontanarsi un po' col Da Recco per evitare che il piroscafo
nell'affondare, il che ormai appariva inevitabile, avesse a causarmi
qualche grosso guaio, e disposi a salvare la gente che era in mare
impiegando allo scopo anche la motobarca del Da Recco
(…) nel frattempo vari
natanti del Reichenfels, Lance, zattere, zatterini, battellini, si
avvicinavano per conto loro al mio cacciatorpediniere, lo
circondavano da ogni parte, l'abbordavano mentre coloro che erano in
acqua nuotavano verso di noi o verso la motobarca. La temperatura era
mite, il mare perfettamente calmo, tutto procedeva molto
disciplinatamente senza che nessuno si agitasse o desse segni
d'impazienza; senza grida, senza invocazioni di aiuto. La mia
motobarca faceva la sPola fra i vari gruppetti di naufraghi e da tale
imbarcazione e da quelle del piroscafo i germanici montavano a bordo
del Da Recco, si distendevano in coperta, si sistemavano come
potevano. La prua del Reichenfels era ormai ricoperta dal mare;
l'irruzione dell'acqua si faceva sempre più violenta nei vari locali
interni dai quali scacciava con forza l'aria che sfuggiva, attraverso
le connessure dei boccaporti, con un acuto sibilo quasi la nave
ansimasse nelle strette dell'agonia. Dal di fuori seguivamo le fasi
dell'affondamento minuto per minuto, con la gola chiusa, i lineamenti
tirati, la bocca arida, come si assiste agli ultimi istanti di una
persona cara. Vedemmo l'acqua giungere al ponte di comando mentre la
poppa si sollevava lentamente e la prua s'immergeva sempre più fino
a toccare il fondo del mare che, in quel punto, era di circa 40
metri. Lo scafo rimase allora un istante come in bilico, poi, facendo
perno dove aveva toccato, si abbatté adagio su un fianco. Dalla
coperta, portati dalla spinta di galleggiamento, si staccarono alcuni
grossi carri cisterna che poi rimasero abbandonati sul mare. D'un
tratto un urlo gutturale, aspro, prima sommesso, poi sempre più
possente – dominante su tutti i rumori che ci circondavano – alla
fine rauco, strozzato. La massa di aria, racchiusa nello scafo,
sfogava attraverso il fumaiolo e le tubolature della sirena: il
grosso piroscafo ci diceva il suo addio con voce che sembrò non di
cosa, ma ruggito di belva uccisa che, prima di spirare, si ribelli
alla sua sorte. Scomparve il fumaiolo, la superficie del fianco
emerse pian piano, poi la linea del mare fu rotta soltanto da un
rapido affiorare di bolle di aria. Più nulla”.
Da
notare che le fonti britanniche affermano che la Reichenfels,
carica di munizioni, sarebbe affondata con una “spettacolare
esplosione”, affermazione in realtà priva di fondamento.
La Pilo prosegue
da sola verso Tripoli, mentre il Da
Recco recupera tutti
gli uomini imbarcati sulla nave tedesca, 246 (nel ricordo di Cocchia,
circa trecento, sistemati in “ogni
spazio disponibile, dal ponte di coperta alla plancia, dagli alloggi
alla stazione direzione del tiro, ovunque fosse un buco disponibile,
tanto da darmi l'impressione che a bordo non ci sarebbe entrato
neppure un uomo in più”),
ed alcuni superstiti degli aerei abbattuti: i quattro uomini
dell'equipaggio dello Ju 88 abbattuto dai Beaufighter, l'unico
sopravvissuto del Beaufort di Smyth (il sergente australiano Keith
Howard Lugano Dodd, navigatore dell'aereo abbattuto; secondo Dodd
anche un altro membro dell'equipaggio di questo velivolo, il sergente
Fred Heaton Walls, sarebbe
inizialmente sopravvissuto, per
poi morire in ospedale a
Tripoli il 26 giugno per le ustioni riportate) e tutto l'equipaggio
di quello di Phillips, che è riuscito ad ammarare (secondo le
memorie di Cocchia, gli avieri nemici recuperati dal Da
Recco furono soltanto due,
un canadese ed un neozelandese, mentre altri furono recuperati dalla
nave soccorso Laurana
inviata da Tripoli, ed un idrovolante italiano salvò i superstiti
dell'S.M. 79 abbattuto). Il pilota dello Ju 88 regala a Cocchia il
suo salvagente (“…che
però, grazie a Dio, non ho poi mai avuto occasione di adoperare”)
in segno di gratitudine.
Ultimati
i soccorsi, il Da Recco
lascia la zona (“sul mare
galleggiavano numerosi rottami di aerei e molti materiali che
emergevano a poco a poco dal Reichenfels. Fra gli altri, i magnifici
carri cisterna che piangeva il cuore dover lasciare così
(…) anche le Lance e le
zattere di salvataggio che non potei mettere sul Da Recco per ragioni
di tempo e di spazio (…)
ma c'era già chi pensava a
trarne profitto. Non eravamo infatti ancora andati via che numerose
imbarcazioni tunisine venivano dalla vicina costa verso i relitti per
far bottino. Per le popolazioni
rivierasche i tragici avvenimenti ripetutamente svoltisi in quello
specchio di acqua devono aver costituito una specie di inesauribile
miniera”) e raggiunge la
Pilo,
con la quale arriva a Tripoli alle 20.40 dopo che le due navi sono
state raggiunte, nell'ultimo tratto, da Circe e Cantore,
salpate da Tripoli alle sei del mattino.
Il
comandante Cocchia verrà decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor
Militare, con motivazione: "Comandante
di silurante, di scorta a convoglio, durante violento e prolungato
attacco di numerosi aerosiluranti e bombardieri nemici, manovrava con
sereno ardimento e perizia per meglio intervenire con le armi di
bordo nella reazione contraerea, contribuendo all'abbattimento di sei
velivoli. Si prodigava poi nell'opera di soccorso ai naufraghi di un
piroscafo colpito da siluro, traendo in salvo numerose vite umane".
I
tre superstiti dell'aereo di Lynn, il sottotenente Dickinson ed i
sergenti Frith ed Horn, vanno alla deriva per tutta la notte: Frith,
che è ferito, muore prima dell'alba. Horn e Dickinson vengono
salvati dopo ventiquattr'ore in acqua dal fischietto da arbitro di
Horn, che il giorno prima della missione ha fatto da arbitro in una
partita a calcio tra avieri: il giorno seguente, quando avvistano una
piccola imbarcazione italiana inviata a cercare i superstiti di un
aereo italiano abbattuto, Horn riesce ad attirarne l'attenzione
grazie al fischietto, che aveva ancora in tasca. I due passeranno il
resto della guerra in un campo di prigionia; il corpo di Frith,
portato a riva dalle onde quasi 40 giorni dopo ed identificato grazie
alla piastrina, sarà sepolto dalle autorità italiane a Tripoli.
Reginald Dickinson racconta così le ventiquattr'ore passate in acqua
dopo l'abbattimento dell'aereo: “Il
pomeriggio si trasformò in sera, il vento aumentò, le onde
diventarono più alte e poi un idrovolante della Croce Rossa volò
subito sopra di noi. Sembrava così vicino. Lo salutammo con le mani.
Gridammo, ma proseguì per la sua strada. Poi venne la notte. Era
freddo e buio. Forse non eravamo così lontani dalla terraferma come
pensavamo. Riuscivamo a vedere le luci, ma era difficile vederci,
quindi con le corde dei nostri Mae West ci legammo insieme. Nessuno
si sarebbe perso durante la notte. Non ci fu conversazione. Sembrava
inutile parlare e la piccola ruota di corpi si spingeva lentamente
verso il miraggio della luce che tremolava all'orizzonte. Faceva più
freddo, ma l'acqua salata era un balsamo per le ferite. Poi sorse la
luna e tutto divenne argentato. Per la prima volta da molte ore
potevamo rivederci, ma Tom era sdraiato. Era morto silenziosamente
durante la notte. Senza una parola lo slegammo e guardammo il suo
corpo fluttuare lentamente via mentre sguazzavamo verso... il nulla.
Quando venne il mattino, avevamo compagnia. Un fumogeno galleggiante
giallo e verde proveniente dall'aereo. Tutto il nostro nuoto era
stato inutile, eravamo trasportati dalla corrente e come noi anche il
fumogeno galleggiante. Il mare avrebbe deciso la nostra destinazione.
Il sole sorse e il nostro morale andò migliorando. Forse l'SOS era
arrivato, forse qualcuno ci avrebbe visto. Ma si poteva davvero
crederci quando a perdita d'occhio non c'era altro che mare? Mi
ricordai di una battuta della Ballata del Vecchio Marinaio. Il sole
sorgeva, faceva più caldo, il cielo era azzurro e noi aspettavamo,
tenuti a galla dalle nostre Mae West, come se fossimo sedute su due
poltrone. Non aveva senso cercare di nuotare da nessuna parte, la
corrente era al comando. Il giorno passava e il sole diventava più
caldo e la mente cominciava a vagare. “Qualcuno potrà immaginare
dove sono ora? La squadriglia ci ha dati per morti?” Sembrava
inutile essere ottimisti, ma poi pensai “Se devo morire, perché
aspettare? Cosa c'è di peggio di un'esperienza lunga e protratta che
deve inevitabilmente finire con la morte?” L'unica cosa che mi
teneva in vita era il Mae West. Se l'avessi sgonfiato, avrei
continuato a nuotare finché le forze non fossero venute meno. Perché
non bere acqua di mare, poi sgonfiarlo e affondare? Provai a bere
acqua di mare. Sembrava placare la mia sete, e all'improvviso l'idea
di bere sempre di più sembrò una buona idea. George, a pochi metri
da me, nel bel mezzo di questo enorme palcoscenico di mare aperto, fu
improvvisamente preso dai suoi pensieri. Dalla tasca della tunica
estrasse delicatamente una foto della sua fidanzata, Alice. Un
litigioso corteggiamento aveva quasi messo fine alla loro storia
d'amore prima che lui lasciasse l'Inghilterra. George solennemente ed
a 90 miglia dalla terraferma iniziò a parlare con Alice. "Tornerò",
disse e la conversazione andò avanti. Era con Alice e all'improvviso
bere acqua di mare non sembrò una buona idea e ricominciammo a
parlare. George mi disse dei suoi progetti di sposarsi, se mai avesse
superato la guerra. Stavamo ancora parlando di Alice quando, in
lontananza, vedemmo un movimento. Poteva essere una nave? Lo era. Di
che tipo, non riuscimmo a capirlo. Ci avrebbe visti? Sembrava
allontanarsi, poi tornò verso di noi. Si avvicinò un po' ma
sembrava ancora una barca giocattolo. Con le poche forze che ci erano
rimaste salutammo e gridammo ma di nuovo cambiò rotta,
allontanandosi da noi, e poi George si ricordò. Tirò fuori un
fischietto dalla tasca e soffiò. Era stato solo il giorno prima,
dopo la sua inevitabile partita di calcio, che qualcuno gli aveva
detto di tenersi il fischietto: "Era stato l'arbitro più
schifoso che avesse mai visto!" George soffiò e soffiò e
soffiò e all'improvviso la nave si stava dirigendo verso di noi.
C'erano voci, voci italiane. Erano passate solo 24 ore da quando ci
eravamo schiantati”.
.jpg)
Sopra,
recupero
del pilota dell’aerosilurante abbattuto da parte del Da
Recco (da
“Convogli” di Aldo Cocchia);
sotto, salvataggio dei naufraghi del Reichenfels
(da “Focus”, via www.pietrocristini.it)
3
luglio 1942
Il
Da Recco (caposcorta)
e la torpediniera Lince
partono da Tripoli a mezzogiorno per scortare a Brindisi le motonavi
Sestriere
e Vettor Pisani.
4
luglio 1942
Alle
14 la scorta viene rinforzata dalla torpediniera Calatafimi.
Verso le 19 le navi si uniscono al convoglio «M» (motonave Rosolino
Pilo,
torpediniere Castore, Polluce, Pegaso ed Antares)
partito da Bengasi, del quale entrano a far parte; il Da
Recco assume il ruolo di
caposcorta del convoglio unico così formato.
5
luglio 1942
Alle
7 si unisce alla scorta la torpediniera Sagittario;
alle 8.30 si aggrega al convoglio anche il
cacciatorpediniere Giovanni
Da Verrazzano, che lo
lascia però dopo tre ore. In base a disposizioni
prestabilite, Polluce e
Sagittario
lasciano la scorta rispettivamente alle 24 del 5 ed alle 5.30 del 6,
per andare l'una a Patrasso e l'altra a Taranto.
6
luglio 1942
Il
convoglio giunge a Brindisi alle 14.
È
con ogni probabilità riferito a questo viaggio il seguente passaggio
delle memorie di Aldo Cocchia: “Una
volta (…) alla
scorta ai miei ordini furono aggiunte in mare ben cinque siluranti
che non sapevo nemmeno da chi fossero comandate e, poiché alcune di
esse avevano gravi deficienze nei mezzi di comunicazione, ci volle
del bello e del buono prima di riuscire a metterle a posto e prima di
far loro intendere quello che volevo che facessero. In genere i
comandanti di siluranti erano buoni e sapevano da loro quel che
dovevano fare e capivano al volo gli ordini e i segnali e le
situazioni (…) Tutto
dipendeva dalla fortuna del capo scorta: se si era fortunati si
avevano alle dipendenze tutti ottimi o buoni comandanti, in caso
contrario piovevano tra capo e collo topi d'ufficio, individui che
soffrivano il mal di mare soltanto a vedere una cartolina illustrata
del Golfo di Napoli e peggio.
(…) Dei cinque comandanti
che mi raggiunsero in mare, tre erano ottimi, uno buono, ma uno ce
n'era che sarebbe stato benissimo in un archivio o sulla burocratica
poltrona di un ufficio o in qualunque posto che non fosse il ponte di
comando di una torpediniera. Appena giunto a portata di segnale
iniziò una segnalazione fitta fitta per chiedere delucidazioni e per
dare pareri non richiesti e per dirmi quale era la sua autonomia e
via di seguito il tutto con segnali così prolissi come non li
avrebbe fatti nemmeno un usciere del Ministero della Marina, senza
mai dimenticare né il numero di protocollo, né il «con riferimento
a…». Avevo 10 unità in mare e se tutti avessero fatto come lui
l'intero stato maggiore del Da Recco non avrebbe potuto occuparsi di
altro che dei segnali delle unità dipendenti e forse non sarebbe
stato neanche sufficiente. Dovetti metterlo a tacere con un secco:
«Non fate segnali inutili», e allora si vendicò non tenendo più
il suo posto in formazione nonostante i continui richiami e alla
fine, giunto in porto, andò pure a protestare. Alla larga da simili
individui!”.
12
luglio 1942
Il Da
Recco (caposquadriglia,
capitano di vascello Aldo Cocchia) ed il Da
Verrazzano (capitano
di fregata Carlo Rossi) partono da Brindisi alle 14.30 (14 per altra
fonte), in missione di trasporto di 468 militari della Regia Marina e
della Milizia di Artiglieria Marittima diretti in Libia: il Da
Recco, in particolare, ha a
bordo 250 uomini della Marina che deve portare a Tobruk, da poco
riconquistata, mentre il Da
Verrazzano ha a bordo
218 tra uomini della Marina e della Milmart diretti a Bengasi. Le due
navi hanno inoltre a bordo oltre a 50.000 razioni di provviste
(equamente distribuite in egual numero tra le due unità) destinate
alla VIII Divisione Navale, stanziata a Navarino, dove faranno scalo
intermedio per consegnarle.
Dalle
memorie di Aldo Cocchia: “Navigare
senza il peso di un convoglio rappresentava per noi un simpatico
diversivo da tutti salutato con gioia, anche se il caccia era pieno
fino all'inverosimile di uomini, di sacchi e di cassette di viveri.
Si navigava ad alta velocità, si facevano esercitazioni, ci
prendevamo dei lussi che, quando c'erano i piroscafi, non potevamo
assolutamente permetterci”.
13
luglio 1942
Da
Recco e Da
Verrazzano giungono a
Navarino alle 7.30 (7.25 per altra fonte), consegnando le 50.000
razioni alla VIII Divisione. Alle 15 i due cacciatorpediniere
ripartono per la Libia, procedendo a 21 nodi e zigzagando fino al
tramonto. A mezzanotte si dividono, dirigendo l'uno (Da
Recco) per Tobruk e l'altro
(Da Verrazzano)
per Bengasi.
14
luglio 1942
In
navigazione ad alta velocità sulla rotta di sicurezza che porta a
Tobruk, il Da Recco
urta qualcosa con un'elica; l'urto (“più
che di un urto si era trattato di un leggero sfregamento”)
appare però di entità trascurabile, e le macchine continuano a
funzionare regolarmente. La nave prosegue quindi normalmente e giunge
a Tobruk alle 10.
Così
Aldo Cocchia descrive la devastazione di Tobruk, martoriata dai
bombardamenti e da due battaglie con annesse distruzioni operate dai
difensori prima di capitolare: “La
città e il porto erano sconvolti, rovinati, semidistrutti
(…) Non un edificio che
non fosse in pezzi. Dappertutto ammassi di macerie al punto che non
si capiva come uomini potessero viverci e operare. Nel porto relitti
di ogni genere semiaffondati dalle acque e qua e là grovigli di
reti, di boe, di gavitelli. Nell'angolo nordoccidentale della rada
l'enorme ammasso rugginoso dei resti del San Giorgio sul quale ancora
si ergevano i cannoni antiaerei da 100. Lungo le pendici della
costiera centinaia, forse migliaia di automezzi semidistrutti alcuni,
altri ancora in buono stato, abbandonati tutti. Spettacolo orrendo di
rovina e di distruzione”.
Sbarcati
i marinai, il Da Recco
riparte a mezzogiorno, ricongiungendosi col Da
Verrazzano (a sua
volta ripartito da Bengasi) alle 19.30 (19 per altra versione) dopo
di che entrambi proseguono in sezione a 20 nodi, zigzagando di
giorno. Il Da Recco
viene tuttavia colto da una grave avaria all'evaporatore della
macchina di prua: a causa del malfunzionamento di una valvola di
sicurezza, all'interno dell'evaporatore si forma una sovrapressione
che aumenta fino a provocarne lo scoppio. Con una motrice fuori uso,
il Da Recco
prosegue alla volta di Taranto assistito dal Da
Verrazzano.
16
luglio 1942
I
due cacciatorpediniere arrivano a Taranto all'una di notte. Qui il Da
Recco entra in Arsenale per
esaminare i danni all'evaporatore ed anche quelli causati dall'urto
con l'elica al largo di Tobruk: i tecnici dell'Arsenale concludono
che sia necessario sostituire sia l'evaporatore che l'elica. Mentre
per quest'ultima operazione basteranno tre giorni in bacino di
carenaggio, per rimpiazzare l'evaporatore e riparare i danni alla
macchina di prua occorrerà circa un mese.
Mentre
il Da Recco
è fermo per questi lavori, viene condotta un'inchiesta sia
sull'avaria alla macchina che sull'urto con l'elica; a condurla è,
nelle parole di Cocchia, “un
saccente ammiraglio, autore di soporiferi libri di etica navale”.
Il comandante del Da Recco,
pur sottolineando la naturalezza dell'inchiesta in sé, lamenta nelle
sue memorie l'insistenza e la pignoleria dell'innominato alto
ufficiale, che per un episodio minore come l'urto all'elica
interrogherà a più riprese pressoché tutto l'equipaggio,
presenterà questionari, chiederà promemoria e trascinerà le
indagini per oltre un mese, oltre la fine dei lavori, tanto che al
rientro a Taranto nelle successive missioni “ogni
volta che rientravamo in quel porto vedevamo agitarsi innanzi a noi
lo spettro dell'inchiesta impersonata in quel tale ammiraglio”.
14
agosto 1942
Il
Da Recco (capitano
di vascello Aldo Cocchia) e la torpediniera Polluce (tenente
di vascello Tito Livio Burattini) partono da Taranto alle 3.30
scortando la motonave Ravello,
diretta a Bengasi. Alle 10.30, al largo di Leuca, le navi si
congiungono con un secondo convoglio, proveniente da Brindisi e
diretto anch'esso a Bengasi, composto dalla motonave Lerici scortata
dalle torpediniere Castore (tenente
di vascello Gaspare Tezel) e Calliope (capitano
di corvetta Paolo Cocchi). L'unico convoglio così formato, sotto il
comando del capitano di vascello Cocchia, segue le coste della Grecia
occidentale, tenendosi molto ad est di Malta. Tutte le navi della
scorta sono munite di ecogoniometro.
Lerici
e Ravello
hanno complessivamente a bordo 3184 tonnellate di munizioni,
materiale d'artiglieria e materiali vari, 3602 tonnellate di
carburanti e lubrificanti, 216 tra automezzi e rimorchi, un carro
armato, quattro motolance e 197 militari del Regio Esercito.
Già
da qualche giorno, ben prima della sua effettiva partenza, il
convoglio è però oggetto delle attenzioni di “ULTRA”: il 10
agosto i decrittatori britannici hanno informato i loro comandi al
Cairo che Lerici
e Ravello
sarebbero dovute partire rispettivamente da Brindisi e Taranto per
riunirsi in mare alle 10.30 del 12, e che ad esse si sarebbe poi
unita anche la motonave Foscolo
(che si trovava al Pireo) per raggiungere Bengasi alle 8 del 14; dopo
che la partenza del convoglio è stata posticipata di
ventiquattr'ore, il 12 agosto “ULTRA” ha comunicato che la
partenza di Lerici,
Foscolo
e Ravello
è stata ritardata fino a nuovo ordine, ed il 14 ha precisato che
Lerici
e Ravello
sarebbero partite quel giorno, con arrivo previsto a Bengasi alle 8
del 16 agosto, indicando anche i dettagli della rotta che devono
seguire.
15
agosto 1942
Verso
le 16 il convoglio viene avvistato da ricognitori britannici, inviati
sia per “coprire” l'operato di “ULTRA” che per ottenere un
ultimo aggiornamento sulla posizione del convoglio; gli aerei ne
segnalano la posizione al comandante della 10th
Submarine Flotilla di Malta (capitano di vascello George Walter
Willow Simpson, detto “Shrimp”), che a sua volta invia ad
incontrarlo il sommergibile Porpoise
(tenente di vascello Leslie William Abel Bennington), in agguato poco
lontano. Supermarina intercetta e decifra a sua volta i messaggi dei
ricognitori britannici ed invia al caposcorta due messaggi urgenti
PAPA (Precedenza Assoluta sulle Precedenze Assolute) per avvisarlo di
essere stato scoperto da ricognitori, ma ciò non basterà ad
impedire l'attacco.
Il
Porpoise
avvista un oggetto dritto di prora alle 17.54, e s'immerge per poi
iniziare ad avvicinarsi: alle 18.08 avvista le navi del convoglio,
dapprima le due motonavi e dopo qualche minuto la scorta navale (che
identifica, erroneamente, come quattro cacciatorpediniere classe
Navigatori) e due velivoli della scorta aerea. Lerici
e Ravello
procedono in linea di fronte ad una distanza di circa 900 metri tra
di loro, mentre le unità della scorta sono disposte intorno ad esse
a mezzaluna (le siluranti “esterne” sono a circa 1350 metri di
distanza al traverso dei mercantili, quelle “interne” circa 900
metri a proravia del convoglio ed a 1800 metri di distanza);
Bennington stima la rotta del convoglio come 210°, e la velocità in
11 nodi. Alle 18.12, calata la distanza a circa 4600 metri,
Bennington decide di portarsi in una posizione tra i due mercantili e
di attaccare la motonave di sinistra (la Lerici,
di cui ha stimato la stazza in 7000 tsl); alle 18.18 il Porpoise
accosta per 120° e si avvicina alla Lerici
con rotta perpendicolare, ed alle 18.24 accosta per 100°, mentre una
nave della scorta (la silurante interna di dritta) gli passa di poppa
a soli 365 metri di distanza.
Bennington
decide di attaccare con un angolo di 70°, per evitare di essere
speronato dalla motonave di dritta. Alle 18.28, all'imbrunire, il
Porpoise
lancia due siluri contro la Lerici,
in posizione 34°45' N e 21°32' E (fonti italiane riportano invece
la posizione come 34°50' N e 21°30' E, circa 120 miglia a nord di
Ras Aamer, o 34°42' N e 21°35' E, cento miglia ad ovest/sudovest di
Creta; per fonte ancora differente, 140 miglia ad ovest di Creta) per
poi scendere a 24 metri e ritirarsi su rotta 230° alla massima
velocità.
Tutte
le unità della scorta sono munite di ecogoniometro, ma nessuna di
essa rileva la presenza del Porpoise:
a lanciare l'allarme antisommergibili è la Ravello,
che ha avvistato una scia di siluro. Questa motonave riesce ad
evitarlo con pronta manovra, ma la Lerici
non è altrettanto svelta ed alle 18.30 viene colpita da un siluro (o
forse anche due) a poppa, e rimane immobilizzata pur mantenendo una
buona galleggiabilità. Sperando di poterla salvare, dopo aver
comunicato l'accaduto a Supermarina ed al Comando della VIII
Divisione Navale a Navarino il comandante Cocchia ordina alla
Calliope
di prenderla a rimorchio ed alla Polluce
di dare la caccia al sommergibile (getterà in tutto una sessantina
di bombe di profondità, ma senza risultato, sebbene abbia
l'impressione di averlo danneggiato) e poi di assumere la scorta di
Lerici
e Calliope,
dopo di che Da Recco e
Castore
proseguono per Bengasi scortando l'illesa Ravello.
La Lerici,
le cui condizioni peggiorano durante la notte a causa di un violento
incendio divampato a prua e rapidamente estesosi al resto della
nave, dovrà infine essere finita l'indomani da una delle unità
inviate in aiuto da Navarino (il cacciatorpediniere Mitragliere,
arrivato con il gemello Bersagliere),
non essendo più possibile salvarla.
16
agosto 1942
Da
Recco, Castore
e Ravello
arrivano a Bengasi alle 8.30; alle 15 Da
Recco (caposcorta,
capitano di vascello Aldo Cocchia) e Castore
ne ripartono per scortare, insieme al cacciatorpediniere Saetta ed
alla torpediniera Orione,
le motonavi Nino Bixio e Sestriere che
rientrano in Italia con 2800 prigionieri di guerra ciascuna.
17
agosto 1942
Alle
15 il sommergibile britannico Turbulent (capitano di
fregata John Wallace Linton) avvista a 12.800 metri su rilevamento
160° il convoglio, scortato anche da diversi aerei.
Il
battello britannico è incappato nel convoglio mentre cercava la
Lerici,
che un messaggio trasmesso da Alessandria d'Egitto la sera precedente
dava come danneggiata in posizione 35°07' N e 21°005' E ed in corso
di rimorchio verso Navarino (i britannici non sapevano ancora che era
affondata); inoltre è stato informato anche dell'arrivo da sud del
convoglio Bixio-Sestriere,
del quale i comandi britannici hanno appreso tramite le decrittazioni
di “ULTRA” (pur sapendo che le due motonavi sono cariche di
prigionieri, hanno inviato il Turbulent
ad attaccarle).
Diversi
messaggi relativi al convoglio sono stati intercettati e decifrati
dai decrittatori britannici nei giorni precedenti (fin dal 7 agosto,
ben prima della sua effettiva partenza), in particolare quello delle
21.04 del 16 agosto e quello dell'1.17 del 17 agosto, che riferivano
che il convoglio riceverà una scorta aerea, e che fornivano dettagli
sulla rotta da seguire (partenza da Bengasi alle sette del 16 agosto,
velocità 17 nodi; il convoglio deve passare nei punti "Imeriza"
alle 20 del 16, "Gomma" all'una del 17, "Distanza"
alle 13.30 del 17 e "Niente" alle 22.45 del 17, per poi
seguire rotte costiere, con arrivo previsto per le tre del 18
agosto).
Da
queste decrittazioni i comandi britannici hanno appreso anche della
presenza, su Bixio e Sestriere,
di prigionieri Alleati; il messaggio dell'1.01 del 17 agosto, in
particolare, riferiva tra l'altro che "Bixio and Sestriere are
carrying prisoners".
Il Turbulent ha
ricevuto ordine di pattugliare le acque al largo di Navarino per
intercettare due convogli segnalati da “ULTRA”, che devono
passare in quella zona; il primo messaggio inviato da Alessandria
(dal Senior Submarine Officer Alexandria), trasmesso alle 9.20 e
ricevuto sul Turbulent alle
12.05 del 16 agosto, lo ha avvisato di «due
grosse navi in partenza da Bengasi»,
cioè Bixio e Sestriere,
e Linton ha stimato che se poco dopo il tramonto le due navi avessero
cambiato rotta per risalire il Mar Ionio, il suo sommergibile le
avrebbe potute agevolmente intercettare a sud di Navarino. Ha quindi
ordinato di cambiare rotta per andare ad intercettare il convoglio
segnalato, ritenendo che le sue probabilità di successo in questo
tentativo sarebbero state superiori a quelle di incontrare naviglio
nemico imboccando il canale di Cerigotto. Poco più di un'ora dopo,
alle 13.13, il Turbulent ha
ricevuto un messaggio delle 11.46 che gli ordinava di pattugliare le
acque al largo di Navarino senza fornire spiegazioni sul perché.
Alle 20.30 il Turbulent è
emerso ed ha fatto rotta per Navarino.
All'1.15
del 17 agosto il Turbulent ha
ricevuto un nuovo messaggio, trasmesso da Alessandria alle 19.25
della sera precedente, relativo ad una «nave
danneggiata rimorchiata da due cacciatorpediniere, alle 16.30 [15.30
ora italiana] del 16
in [posizione] 035°07' [N] 021°005' [E]
[velocità] 4-6 nodi,
probabilmente diretta a Navarino. Procedete per intercettarla a
vostra discrezione»: la
Lerici.
Intuendo correttamente che la nave stesse venendo rimorchiata verso
Navarino e non sapendo che è già affondata, i comandi britannici
l'hanno segnalata al Turbulent affinché
la attacchi.
Considerato
che la nave segnalata non sarebbe certamente potuta arrivare a
Navarino prima delle otto, e che non vi sarebbe arrivata più tardi
delle 18, Linton ha deciso di proseguire fino a Navarino per poi
risalire la probabile rotta di arrivo di questa nave, in modo da
avere anche una possibilità di intercettare il convoglio segnalato
dall'altro messaggio (cioè quello composto da Bixio e Sestriere).
Alle 5.10 il Turbulent si
è immerso, e più tardi in mattinata ha ricevuto un messaggio che
spiegava che non c'era traccia della nave danneggiata. Poi, alle tre
del pomeriggio, ha avvistato il convoglio del Da
Recco.
Alle
15.33 il Turbulent lancia quattro siluri da 3300 metri, per
poi scendere subito in profondità. Linton regola i siluri della
salva in modo da “coprire” entrambi i mercantili, che per la loro
posizione rispetto al Turbulent formano una linea quasi
continua nel periscopio; stima che si tratti di due moderne motonavi
di 7000-8000 tsl (ed ha ragione) e che siano in zavorra (ed ha
drammaticamente torto).
Una
delle armi, con giroscopio difettoso, torna indietro e compie tre
giri passando sopra il Turbulent,
ma alle 15.35 (o 15.30) altre due centrano la Nino
Bixio nel punto 36°36'
N e 21°30' E o 36°35' N e 21°34' E (a 19 miglia dal faro di
Sapienza e dodici miglia a sudovest di Navarino).
Al
momento del siluramento, il Da
Recco si è appena
allontanato dal convoglio per attaccare un contatto ottenuto
all'ecogoniometro: scrive Aldo Cocchia che “ho
appena cominciato le battute che vedo levarsi due enormi colonne
d'acqua sul fianco del Bixio”.
Abbandonata la caccia, il Da
Recco torna
precipitosamente verso il convoglio, evitando quella che a bordo
viene ritenuta essere la scia di un altro siluro, lanciato contro di
esso. Il Saetta
(capitano di corvetta Enea Picchio), per iniziativa del suo
comandante, sta già preparandosi a prendere a rimorchio la Bixio
per portarla verso Navarino, e Cocchia ordina anche all'Orione
di rimanere a dare assistenza alla motonave danneggiata (che riuscirà
faticosamente a raggiungere il porto greco, lamentando però ben 434
vittime tra il personale imbarcato, compresi 336 prigionieri). Da
Recco e Castore
proseguono invece con l'indenne Sestriere,
mancata dai siluri.
18
agosto 1942
Da
Recco, Castore
e Sestriere giungono
a Brindisi alle 17.
24
agosto 1942
Il
Da Recco (capitano
di vascello Aldo Cocchia) salpa da Brindisi scortando la
motonave Manfredo
Camperio, diretta al Pireo
con a bordo 260 uomini (truppe ed equipaggio) oltre ad un carico di
rifornimenti per le truppe operanti in Nordafrica.
Nella
notte le due navi attraversano il Golfo di Patrasso, mentre aerei
britannici attaccano il Canale di Corinto, poco lontano; il mattino
successivo, una bomba a scoppio ritardato lanciata durante
quell'incursione esplode sul ciglio del canale proprio mentre
la Manfredo Camperio vi sta transitando, ma fa solo
molto rumore e nessun danno.
26
agosto 1942
Una
volta al Pireo, Da
Recco e Camperio
formano un unico convoglio insieme ad un'altra motonave,
la Tergestea,
ed alle torpediniere Climene
(capitano di corvetta Raffaele Cerqueti) e Polluce
(tenente di vascello Tito Livio Burattini), provviste di
ecogoniometro come del resto il Da
Recco, che ricopre il ruolo
di caposcorta. In tutto le due motonavi hanno a bordo 816 tonnellate
di munizioni, materiale d'artiglieria e materiali vari, 221
tonnellate di carburanti e lubrificanti, 503 tra automezzi e rimorchi
e 401 tra ufficiali e soldati del Regio Esercito.
Il
convoglio lascia il Pireo alle 17, diretto a Bengasi con rotta che
passa tra Cerigotto e Creta e velocità 10,5 nodi. Il comandante
Cocchia considera che, essendo le due motonavi piuttosto lente, una
volta superata Creta il convoglio sarà in mare aperto per circa
ventiquattr'ore, trovandosi a dover percorrere il tratto al largo
della costa libica, quello più pericoloso, di notte invece che di
giorno, come lui avrebbe preferito. Se non altro, dato che
recentemente i sommergibili nemici hanno incrementato la propria
attività, Marisudest ha disposto un rastrello antisommergibili con
unità sottili nelle acque a sud di Creta (dove i sommergibili
britannici sono particolarmente attivi), con alcune unità munite di
ecogoniometro che pattugliano la rotta del convoglio per scongiurare
il rischio di attacchi.
In
tutto, ben sette mercantili sono partiti da Suda per il Nordafrica,
più o meno contemporaneamente, suddivisi in cinque convogli, con la
scorta complessiva di due cacciatorpediniere (più altri due
assegnati a scorta temporanea) e sette torpediniere (più altre due
assegnate a scorta temporanea).
All'insaputa
di tutti, però, il servizio di decrittazione britannico “ULTRA”
ha intercettato un messaggio della Luftwaffe riguardante le scorte
aeree da assegnare a questo ed ad altri convogli in mare
contemporaneamente: i comandi britannici sono così venuti a
conoscenza dei particolari su rotte ed orari dei convogli. In
particolare, già il 25 agosto “ULTRA” ha potuto segnalare che
la Camperio ha lasciato Brindisi alle 20 del 24 e si
doveva unire alla Tergestea, per attraversare il Canale
di Corinto il 26 mattina, imboccandolo all'alba ed uscendone alle 9,
per poi proseguire a 10 nodi verso Bengasi con arrivo previsto per le
12 del 28 agosto. “ULTRA” conferma il tutto con nuove
intercettazioni anche il 26 agosto.
In
base a queste informazioni il sommergibile britannico P 35
(poi ribattezzato Umbra), al comando del tenente di vascello
Stephen Lynch Conway Maydon, viene inviato in agguato vicino
all'imbocco del Canale di Cerigotto con l'ordine di intercettare il
convoglio.
27
agosto 1942
Alle
5.30 il convoglio viene raggiunto dalla scorta aerea della Luftwaffe,
e poco dopo avvista due cacciasommergibili tedeschi e la
torpediniera Orione
(dotata di ecogoniometro) facenti parte del rastrello
antisommergibili ordinato da Marisudest. Alle 6.20, poco dopo l'alba,
le due motonavi ricevono ordine di disporsi in linea di fronte
(Tergestea
a dritta, Camperio
a sinistra), il Da Recco
si porta in posizione di scorta laterale sinistra, la Climene
in posizione di scorta laterale dritta e la Polluce
di poppa; anche gli aerei di scorta eseguono rastrello
antisommergibili preventivo.
Alle
7.20 il P 35 avvista le navi italiane (sorvolate da due
aerei) su rilevamento 025°, mentre queste procedono a 10 nodi su
rotta 245°, ed inizia subito l'attacco; inizialmente ha avvistato
solo i mercantili e due delle navi scorta, identificandole
correttamente come appartenenti alle classi Spica e Navigatori, per
poi avvistare altre due siluranti verso nordest alle 7.37, ed anche,
alle 7.42, due aerei in volo sul cielo del convoglio. Alle 7.48, nel
punto 35°39' N e 23°05' E, il sommergibile lancia quattro siluri
contro la Camperio, il mercantile più vicino (di cui
stima la stazza in 5000 tsl), da 2740 metri di distanza. Il secondo
siluro (tubo numero 2), difettoso, non parte.
Alle
7.49 (o 7.51), poco dopo che l'Orione è
svanita all'orizzonte e senza che gli ecogoniometri delle navi della
scorta abbiano segnalato alcunché, la Camperio viene
colpita a poppa da uno o due siluri (secondo la storia ufficiale
dell'USMM uno, mentre il secondo viene visto passare ad una decina di
metri dalla poppa): per alcuni attimi si riesce a distinguere la scia
dell'arma sulla superficie del mare, mentre un'alta colonna d'acqua
si alza sul fianco della motonave, poi quest'ultima s'incendia.
Aldo
Cocchia avrebbe così descritto l'accaduto nelle sue memorie: “…io
mi sentivo piuttosto tranquillo la mattina del 27 quando, col mio
convoglio, uscii dal Canale di Cerigo. Erano le 8, l'Orione era da
poco scomparso all'orizzonte, il mio ecogoniometro non dava alcun
allarme, tutto sembrava tranquillo… D'un tratto sul fianco del
Camperio, proprio dalla mia parte, si levò un'alta colonna di acqua,
poi il piroscafo prese fuoco. Sulla superficie liscia del mare
apparve, per qualche istante, visibilissima, la scia del siluro
lanciato dal sommergibile”.
Subito
dopo il siluramento, Cocchia dirama gli ordini usuali per queste
circostanze: la Tergestea deve
proseguire ed allontanarsi scortata dalla Climene,
la Polluce deve
dare assistenza alla danneggiata Camperio e
recuperarne i naufraghi, mentre il Da
Recco darà la caccia
al sommergibile. Cocchia, per la quale la Camperio è
il terzo mercantile silurato in tre missioni di scorta consecutive, è
particolarmente determinato a non lasciarselo sfuggire: ben presto
ottiene un buon contatto all'ecogoniometro, ed anche i velivoli della
scorta aerea segnalano la presenza del sommergibile a poca distanza.
La Polluce
fa tutto quanto è in suo potere per salvare la motonave colpita,
mandando anche a bordo un gruppo di membri del proprio equipaggio per
collaborare allo spegnimento dell'incendio, ma invano: la benzina
contenuta nei serbatoi degli automezzi sistemati in coperta a poppa
alimenta le fiamme, che divampano con estrema violenza, ben visibili
anche dal Da Recco.
La Polluce
comunica via radio "Incendio appare indomabile".
Il
comandante Cocchia, che dal Da
Recco osserva i
tentativi di salvare la motonave, deve concludere che ormai non c'è
più nulla di recuperabile, e che anzi la Polluce,
perseverando nei suoi sforzi, rischierebbe di essere travolta da
un'eventuale esplosione del carico (che comprende un considerevole
quantitativo di munizioni): pertanto ordina a Burattini di lasciar
perdere la Camperio,
allontanarsi dalla pericolosa motonave in fiamme e limitarsi a
recuperarne l'equipaggio; indi lo libera dalle proprie dipendenze
autorizzandolo a comunicare direttamente con Supermarina per avere
ulteriori istruzioni.
Nel
mentre il Da Recco
risale la scia del siluro, localizza il sommergibile con
l'ecogoniometro, ed inizia a lanciare le bombe di profondità. Le
prime due scariche sono senza risultato; nel frattempo,
la Climene segnala
di aver localizzato all'ecogoniometro un secondo sommergibile (contro
il quale verrà poi inviata dal Pireo la torpediniera Orsa)
e di aver avvistato la scia di un siluro diretta verso il Da
Recco. Cocchia ordina
alla Climene di
cambiare rotta, in modo da uscire dalla zona pericolosa il prima
possibile, poi lancia una terza salva di cariche di profondità e
vede apparire in superficie delle tracce di nafta; tornato sulla loro
verticale, il Da
Recco lancia un'altra
salva di bombe di profondità e vede emergere una grossa colonna
d'aria accompagnata da nafta e rottami. Mentre il cacciatorpediniere
inverte la rotta per un ultimo attacco, l'equipaggio vede affiorare
quello che sembra essere il sommergibile capovolto, che scompare di
nuovo dopo pochi secondi. Ritenendo di aver affondato l'unità
nemica, il Da
Recco accelera al
massimo per ricongiungersi a Climene e Tergestea,
che raggiunge poco dopo le nove del mattino e con le quali prosegue
alla volta di Bengasi.
La
caccia è così rievocata nelle memorie di Cocchia: “Col
Da Recco intanto ero deciso a vendicarmi in qualche modo dei
sommergibili. Era il terzo piroscafo che, in tre successive missioni,
mi siluravano e volevo prendermi una rivincita. Risalii la scia del
siluro, iniziai le battute. L'ecogoniometro, che poco fa era stato
sordo, individuò ora ben presto l'unità nemica; mi permise di
localizzarla, di effettuare le prime salve di bombe
(…) la prima e la seconda
salva furono infruttuose, ma il sommergibile rimase sotto il nostro
controllo. (…) La
terza salva di bombe portò alla superficie del mare tracce di nafta.
Ci tornai sopra e alla quarta salva venne fuori acqua una gran
colonna di aria mista a rottami e nafta. Non c'era più dubbio: il
sommergibile era stato colpito. Mentre invertivo la rotta per dare il
colpo di grazia un grande urlo gioioso dell'equipaggio mi chiamò
fuori del ponte di comando. L'unità subacquea nemica era affiorata
per qualche istante capovolta, poi si era inabissata”.
In
realtà, la caccia del Da
Recco non ha arrecato
alcun danno al P 35,
che è rimasto immerso a 55 metri ed ha contato 29 esplosioni di
bombe di profondità dalle 7.57 alle 8.21: alle 8.50, anzi, il
sommergibile torna a quota periscopica, ed avvista
la Camperio appoppata,
che brucia furiosamente, e la Polluce che
le gira intorno.
Dieci
minuti dopo, anzi, Maydon dà ordine di iniziare a ricaricare i tubi
lanciasiluri, ma non ha il tempo di intervenire per finire la sua
vittima.
Dopo
aver completato il salvataggio dei naufraghi della Camperio
(255 uomini su 259 imbarcati, 37 dei quali feriti), la Polluce non
potrà far altro che accelerare, a cannonate, l'affondamento della
motonave in fiamme, che esploderà ed affonderà alle 12.28 nel punto
35°39' N e 23°07' E (o 35°41' N e 23°01' E, a ponente di
Cerigotto e trenta miglia ad ovest di Creta), a ponente del Canale di
Cerigotto e circa 35 miglia ad ovest di Capo Spada (Creta).
Alle
10.15, intanto, si aggrega al gruppo Da
Recco-Climene-Tergestea
il cacciatorpediniere Giovanni
Da Verrazzano, che dopo
aver compiuto ricerca antisommergibili è stato mandato a rinforzare
la scorta del convoglio perché sono stati segnalati dei bombardieri
diretti verso di esso. In realtà non si verifica alcun attacco
aereo, ed al tramonto il Da
Verrazzano viene
lasciato libero di tornare al Pireo.
Poco
prima del crepuscolo, mentre il convoglio procede verso Bengasi,
alcuni dei velivoli della scorta aerea segnalano qualcosa di anomalo
circa 7-8 miglia a proravia del convoglio: scendono in picchiata sul
mare, lanciano razzi e girano in tondo attorno ad un punto,
evidentemente cercando di segnalare qualcosa alle navi. Il seguito è
così descritto da Cocchia: “Mandai
il Climene verso il punto segnalato dai velivoli e, dopo un poco, ne
ebbi comunicazione che erano in vista zattere con naufraghi.
Accelerai l'andatura, scoprii anch'io le zattere e, mentre il Climene
si portava su una, io ne attraccavo un'altra. Sia su quella che avevo
presa io sia su quella della Climene c'erano due naufraghi ancora
vivi. Sparuti, bruciati dal sole di agosto, sfiniti da non reggersi
in piedi, ma vivi. Li tirammo a bordo. Altre due zattere che facevano
parte dello stesso gruppo erano vuote. I miei due naufraghi erano un
neozelandese ed un sudafricano; i due del Climene entrambi indiani,
tutti prigionieri britannici caduti o gettatisi in mare dal Bixio ben
15 giorni prima, quando la nostra motonave fu silurata fuori
Navarino. Erano 15 giorni che si trovavano in mare senza mangiare e,
quel che è peggio, senza bere. Non chiedevano che acqua. La
somministrammo a loro a goccia a goccia con un po' di zucchero e
cercammo per tutta la notte di far tornare un po' di vita in questi
esseri ridotti agli estremi. L'indomani mattina mi fu possibile
scambiare qualche parola con uno di loro. Originariamente su ciascuna
delle 4 zattere c'erano circa 25 uomini, forse 100 in tutto; non
erano riusciti a farsi scorgere dalle siluranti che, dopo
l'affondamento del Bixio, avevano perlustrato la zona e, piano piano,
le correnti li avevano spinti sempre più al largo allontanandoli
dalla costa dalla quale originariamente distavano una ventina di
miglia. Ad ogni giorno che passava il numero dei naufraghi si
assottigliava, ogni giorno qualcuno moriva di inedia, qualche altro
impazziva e si gettava in mare; tutt'intorno pullulavano i pescicani…
Un giorno l'uomo col quale parlavo aveva saputo ammazzare un pesce
con un colpo di remo, ne aveva bevuto il sangue, l'aveva mangiato
così come l'aveva preso e questo gli aveva ridato una certa forza.
(…) A Bengasi ebbi il
rapporto del Climene. Il racconto dei due indiani presi a bordo
coincideva con quello di coloro che avevo raccolto io. Uno dei due
indiani non aveva potuto però ingerire assolutamente niente perché
sulla zattera, preso dalla disperazione, aveva mangiato il kapok del
suo salvagente. Morì qualche ora dopo il nostro arrivo in porto. Gli
altri furono ricoverati all'ospedale di Bengasi”.
Il
punto in cui i naufraghi sono stati trovati dista 150 miglia dal
punto in cui la Bixio
era stata silurata.
28
agosto 1942
Da
Recco, Climene
e Tergestea
arrivano a Bengasi alle 11.45 (o 11.30). I naufraghi
della Bixio vengono
sbarcati e ricoverati nell'ospedale della città.
Alle
19 Da
Recco (caposcorta) e
Climene
ripartono insieme ai cacciatorpediniere Folgore e Saetta,
scortando le motonavi Foscolo e Ravello.
30
agosto 1942
Alle
6.30 il convoglio giunge al Pireo.
Al
termine di questa missione, il Da
Recco passa per qualche
tempo alle dipendenze di Marisudest, il Comando Gruppo Navale
dell'Egeo Settentrionale, con giurisdizione sull'Egeo. Questo teatro
è, rispetto alle contese rotte africane, relativamente tranquillo;
gli attacchi aerei sono rari ed inefficaci, quelli subacquei più
frequenti ma comunque molto meno rispetto al Mediterraneo centrale.
“La destinazione del Da
Recco al Pireo alle dipendenze di Marisudest”
scrive Aldo Cocchia “era
perciò comunemente considerata come una destinazione di riposo (…)
In effetti quel mese di
settembre che restammo in Egeo fu tutt'altro che di ozio: navigammo
molto e se, su trenta giorni, ne passammo otto in porto è molto.
Però è innegabile che in quel mare la tensione era minore che
altrove. In compenso le navigazioni erano estenuanti di noia per le
velocità ridicolmente basse che si era obbligati a tenere, dato il
tipo dei mercantili che ci davano da scortare. Più in giù di così
non si poteva andare nella graduatoria del naviglio. Bastimentini
lunghi un palmo che arrancavano faticosamente per riuscire a tenere
le folli velocità di 5 o 6 nodi; avarie a getto continuo, forme
strane come quell della cisterna germanica Ossag che porta sì e no
800 tonnellate di nafta e che aveva un fumaiolo così a poppa, ma
così a poppa che pareva dovesse cadere da un momento all'altro fuori
bordo. La scortai dal Pireo a Salonicco
(…) navigando a non più
di sei nodi. A Salonicco ci si andava volentieri per la faccenda del
prelevamento viveri. La sussistenza germanica di Salonicco era
particolarmente ben fornita e distribuiva i suoi viveri anche alle
navi italiane che ne facevano richiesta. Bastava un buono di
prelevamento (…) per
ritirare viveri nella stessa abbondante misura della razione dei
marinai tedeschi. (…) Ci
diedero oltre ai soliti generi (pasta, carne congelata e in scatola,
pane, ecc.) anche salumi in gran copia, uova, verdure, patate, e poi
sigari e sigarette e birra e perfino acqua minerale in bottiglie. Con
i generi prelevati a Salonicco ci facemmo un famoso miglioramento
rancio per un mese intero. (…)
la razione tedesca era molto
superiore alla nostra per qualità e quantità, ma non a tutti è
noto che la differenza era tale che quando marinai tedeschi venivano
sulle nostre navi per qualche missione, piuttosto che aggregarsi al
rancio dei nostri uomini, preferivano portarsi le loro cibarie e
mangiarsele a parte”.
Quanto
al Pireo, quel porto era “il
vero paradiso dei marinai. Gli ufficiali facevano
(…) le loro scappate ad
Atene dove trovavano tutto quel che cercavano, ma i marinai non
avevano bisogno di andare tanto distante. Il Pireo bastava e ce n'era
d'avanzo. Eravamo ben lontani dall'austerità e dalla disciplina dei
porti militari italiani. Dietro la cancellata che chiudeva la
banchina delle siluranti pullulavano i più strani individui di ambo
i sessi e quelli che ogni comandante avrebbe voluto meno vicini al
proprio equipaggio. Trafficanti, commercianti, cambiavalute e uno
stuolo di donne e donnette, ragazze e ragazzone impregnate dei germi
più vari adescavano in mille modi i nostri marinai i quali, dopo
giorni e giorni di dura navigazione, non desideravano di meglio che
lasciarsi adescare. Il servizio di polizia a terra era affidato ai
tedeschi, ma era stranamente rilassato e tutte le rimostranze che
facevamo noi comandanti risultavano lettera morta”.
1°
settembre 1942
Il
Da Recco
ed un cacciasommergibili tedesco (Aldo Cocchia, nelle sue memorie,
parla invece del posamine ausiliario tedesco Bulgaria,
che pur essendo lento e poco armato era utile perché munito di
ecogoniometro) scortano dal Pireo ai Dardanelli (fino al limite delle
acque territoriali turche), via Salonicco, le navi cisterna italiane
Albaro
(“piccolo scarabocchio
marino che pareva facesse un passo avanti e due indietro tanto andava
adagio”) e Cerere
e la tedesca Ossag,
dirette in Mar Nero per caricare nafta romena a Costanza.
In
una successiva missione, il Da
Recco scorta da Iraklion al
Pireo, insieme a due motozattere tedesche, i piroscafi Minerva
e Ginetto.
“Quando giunsi ad Iraklion
per prendermi e portarmi dietro il convoglietto”
scrive Cocchia “riunii sul
Da Recco i comandanti italiani e germanici (…)
Coi due tedeschi me la
sbrigai subito dando loro ordine di stare sempre sui fianchi del
convoglio e di attaccare senza esitazione qualsiasi natante apparisse
sul loro orizzonte. Erano due svegli sottufficiali ed eseguirono
appuntino [sic] gli
ordini. (…) Un
po' diversamente andarono le cose con i due italiani. Di comandante
militare sui due trabiccoletti non c'era nemmeno l'ombra; apparati
radio per segnalazioni niente, ed anche per le segnalazioni a
bandiere era una vera tragedia perché a bordo c'era un solo
segnalatore che evidentemente non poteva stare sul chi vive per
trentasei ore di seguito in attesa dei miei segnali. Spiegai come
meglio potei quel che i due piroscafi avrebbero dovuto fare,
limitandomi a fissare due o tre segnali semplici
(…) Averei voluto che
tenessero la linea di fronte
(…), che più garantisce
le navi dagli attacchi dei sommergibili, ma Minerva e Ginetto di
linea di fronte non ne vollero sapere e dovetti stimarmi fortunato se
riuscii, mettendoli uno dietro l'altro, a trascinarmeli appresso
entrambi e a non perderne nessuno per la strada. La loro velocità si
aggirava sui 5 nodi e non si può descrivere la gioia del Da Recco a
navigare ad andatura così elevata!
(…) Naturalmente per
qualche malintenzionato sommergibile nemico il miglior boccone di
tutto il convoglio era proprio il Da Recco, e non so se fosse
conveniente rischiare un grosso cacciatorpediniere per proteggere due
piroscafetti che valevano tutt'e due assieme, sì e no un quarto del
Da Recco… Ma noi di sommergibili non ne sentimmo neanche l'odore e
raggiungemmo felicemente il Pireo…”.
16
settembre 1942
Alle
13 il Da Recco
salpa da Suda per scortare a Tobruk l'incrociatore ausiliario
Barletta,
in missione di trasporto (ha a bordo 273 tonnellate di benzina in
fusti e latte).
Durante
la tarda serata e tutta la notte le due navi sono continuamente
attaccate da bombardieri ed aerosiluranti, ma non subiscono danni.
Per la prima volta, rileverà il comandante Cocchia, gli aerei
britannici attaccano di notte senza l'ausilio dei bengala, privando
così gli equipaggi delle navi italiane del prezioso preavviso da
essi costituito.
Successivamente,
sempre nel corso della notte, il piccolo convoglio viene seguito da
aerei che per ore non fanno altro che lanciare a intervalli di tempo
regolari dei bengala ad una certa distanza dalle navi, di poppa o sui
lati, oltre a fuochi al cloruro di calcio che si accendono toccando
l'acqua e rimangono accesi per una ventina di minuti. Cocchia, che
presume che questi segnali servano a guidare sul posto sommergibili
od unità di superficie nemiche, reagisce con continue accostate ed
abbondante emissione di cortine nebbiogene.
17
settembre 1942
Da
Recco e Barletta
arrivano a Tobruk alle 11 e ne ripartono sette ore più tardi, per
fare ritorno al Pireo.
Alcuni
siti Internet affermano che in questa data Da
Recco e Barletta
sarebbero stati infruttuosamente attaccati dal sommergibile
britannico Taku,
ma in realtà non risultano attacchi in questa data da parte di
questo sommergibile.
18
settembre 1942
Dopo
aver superato indenni alcuni attacchi aerei notturni, le due navi
arrivano al Pireo alle 23.
24
settembre 1942
Il
Da Recco
(caposcorta, capitano di vascello Aldo Cocchia) e le torpediniere
Lupo
(capitano di corvetta Carlo Zanchi), Castore
(tenente di vascello Gaspare Tezel) e Sirio
(capitano di corvetta Romualdo Bertone) partono dal Pireo alle 22.30
per scortare a Tobruk il piroscafo italiano Anna
Maria Gualdi (con a bordo
1168 tonnellate di benzina, 161 tonnellate di materiali vari, undici
automezzi e 14 soldati) ed il tedesco Menes
(carico di 2000 tonnellate di munizioni e 140 tra automezzi e
rimorchi). Cocchia descrive così la composizione del convoglio: “Il
Menes, disciplinato e pronto nonostante le deficienze dei mezzi di
comunicazione, il Gualdi irrequieto e capriccioso. Lupo e Sirio
avevano per comandanti due capitani di corvetta, rispettivamente
Zanchi e Bortone, svelti e intelligenti, entrambi vecchi di convogli,
più volte capi scorta essi stessi, uomini dei quali si poteva
fidarsi a occhi chiusi; il Castore era comandato dal tenente di
vascello Tezel, che posso definire il più completo dei comandanti di
torpediniera che hanno navigato con me. Dotato di sana iniziativa e
di eccellenti qualità marinaresche, era sempre nel posto nel quale
la sua presenza era più opportuna, non c'era bisogno di dirgli mai
niente (…) ci
intendevamo alla perfezione. Sapevo che su di lui potevo fare
completo affidamento”.
25
settembre 1942
Alle
14.30, nel canale di Cerigotto, si uniscono al convoglio la nave
cisterna Proserpina
(avente a bordo 5316 tonnellate di benzina) e le
torpediniere Libra e Lira,
provenienti da Suda, mentre la Sirio deve
rientrare in porto per avaria di macchina.
Qualche
problema si verifica nella fase di riunione, quando una delle
torpediniere provenienti da Suda non riesce ad assumere, per un po'
di tempo, la posizione assegnata, girando lungamente attorno al
convoglio senza comprendere dove posizionarsi (la storia ufficiale
dell'USMM commenta in proposito che “la
Proserpina e le due torpediniere che l'accompagnavano si aggregarono
alla formazione quando questa era già in mare e ciò non permise un
contatto preliminare diretto tra caposcorta ed unità dipendenti; le
navi mercantili inoltre non erano fornite né di apparecchi
radiotelegrafici ad onde ultracorte né di radiosegnalatori a portata
ridotta e pertanto le comunicazioni nell'interno del convoglio erano
oltremodo difficili e difficilissime, di conseguenza, le manovre
d'urgenza da effettuarsi, specie di notte, per evitare l'offesa aerea
avversaria”). Alla fine,
la formazione viene assunta e nel tardo pomeriggio si fa rotta per
Tobruk.
Il convoglio, che procede a circa 10 nodi con i tre
mercantili in linea di fronte (Proserpina al
centro) e la scorta tutt'intorno, gode anche, nelle ore diurne, di
notevole scorta aerea.
Quale ulteriore protezione contro gli
aerei nemici, la Proserpina è
munita anche di un pallone frenato – uno dei primi impieghi di tale
strumento per la difesa antiaerea di una nave in convoglio –, che
si alza nel cielo sopra la nave ad una quota di circa 200 metri.
Nella notte, però, il cavo che lo tiene legato alla nave si spezza,
ed il pallone va così perduto.
In
serata Supermarina comunica al Da
Recco "Siete stati
scoperti" e "Bombardieri nemici dirigono verso di voi",
e più tardi viene anche intercettato un messaggio di una
torpediniera che riferisce
di essere sorvolata da una grossa formazione di aerei statunitensi,
la cui posizione e rotta fa presumere che raggiungeranno il convoglio
del Da Recco
al tramonto. Cocchia decide di variare la rotta, pur consapevole che
la scarsa velocità dei mercantili rende tale provvedimento pressoché
inutile; in quel momento la scorta aerea è costituita da quattro
Junkers Ju 88. Nonostante tutto, gli aerei statunitensi non si fanno
vedere né al tramonto né dopo.
26
settembre 1942
Alle
00.00 la Lira apre
il fuoco con le mitragliere e con i cannoni da 100 mm, fortunatamente
senza esito, contro un aereo che lancia poi il segnale di
riconoscimento tedesco: è stato inviato per la scorta notturna, ma
le navi non sono state informate del suo arrivo (Cocchia aveva in
precedenza dato ordine alle torpediniere di aprire il fuoco contro
qualsiasi aereo avvistato). Dopo il suo riconoscimento, il Da
Recco segnala a tutte le
unità la presenza di aerei amici sul loro cielo. Menes e Gualdi,
però, scambiano i colpi di cannone della Lira per
il segnale di allarme per sommergibile (questo sarebbe infatti il
loro significato, ma di giorno, non di notte) ed accostano in fuori,
mentre la Proserpina
rimane in rotta, così sparpagliando il convoglio (ciò secondo la
storia ufficiale dell'USMM; in "Convogli" Cocchia scrive
invece che tutti i mercantili accostarono, Proserpina
e Gualdi
da una parte e Menes
dall'altra); dato che i mercantili non hanno né radio ad onde
ultracorte né radiosegnalatori a bassa portata, e dunque non è
possibile comunicare con essi se non con segnale luminosi (che data
la distanza, dovrebbero essere a luce bianca, che sarebbe meglio
evitare), il comandante Cocchia ordina alla Castore di
portarsi sottobordo a Menes e Gualdi e
farli tornare in rotta, mentre lo stesso Da
Recco si porta
sottobordo alla Proserpina
e le ordina col megafono di seguirlo, per riavvicinarla alla zona
dove ora i due piroscafi si sono spostati. Alle 00.50 il convoglio
può dirsi ricostituito.
All'1.06
si accende un bengala di prua, sulla dritta, ed il Da
Recco dà il segnale di
scoperta ed inizia ad emettere cortine nebbiogene; l'emissione della
nebbia artificiale viene interrotta all'1.09, non appena il bengala
si è spento, per evitare che le stesse cortine di nebbia (di colore
biancastro), messe in risalto dalla luce lunare, agevolino
l'individuazione del convoglio da parte di unità nemiche. Anche nel
corso dei successivi attacchi aerei, protrattisi fino alle 3.30,
Cocchia farà emettere cortine nebbiogene dal Da
Recco e dalle altre navi
della scorta soltanto nei momenti in cui bengala sono accesi sul
cielo del convoglio. (Nelle sue memorie, invece, Cocchia afferma di
aver fatto emettere cortine nebbiogene ad intermittenza, in modo da
creare più zone di foschia che il vento sposta in giro e che possono
trarre in inganno gli aerei: talvolta questi bombardano dei banchi di
nebbia artificiale nei quali presumono si nascondano delle navi,
mentre in realtà sono completamente vuoti. Aggiunge inoltre di non
aver ordinato manovre evasive perché data la difficoltà di
trasmettere i segnali alle navi mercantili del convoglio, ciò
risulterebbe certamente nello scompaginamento della formazione;
invece, fin da prima della partenza aveva disposto che ogni nave
serpeggiasse un poco senza lasciare il suo posto in formazione,
riprendendo poi la rotta originaria).
All'1.30
il Da Recco
avvista un bengala a sinistra, ed un aereo lo sorvola a bassa quota,
venendo bersagliato dal tiro delle sue mitragliere.
All'1.38
delle bombe cadono in mare a proravia del Da
Recco, piuttosto lontane;
ad intervalli tutte le navi della scorta sparano colpi di mitragliera
e cannone contro gli aerei che riescono ad avvistare anche a notevole
distanza, grazie all'eccezionale chiarezza della notte di luna piena.
All'1.50 delle bombe esplodono a poppavia del Da
Recco, all'1.54 tra le
unità prodiere della scorta ed i mercantili, mentre le unità
poppiere aprono il fuoco. Sempre all'1.54, un aereo che vola a bassa
quota passa tra Da
Recco e Libra
con rotta parallela a quella del convoglio; entrambe le unità aprono
il fuoco contro di esso ed il velivolo, rapidamente inquadrato,
lancia il segnale di riconoscimento identificandosi come tedesco.
Viene allora cessato il fuoco, e l'aereo si allontana verso sinistra,
mentre una bomba cade in mare tra la il Da
Recco e la Libra.
Cocchia concluderà poi nel suo rapporto che «molto
probabilmente il continuo lancio di bengala nella notte di luna
piena, chiarissima, aveva lo scopo, non tanto di illuminare i
piroscafi quanto di richiamare l'attenzione dei sommergibili in
agguato nelle acque attraversate dal convoglio».
Alle
14.30 il convoglio arriva senza danni a Tobruk: la Proserpina sarà
l'ultima petroliera dell'Asse a raggiungere Tobruk. Con le tre
navi arrivano a Tobruk 6484 tonnellate di benzina, 2000 di munizioni,
161 di materiali vari e 151 tra automezzi e rimorchi, oltre a
quattordici militari di passaggio.
12
ottobre 1942
Il
Da Recco (caposcorta,
capitano di vascello Aldo Cocchia), il cacciatorpediniere
Folgore (capitano
di corvetta Renato D'Elia) e le torpediniere Ardito (tenente
di vascello Emanuele Corsanego)
e Clio (tenente
di vascello Ugo Tonani) salpano da Brindisi alle 20 diretti a
Bengasi, scortando la motonave D'Annunzio.
13
ottobre 1942
Alle
sette del mattino, al largo di Corfù, si uniscono al convoglio la
motonave Foscolo,
il cacciatorpediniere Lampo (capitano
di corvetta Antonio Cuzzaniti) e la torpediniera Partenope (capitano
di corvetta Pasquale Senese); caposcorta è sempre il Da
Recco. Nonostante un
temporale in corso, i velivoli della scorta aerea raggiungono il
convoglio, che procede a 14 nodi (per altra fonte, a 15:
Foscolo e D'Annunzio,
moderne unità della nuova classe "Poeti", sono infatti tra
le più veloci navi da carico della Marina Mercantile italiana), sin
dalle prime luci dell'alba, rimanendo poi sul suo cielo per tutto il
giorno.
Durante
il pomeriggio il sommergibile britannico Porpoise (tenente
di vascello Leslie William Abel Bennington) viene informato della
presenza di un convoglio di due navi mercantili, scortate da sei
cacciatorpediniere, in posizione 38°14' N e 19°35' E, con rotta
180° e velocità 15 nodi: si tratta del convoglio di cui fa parte il
Da Recco.
Il Porpoise sembra
trovarsi in posizione perfetta per intercettare il convoglio, ma non
avvista niente all'infuori di alcuni aerei: le navi italiane,
infatti, passano un po' più ad est di quanto previsto dai
britannici.
Alle
21.58 si accende un bengala sulla dritta del convoglio, piuttosto
lontano, e si sente rumore di aerei; Cocchia dà l'allarme ed ordina
a tutte le navi di iniziare ad emettere cortine nebbiogene. Alle 22,
in un momento in cui non è acceso nessun bengala, un aereo sgancia
due bombe che cadono tra il Folgore (che
si trova in coda al convoglio) e le motonavi (che sono disposte in
linea di fronte); alle 23.07 si sente ancora rumore di aerei ad
intervalli ed alle 23.30 si accendono tre nuovi bengala, sempre molto
lontani e sulla dritta.
Alle
23.56 un aereo sgancia due bombe di piccolo calibro, che cadono
cinque metri al traverso a sinistra del Folgore;
le schegge delle bombe investono la nave, arrecandole modesti danni e
ferendo non gravemente cinque serventi del complesso poppiero da 120
mm. Al tempo stesso, il Folgore avvista
due aerei a circa 200 metri di quota ed apre il fuoco
contro di essi, imitato dalle altre navi che procedono a poppa del
convoglio.
14
ottobre 1942
Alle
00.30, quando il convoglio si trova a cento miglia da Bengasi, cessa
l'allarme e si smette di emettere nebbia, dato che non si sentono più
rumori di aerei da mezz'ora. Nessuna nave è stata colpita e nessuna,
a parte il Folgore,
ha subito alcun danno, grazie alla violenta reazione contraerea delle
navi di scorta, che ha disorientato i piloti nemici. Il comandante
Cocchia scriverà nel suo rapporto che «più
che un vero e proprio attacco aereo si è trattato di qualche aereo
di passaggio che, scoperto il convoglio, ha sganciato le bombe che
aveva a bordo (…)
Probabilmente la presenza
delle navi è stata rivelata dalla fosforescenza, per quanto non
eccessiva, delle scie e delle scintille, copiose, sprigionate dai
fumaioli delle motonavi e anche da qualche silurante. I residui
carboniosi della nafta tedesca hanno rapidamente ostruito i
polverizzatori dei nebbiogeni
(…) veramente encomiabile
la scorta [aerea] del
giorno 13, che ha puntualmente raggiunto alle prime luci dell'alba il
convoglio, nonostante le condizioni meteorologiche molto avverse a
carattere temporalesco».
Il convoglio giunge a Bengasi alle 13.30.
Dopo
appena mezz'ora, non appena le motonavi sono entrate in porto, Da
Recco (caposcorta), Folgore, Lampo, Ardito,
Partenope
e Clio
ne ripartono scortando la motonave italiana Sestriere e
la tedesca Ruhr,
scariche, uscite da Bengasi incrociandosi con Foscolo e D'Annunzio in
arrivo.
16
ottobre 1942
Nel
pomeriggio l'Ardito
subisce un'avaria e deve lasciare il convoglio, dirigendo per
Argostoli; la Clio
viene distaccata per scortarla.
Alle
18 il convoglio si scinde in due gruppi: Da
Recco, Lampo
e Sestriere
dirigono verso Taranto, Folgore,
Partenope
e Ruhr
verso Brindisi.
17
ottobre 1942
Da
Recco, Lampo
e Sestriere
arrivano a Taranto alle 13.50, senza aver subito attacchi.
31
ottobre 1942
Da
Recco (caposquadriglia,
capitano di vascello Aldo Cocchia), Bersagliere (capitano
di fregata Anselmo Lazzarini) e Corazziere (capitano
di fregata Antonio Monaco di Longano) salpano da Taranto per Tobruk
alle 17.45, in missione di trasporto di 196 tonnellate di munizioni
(parte sfuse, parte in cassette, equamente ripartite tra le tre navi)
e tre tonnellate di materiale d'artiglieria.
Poco
dopo la partenza, i tre cacciatorpediniere superano due convogli,
l'uno formato dagli incrociatori ausiliari Zara
e Brioni
(in missione di trasporto di carburante e munizioni) scortati dalla
torpediniera San Martino
e l'altro da un gruppo di motozattere cariche di materiali ed
accompagnate da un'altra torpediniera, anch'essi diretti a Tobruk.
Assumono la velocità di 25 nodi e si dispongono in formazione a
triangolo, che Cocchia ritiene più adatta a difendersi da aerei e
sommergibili; le tre navi seguono la rotta del Mediterraneo
orientale, transitando per il Canale di Corinto, passando al largo di
Atene e poi dirigendo verso sud, passando al largo delle isole di
Poros, Idra e Cerigo e tra Cerigotto e Creta.
.jpg) |
Il Da Recco nel Canale di Corinto (foto Massimo Messina, via www.meludo.it) |
1°
novembre 1942
Il
mare è appena mosso, con poche nuvole; la luna è appena sorta non
c'è vento.
A
partire dalle due di notte i tre cacciatorpediniere iniziano ad
essere fatti oggetto di una serie ininterrotta di attacchi aerei,
sette in tutto (cinque di bombardieri e due di aerosiluranti), che
vengono tutti elusi con abili e rapide contromanovre.
Già
nel primo attacco aereo, le bombe cadono tra le navi italiane, a poca
distanza; Cocchia ordina manovre elusive e l'emissione di cortine
nebbiogene, mentre nel cielo si accendono bengala e continuano a
cadere bombe (che Cocchia ritiene essere di grosso calibro, sulla
base delle dimensioni delle colonne d'acqua che generano)
tutt'intorno.
Per
due ore e mezzo le navi reagiscono col tiro delle mitragliere,
zigzagano ed evoluiscono con continue accostate per evitare bombe e
siluri, stendono cortine fumogene per cercare di occultarsi alla
vista degli attaccanti. Nel cielo si accendono bengala, bombe cadono
tutt'intorno, ed un siluro passa proprio sotto lo scafo
del Corazziere,
senza esplodere; da bordo si ritiene di aver colpito un aereo, che
sembra allontanarsi in fiamme per poi forse esplodere (si vede una
vampata nella direzione nella quale l'aereo danneggiato è scomparso
all'orizzonte). Il Corazziere non
subisce danni di rilievo, ma le schegge di una o più bombe esplose
in mare molto vicine investono il complesso poppiero da 120 mm,
provocando sei feriti tra il personale addetto a tale complesso, due
dei quali in modo grave. All'1.40 il Da
Recco viene “colpito”
da un siluro che, sganciato troppo tardi dall'aereo che lo portava,
anziché entrare in acqua e colpirne lo scafo cade direttamente in
coperta e scivola in mare senza esplodere, e senza causare danni di
rilievo.
Dalle
memorie di Aldo Cocchia: “Manovro
ininterrottamente, accanitamente e i caccia dipendenti mi assecondano
con grande prontezza (…)
L'attacco imperversa già da
un'ora quando alle bombe isolate vedo succedere salve di 5-6 bombe di
piccolo calibro, forse da 100 chili. Il Corazziere segnala che una
bomba caduta molto vicina ha ferito con le sue schegge alcuni uomini
dell'equipaggio. (…)
Sulla dritta, poco alto, un
aereo punta dritto sul Da Recco. Apro il fuoco con le mitragliere da
20, accosto con tutta la barra verso di lui che scompare rapidamente,
forse colpito, nella nebbia a me emessa. Pochi decimi di secondo e 5
bombe esplodono lungo il mio fianco sinistro senza causarmi alcun
danno. Provvidenziale accostata!
(…) La radio intercetta i
messaggi delle torpediniere che sono ormai molto indietro rispetto a
noi. Sono ancora attaccate anch'esse
(…) Bombe, bengala,
nebbia, manovre, una raffica di mitraglia di tanto in tanto contro
qualche aereo raramente visibile per pochi secondi: sono trascorse
due ore e mezzo e la violenza dell'attacco non accenna a diminuire.
(…) È
circa l'1.40 quando vedo di prora a dritta un aereo dirigere veloce
su di noi a pelo d'acqua. È forse a 200 metri di distanza. Sulla
sinistra è acceso qualche bengala
(…) Accosto Fulmineamente
verso l'apparecchio che quasi sfiora la coperta a prora tanto è
basso; tutte le mitragliere sparano rabbiosamente e colpiscono il
velivolo che, sbandato, si immerge nella mia nebbia. Da poppa dicono
di aver sentito un tonfo in acqua, è forse l'aereo che si è
inabissato, ma la nebbia non permette di vedere. Contemporaneamente
il personale che è a prora informa che un grosso corpo è caduto sul
ponte ed è poi scivolato in mare. Non sanno precisare, credono si
tratti di una bomba non esplosa. “Nessun ferito?” “No!” “Il
complesso di prora ha avuto danni?” “No. Tutto in ordine”.
L'attacco è finito ed è stato certo il più violento che io abbia
mai subito (…) L'indomani
mattina, prima di arrivare, rapido sopralluogo. Troviamo dei
tirantini d'acciaio, dei pezzi di legno compensato, qualche piccolo
spezzone di cavetto metallico e una misteriosa boccola di bronzo
sulla quale è inciso: “Fiume”. Sulla coperta come un gran solco:
un qualche cosa ha squarciato il ponte e lesionato le ordinate
sottostanti, il paraonde è stato asportato. Per un po' non riesco a
capire, poi finalmente arrivo alla verità. Un siluro, uno di quelli
acquistati dall'Inghilterra a Fiume prima della guerra… L'aereo
attaccante era un silurante e, per errore o perché sorpreso dalla
nostra manovra, ha sganciato il suo siluro sulla prora anziché
contro il fianco del Da Recco. L'arma non ha avuto modo e tempo di
attivarsi ed è scivolata in mare producendo soltanto un po' di
innocuo sconquasso sul ponte. L'efficienza del mio cacciatorpediniere
non è certo menomata per così poco”.
2
novembre 1942
Sulla
rotta di sicurezza per Tobruk, il Da
Recco passa vicino ai
relitti di navi affondate pochi giorni prima, visibili da bordo
grazie all'acqua chiara ed alla scarsa profondità: la petroliera
Proserpina,
la motonave Tergestea,
entrambe scortate dal Da
Recco in precedenti
missioni; scrive Cocchia: “Mi
si stringe il cuore”.
Alle
9.22 (altra versione, probabilmente erronea, riporta le 18.45)
Da
Recco, Bersagliere e Corazziere
arrivano a Tobruk, sbarcano rapidamente il carico e poi ripartono
alle 14. Lo sbarco delle casse di munizioni sulle chiatte e
bettoline, preparate da Marina Tobruk e dal Genio dell'Esercito e
portate sottobordo ai cacciatorpediniere, avviene a mano; tutto
l'equipaggio, ufficiali compresi, passa le casse a mano agli uomini
di Marina Tobruk ed ai soldati dell'Esercito, permettendo di
completare l'operazione in tempi rapidi.
Così
Cocchia descrive la situazione a Tobruk, che cadrà in mano
britannica tredici giorni dopo in seguito alla sconfitta ad El
Alamein: “Nella rada di
Tobruk il numero dei relitti è ancora aumentato, ora è tale che ci
vuole molta abilità a schivarli. Rimorchiatori, natanti vari,
velieri, motozattere… è un'ecatombe. A terra il comando marina
funziona fra mura sconquassate e pavimenti che minacciano di crollare
da un momento all'altro”.
In
uscita da Tobruk, i cacciatorpediniere incrociano il Brioni,
in arrivo dopo essere scampato ad un attacco di aerosiluranti che ha
affondato lo Zara.
Da bordo del Da Recco
viene poi avvistata una grossa formazione di aerei statunitensi
diretti verso Tobruk: in lontananza si vedono le esplosioni dei
proiettili contraerei in cielo e bagliori rossastri levarsi da terra
e dal mare, e poi una grande esplosione a terra ed altre nel porto.
Il Brioni
è stato colpito ed è esploso.
3
novembre 1942
Durante
la navigazione di rientro da Tobruk a Taranto i tre
cacciatorpediniere vengono dirottati a Navarino, dove giungono alle
9.15. Qui il Bersagliere
rimane, mentre Da Recco
e Corazziere
ripartono diretti l'uno a Taranto e l'altro a Messina.
4
novembre 1942
Il
Da Recco
arriva a Taranto all'1.40. Qui entra in Arsenale per riparare i
modesti danni causati dal siluro caduto in coperta nella notte del 2
novembre; i lavori vengono portati a termine nel giro di pochi
giorni.
19
novembre 1942
Il
Da Recco
scorta il piroscafo Fanny
Brunner
da Brindisi a Patrasso.
21
novembre 1942
In
mattinata il Da Recco
salpa da Patrasso di scorta ai piroscafi italiani Capo
Orso
e Galiola
ed al tedesco Rhea,
diretti i primi due a Taranto ed il terzo a Brindisi. (Per altra
fonte avrebbe scortato il Rhea
da Taranto a Patrasso, ma sembra probabile un errore).
22
novembre 1942
Il
convoglio giunge a Taranto alle 16.30.
28
novembre 1942
Il
Da Recco
(capitano di vascello Aldo Cocchia) ed il cacciatorpediniere Lampo
(capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti) salpano da Taranto diretti a
Palermo, scortando il piroscafo Anna
Maria Gualdi e la nave
cisterna Giorgio
(il primo quasi scarico, la seconda con duemila tonnellate di
benzina).
Il
Gualdi
inizia a dare problemi fin da subito: secondo Aldo Cocchia, “si
mostrò (…) tanto
piccolo quanto indisciplinato. Non c'era verso di farsi ubbidire da
questa riottosa carretta e ci volevano gli argani per ottenere che
non uscisse di formazione”.
Appena lasciata Taranto il piroscafo viene colto da un'avaria, ma è
in grado di proseguire; poi rischia di finire su un campo minato
italiano; infine, dopo altre peripezie, viene colto da un'altra grave
avaria di macchina nello stretto di Messina e Cocchia gli ordina di
entrare in quel porto (“Non
mi parve vero mandarlo in porto solo soletto, sicuro che il
comandante della marina in Sicilia, l'ammiraglio Barone, gli avrebbe
ben bene riviste le bucce”),
proseguendo con la Giorgio
ed i due cacciatorpediniere.
Verso
mezzanotte le tre navi incrociano a nord della Sicilia un altro
convoglio, avente come capo scorta la torpediniera Orsa;
più o meno contemporaneamente uno o due aerosiluranti britannici
lanciano alcuni bengala ed anche qualche siluro contro il convoglio,
ma nessuna nave viene colpita.
29
novembre 1942
Da
Recco, Lampo
e Giorgio
arrivano a Palermo in mattinata. Così Cocchia descrive le condizioni
del capoluogo siciliano: “A
Palermo ero stato l'ultima volta nel 1936 all'epoca della guerra
etiopica (…) Allora
il porto era magnifico di attività; le banchine, forse non sempre
del tutto pulite, erano efficienti e ordinate; le attrezzature in
perfetto stato; ora tutto era sottosopra: non certo come Tobruk o
come la stessa Palermo doveva diventare alcuni mesi dopo, ma pur
sempre in condizioni tutt'altro che buone. Nel bel mezzo del porto
affiorava un relitto di grosse dimensioni, altri minori emergevano
qua e là e su tutto la guerra aveva impresso la sua impronta di
ferocia e di distruzione.
(…) la città stessa aveva
un volto che non saprei definire altrimenti che grigio, nonostante lo
smagliante sole di quelle magnifiche giornate autunnali. La guerra
pesava su tutti: sulle poPolazioni martoriate dall'offesa aerea,
contro la quale non erano sufficientemente premunite, sui combattenti
che sentivano gravare su di loro la spaventosa inferiorità nella
quale si trovavano rispetto al nemico, sui comandi estenuati da una
lotta che sapevano impari per la deficienza dei mezzi e perché alla
loro azione di comando si sovrapponeva di continuo quella
dell'alleato germanico; la guerra pesava infine su di noi, marinai
delle flotte da guerra e mercantile, che da tre anni facevamo ogni
sacrificio perché il mare non ci fosse del tutto precluso. Palermo
mi diede in pieno la nozione di questa stanchezza che travagliava
ciascuno di noi forse perché inconsciamente la raffrontavo con la
Palermo vista in altri giorni sfolgorante di entusiasmo e di
orgoglio, forse perché io stesso cominciavo a sentire la fatica dei
lunghi mesi di incessante lavoro sul mare”.
.jpg)
Il
Da
Recco fotografato
dal cacciatorpediniere Granatiere
nel tardo autunno del 1942 (I Gruppo ANMI di Milano, via pagina
Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”)
La
battaglia del banco di Skerki
Alle
dieci del mattino del 1° dicembre 1942 (le 10.15 per altra fonte) il
Da Recco,
al comando del capitano di vascello Aldo Cocchia, partì da Palermo
scortare a Biserta il convoglio «H», composto dai trasporti truppe
Aventino
e Puccini,
dal traghetto requisito Aspromonte
e dal piccolo trasporto militare tedesco KT
1. In tutto, le quattro
navi avevano a bordo 1766 tra ufficiali e soldati in prevalenza della
1a Divisione
Fanteria "Superga" (equamente distribuiti
tra Aventino e Puccini),
698 tonnellate di rifornimenti (di cui 120 di munizioni, il tutto
sul KT 1),
dodici cannoni da 88 mm con le relative dotazioni, 32
veicoli e quattro carri armati.
Il
comandante Cocchia del Da
Recco era investito del
ruolo di caposcorta; oltre al Da
Recco, la scorta era
formata dai cacciatorpediniere Folgore (capitano
di corvetta Ener Bettica) e Camicia
Nera (capitano di
fregata Adriano Foscari) e dalle torpediniere Procione (capitano
di corvetta Renato Torchiana) e Clio
(tenente di vascello Vito Asaro).
Alla
partenza da Palermo il convoglio era composto da Aventino, Puccini e
KT 1,
mentre l'Aspromonte
si sarebbe unito ad esso al largo di Trapani. Ciò avvenne
puntualmente nel pomeriggio dello stesso 1° dicembre: prima di
imboccare la rotta del Canale di Sicilia il convoglio passò davanti
a Trapani, e l'Aspromonte
uscì da quel porto alle 15.30, aggregandosi due ore più tardi (per
altra fonte, alle 20) al convoglio come previsto. Poi, tutte le navi
misero la prua verso la Tunisia. La campagna di Tunisia era appena
iniziata, e la rotta per Tunisi e Biserta non era ancora diventata
famosa tra gli equipaggi italiani come la “rotta della morte”:
fino a quel momento, gli attacchi angloamericani erano stati
relativamente sporadici e inefficaci. Ma quella notte, tutto sarebbe
cambiato.
Il
convoglio «H» non era l'unico in mare nella notte tra l'1 e il 2
dicembre 1942: altri tre convogli si trovavano in navigazione nel
Canale di Sicilia. Il «B», con cinque mercantili
(piroscafi Arlesiana, Achille
Lauro, Campania, Menes e Lisboa)
e cinque navi scorta (le
torpediniere Sirio, Groppo, Orione, Pallade ed Uragano),
era diretto da Napoli verso la Tunisia; il «C», con tre trasporti
(piroscafi Chisone e Veloce e
cisterna militare Devoli)
e quattro torpediniere per la scorta
(Lupo, Ardente, Aretusa e Sagittario),
procedeva da Napoli verso Tripoli; ed il «G» (nave
cisterna Giorgio scortata
dal cacciatorpediniere Lampo e
dalla torpediniera Climene)
era in rotta da Palermo a Tunisi. I convogli «G» e «H», partiti a
poca distanza temporale l'uno dall'altro, sarebbero rimasti in
contatto per buona parte della traversata del Canale di Sicilia.
Secondo
le memorie di Aldo Cocchia, in origine era stato previsto che le navi
dei convogli «H», «G» e «B» avrebbero dovuto riunirsi e formare
un unico grande convoglio, ma l'idea era stata accantonata e si era
invece preferito farli navigare separatamente. Un primo problema che
si presentò era costituito dal fatto che nessuna delle quattro navi
scorta poste alle sue dipendenze per questa traversata aveva mai
navigato prima ai suoi ordini, dunque non esisteva alcun
affiatamento; come se non bastasse il comandante del Folgore
Ener Bettica, che pure Cocchia stimava come ottimo ufficiale, era
alla sua prima missione di guerra come comandante di
cacciatorpediniere (fino a poche settimane prima era stato destinato
ad incarichi a terra), e la Clio
era sprovvista del suo comandante titolare, ammalato, e comandata
temporaneamente dal comandante in seconda.
Un
altro neo era costituito dalla difforme velocità delle navi del
convoglio: Aventino,
Puccini
e KT 1
(quest'ultimo “poco più
di una motozattera”, con
a bordo “un grosso carro
armato germanico e munizioni”)
avevano una velocità massima di circa dieci nodi, mentre
l'Aspromonte
(“bella e grossa nave
traghetto, carica di carri armati e munizioni”)
poteva fare i 16 nodi: la decisione di aggregarlo ad un convoglio di
10 nodi era pertanto discutibile, ma si era preferito non farlo
navigare da solo “e
convogli veloci in quel momento non ce n'erano”.
Il
convoglio «G», leggermente più lento dell'«H» (9 nodi), era
stato fatto partire prima in modo che quest'ultimo, dopo averlo
superato al largo di Trapani, sarebbe rimasto comunque in contatto
con esso per tutta la navigazione, data la poca differenza di
velocità. (In origine era stato previsto che questi due convogli
sarebbero dovuti partire da Palermo insieme, alle dieci del 30
novembre, navigando a 10 nodi e procedendo in un unico gruppo fino a
mezzanotte, per poi dividersi e proseguire su rotte parallele verso
Tunisi e Biserta, con il «G» più a nord e l'«H» più a sud).
Per
agevolare le comunicazioni tra le navi del convoglio «H», tutti i
mercantili che lo componevano, tranne il KT
1, erano stati muniti di
radio ad ultracorte ed avevano imbarcato alcuni guardiamarina
prelevati da incrociatori sui quali erano assegnati al servizio
comunicazioni. Tuttavia, “gli
apparati ultracorte delle navi mercantili erano stati appena
installati e non erano ancora a punto, i guardiamarina provenienti
dagli incrociatori mancavano della necessaria esperienza e perciò il
loro aiuto finiva con l'essere molto modesto, gli operatori
radiotelegrafisti non erano tutti all'altezza della situazione”.
Punto debole era appunto il KT
1, che non aveva radio di
nessun tipo (cosa abbastanza incredibile nel 1942) e nemmeno un
ufficiale italiano di collegamento; ma questo non dava molto pensiero
a Cocchia, che pensava che le sue modeste dimensioni – che invero
avrebbero reso forse meglio per esso tentare la traversata in
navigazione isolata – e la sua velocità leggermente superiore
rispetto ad Aventino
e Puccini
gli avrebbe permesso bene o male di cavarsela comunque.
In
origine la partenza da Palermo del convoglio «H» era stata prevista
per il mattino del 30 novembre, in modo da arrivare a Biserta
all'alba del 1° dicembre, ma all'ultimo momento era stata rimandata
di ventiquattr'ore. Secondo le memorie di Aldo Cocchia, che però lo
venne a sapere soltanto in seguito e probabilmente con qualche
inesattezza, questo rinvio sarebbe stato determinato
dall'avvistamento di navi da guerra britanniche – incrociatori
leggeri e cacciatorpediniere – nel porto algerino di Bona, non
lontano dal confine con la Tunisia; tuttavia, la storia ufficiale
dell'USMM non stabilisce alcun collegamento tra l'avvistamento delle
navi britanniche (di cui si parlerà poco oltre) a Bona, che sarebbe
avvenuto la sera del 30 novembre – e dunque non avrebbe potuto
influire sulla decisione di rimandare la partenza del convoglio «H»,
presa il mattino dello stesso giorno – ed il posticipo della
partenza del convoglio.
Il
30 novembre Cocchia convocò i comandanti delle navi militari e
mercantili che componevano il convoglio, per l'abituale riunione
tenuta prima della partenza. Per suo volere, oltre ai comandanti
parteciparono alla riunione anche gli ufficiali alle comunicazioni di
ciascuna nave; attribuendo importanza cruciale al buon funzionamento
delle comunicazioni, era sua intenzione dar loro istruzioni
personalmente.
Nel
corso della riunione Cocchia diede le direttive su come comportarsi
in caso di incontro con aerei o sommergibili, illustrò le formazioni
da assumere ed i segnali da usare, e stabilì che in caso di
avvistamento di navi da guerra nemiche Da
Recco, Procione
e Camicia Nera
sarebbero dovuti andare immediatamente all'attacco, senza attendere
ordini, combattendo ad oltranza, mentre i mercantili, sempre senza
aspettare ordini (Cocchia lo sottolineò perché non si poteva
escludere che in caso di attacco navale proprio il Da
Recco fosse la prima nave
ad essere affondata o comunque messa fuori uso), avrebbero dovuto
allontanarsi il più rapidamente possibile scortati da Folgore
e Clio.
Infine, dispose che tutte le navi della scorta dalla mezzanotte in
poi si sarebbero dovute tener pronte a sviluppare la massima
velocità, a scopo precauzionale (di solito, per economizzare il
carburante, si teneva accesa solo metà delle caldaie in navigazione,
a meno di non essere in prossimità di basi nemiche).
In
aggiunta alle istruzioni impartite a voce, ai comandanti di ogni nave
venne consegnato un ordine d'operazione cartaceo (n. 17 del 30
novembre), elaborato da Cocchia sulla scorta delle passate
esperienze, nel quale si illustrava cosa fare nelle diverse
eventualità che potevano verificarsi (tale ordine d'operazione
prescriveva, in caso di attacco di navi di superficie, che «Le
siluranti di scorta attaccheranno il nemico impegnandolo a fondo e
coprendo il convoglio con nebbia. Le unità mercantili assumeranno,
anche senza ordini, la rotta di più rapido allontanamento cercando
di coprirsi con nebbia. Folgore e Clio resteranno
col convoglio»). Il
criterio era sempre quello di far sì che i comandanti dipendenti
sapessero già cosa fare senza attendere da Cocchia ordini che
avrebbero potuto non arrivare se il Da
Recco fosse stato colpito
per primo; sia per evitare momenti d'incertezza potenzialmente fatali
in tale eventualità, sia per ridurre al minimo la necessità di
trasmettere ordini e segnali, cosa non sempre agevole specie di notte
o sotto attacco. Certo, per avere realmente una reazione fulminea
e ben coordinata sarebbe stato necessario un buona affiatamento tra
il caposcorta ed i comandanti subordinati, ma questo era spesso
impossibile con i convogli, formati con le unità che erano
disponibili al momento. Così era stato per l'«H».
Sul
Da Recco,
al fine di mantenere i contatti con gli aerei tedeschi di scorta e
con le relative basi aeree, erano stati imbarcati per l'occasione
alcuni radiotelegrafisti della Luftwaffe, insieme alla loro radio.
Oltre ad essi si era imbarcato sul cacciatorpediniere caposcorta un
altro membro della Luftwaffe, un giovane ufficiale incaricato di
studiare i metodi di attacco degli aerei britannici, dai quali – si
pensava – il convoglio sarebbe stato sicuramente attaccato durante
la navigazione.
Le
navi del convoglio «G» lasciarono Palermo alle nove del mattino del
1° dicembre, e quelle dell'«H» iniziarono ad uscire un'ora dopo;
secondo il ricordo di Aldo Cocchia, la partenza avvenne mentre
suonavano le sirene d'allarme e la contraerea sparava contro dei
ricognitori, che però non furono abbattuti, così che “diedero
al comando britannico la notizia che tale comando attendeva, e cioè
che un convoglio italiano stava prendendo il mare da Palermo”.
Ricognitori
o meno, i britannici disponevano di mezzi anche migliori per sapere
se e quali convogli italiani fossero in mare: già il 29 novembre
“ULTRA” aveva decrittato messaggi italiani che rivelavano che
Aventino, Puccini, KT
1, Giorgio ed Anna
Maria Gualdi (quest'ultimo
rimasto poi in porto per avaria) dovevano partire da Palermo alle
6.30 del 1° dicembre, i primi tre diretti a Biserta e gli ultimi due
a Tunisi, dopo che la loro partenza era stata ritardata di 24 ore; e
che al largo di Trapani si sarebbe unito a loro l'Aspromonte,
dopo di che avrebbero imboccato il canale di Sicilia alla velocità
di 9 nodi, con arrivo previsto alle sei del 2 dicembre ("Piroscafi
Puccini, Aventino, Gualdi, petroliera GIORGIO e K.T.1 salperanno da
Palermo alle 06.30 del giorno 1, essendo stata ritardata di 24 ore la
loro partenza, unendosi con l'Aspromonte al largo di Trapani e quindi
dirigendo per i porti tunisini alla velocità di 9 nodi. Il Gualdi e
il GIORGIO per Tunisi e gli altri per Biserta. Ambedue i convogli
giungeranno probabilmente alle 06.00 del giorno 2").
Nel riferire tali informazioni ai comandi delle forze britanniche nel
Mediterraneo, l'Operational Intelligence Centre dell'Ammiragliato
britannico aveva anche suggerito quale strumento sarebbe più idoneo
per l'intercettazione del convoglio: la Forza Q.
Tale
formazione, appena creata ed avente base a Bona in Algeria (dov'era
stata dislocata il 30 novembre, non appena gli Alleati avevano
raggiunto nella zona una superiorità aerea sufficiente a proteggere
le navi di base in quel porto dagli intensi attacchi aerei dell'Asse
che l'avevano bersagliato nelle settimane immediatamente successive
alla sua occupazione), era una forza navale leggera incaricata, come
la Forza K aveva fatto un anno prima, di compiere scorrerie ai danni
dei convogli italiani: la componevano tre incrociatori leggeri del
12th
Cruiser Squadron, l'Aurora (nave
di bandiera del viceammiraglio Cecil Halliday Jepson Harcourt,
comandante sia del 12th
Cruiser Squadron che della Forza Q) che proprio della Forza K era un
reduce (il suo comandante, capitano di vascello William Gladstone
Agnew, era stato il comandante della Forza K nel 1941) ed i
nuovissimi Sirius (capitano
di vascello Patrick William Beresford Brooking) ed Argonaut (capitano
di vascello Eric William Longley Longley-Cook), e da due
cacciatorpediniere, il Quiberon (della
Marina australiana, al comando del capitano di fregata Hugh Walters
Shelley Browning) ed il Quentin (capitano
di corvetta Allan Herbert Percy Noble). Se fino a quel momento il
traffico con la Tunisia non era stato granché disturbato perché gli
Alleati avevano preferito concentrarsi sulla distruzione degli ultimi
convogli diretti in Libia e necessitavano di tempo per riorganizzare
le loro forze nel Nordafrica francese appena occupato, la situazione
era ora giunta ad una svolta.
Il
1° dicembre “ULTRA” aveva fatto avere ai comandi britannici
maggiori particolari sui convogli «G» e «H» (per quest'ultimo,
aveva aggiunto che il KT 1
aveva lasciato Napoli alle 20 del 28 novembre per unirsi al convoglio
“Puccini”
e partire con esso da Palermo per Biserta alle 6.30 dell'1 dicembre).
(Secondo Francesco Mattesini, il trasferimento stesso della Forza Q
da Algeri a Bona sarebbe stato determinato anche dalle
intercettazioni di “ULTRA”, che fin dal 22 novembre avevano
permesso ai comandi britannici di sapere che a breve alcuni convogli
dell'Asse sarebbero partiti per Tripoli, Tunisi e Biserta).
Nel
pomeriggio del 1° dicembre si susseguirono gli avvistamenti dei
convogli italiani da parte dei ricognitori britannici: dapprima il
«B», alle 14.40, indi il «C», alle 15, poi il «G» un quarto
d'ora dopo. L'unico convoglio a non essere ancora stato avvistato al
momento della partenza della Forza Q era proprio quello che ne
sarebbe caduto vittima, l'«H»: esso venne difatti avvistato
soltanto alle 20.15.
Alle
17.30 del 1° dicembre (per altra fonte, alle 17.05 od alle 19) le
navi della Forza Q salparono da Bona ed assunsero la velocità di 27
nodi, dirigendo verso il banco di Skerki, una secca lunga 16 miglia e
larga otto, situata presso la costa tunisina (a nord di Capo Bon e
60-80 miglia a nord di Biserta) e 60 miglia ad ovest di Marettimo: lì
dovevano passare i convogli diretti in Tunisia. Per la Forza Q questa
era in assoluto la prima uscita in mare a caccia di naviglio
dell'Asse.
Basandosi
sui segnali di scoperta trasmessi dai ricognitori, Harcourt pensava
di poter intercettare ad ovest del Canale di Sicilia i convogli «G»
e «H», che dovevano navigare piuttosto vicini l'uno all'altro;
quindi predispose la navigazione in modo da raggiungerli ed
attaccarli di sorpresa verso mezzanotte, con l'ausilio del radar. Ai
comandanti delle sue navi l'ammiraglio britannico aveva impartito
queste istruzioni: «a)
Tenersi in linea di fila in modo che ogni nave fuori della linea
[possa essere] chiaramente
[identificata come] nemica.
b) Portare l'azione a fondo, attaccare prima la scorta e poi il
convoglio, l'ammiraglia segnalerà l'unità di scorta da attaccare
puntando la prora nella sua direzione. c) Usare illuminanti solo se
la visibilità non consente di scorgere i punti di caduta dei colpi.
d) In caso di forte separazione dalla linea segnalare coi fanali di
mischia la propria posizione. e) Fino all'inizio dell'azione, fare le
segnalazioni esclusivamente a luce oscurata in linea di fila col
metodo F. f) Mantenere l'assoluto silenzio radio durante
l'avvicinamento. g) In caso di assoluta necessità, consentite
esclusivamente segnalazioni radiofoniche limitate all'orizzonte, per
non consentire l'intercettazione radiogoniometrica da parte del
nemico».
Per
ingannare eventuali ricognitori avversari, la Forza Q seguì rotta
verso ovest fino al tramonto, per poi invertire la rotta per 052°
alle 18, alla velocità di 27 nodi.
Anche
Supermarina aveva contezza, almeno in parte, degli avvenimenti in
corso: sin dal 30 novembre (quando i convogli «B» e «C» erano
stati avvistati da un ricognitore britannico a sudovest di Napoli,
verso le 23), tutti i segnali di scoperta dei ricognitori britannici
erano stati intercettati dalle stazioni radio della Marina e dalle
stazioni d'ascolto dell'Aeronautica e del Comando tedesco dello
scacchiere Sud; e com'era pratica comune, una volta decifrati
Supermarina li aveva ritrasmessi all'aria, così che i convogli in
mare sapessero di essere stati avvistati, e dunque potessero prendere
i provvedimenti del caso.
La
sera del 30 novembre (per altra fonte nel primo pomeriggio, alle
13.30), inoltre, ricognitori dell'Asse avevano avvistato forze
leggere nemiche nel porto di Bona: sei navi da guerra di tipo
imprecisato, ma ritenute essere un incrociatore e cinque
cacciatorpediniere (era appunto la Forza Q). Supermarina, intuendo
correttamente che tali forze fossero destinate all'impiego contro i
convogli (si valutava che la distanza tra Bona e l'area di passaggio
dei convogli «B» e «H» nella notte tra l'1 ed il 2 dicembre
sarebbe stata percorribile in sei ore, se le navi britanniche
avessero mantenuto una velocità attorno ai 30 nodi), chiese tramite
l'ufficio di collegamento della Marina presso il Comando tedesco del
fronte Sud (Oberbefehlshaber Süd, al comando del
feldmaresciallo Albert Kesselring e con sede a Frascati), retto dal
capitano di fregata Virginio Rusca, che al tramonto del 1° dicembre
venisse effettuata una nuova ricognizione sul porto di Bona, per
meglio stabilire che tipo di navi da guerra vi si trovassero.
Un
aereo Junkers Ju 88 del 122° Gruppo Ricognizione Strategica della
Luftwaffe, accompagnato da un idrovolante CANT Z. 1007 bis del 51°
Gruppo Ricognizione Strategica della Regia Aeronautica, venne infatti
inviato su Bona, ma nessuno dei due fece ritorno. Dopo insistenti
richieste di Supermarina, alle 23.05 l'Ufficio di collegamento con il
Comando in Capo delle forze tedesche in Italia, Maricolleg Frascati,
riferì telefonicamente del mancato rientro dei due aerei, spiegando
che probabilmente erano stati entrambi abbattuti (ed infatti era
andata proprio così: due caccia Spitfire del 242nd
Squadron della RAF, pilotati dal tenente Claude Gordon Hodson e dal
sergente Like Mallison, avevano abbattuto il CANT Z. 1007, e Mallison
aveva abbattuto anche lo Ju 88). Venne inoltre aggiunto che le
ricognizioni compiute fino alle 18 dal 122° Gruppo Ricognizione
Strategica non avevano avvistato navi nemiche in mare aperto (e
infatti la Forza Q era partita alle 17.30).
L'arrivo
dei rifornimenti trasportati dai quattro convogli era atteso con
grande urgenza, e non era pensabile di rimandare l'operazione
soltanto perché erano state avvistate in porto forze navali nemiche
(come fu scritto nel promemoria n. 125 inviato il 3 dicembre da
Supermarina al Comando Supremo ed a Mussolini: "Se
si dovessero contro mandare le operazioni di trasporto e dirottare i
convogli tutte le volte che si riceve la prima notizia di un
avvistamento, che spesso non è confermata o quando per la presunta
presenza del nemico in una zona risulta possibile un suo intervento,
il traffico sarebbe certo più sicuro, ma di gran lunga meno intenso.
E i consumi di nafta diventerebbero proibitivi").
Nel Canale di Sicilia, in quel momento, si trovava in navigazione la
X Squadriglia Cacciatorpediniere (Maestrale, Grecale, Ascari)
che aveva appena ultimato una missione di posa di mine; essendo il
convoglio «H» più veloce e dotato di scorta più potente del
convoglio «B», ed in considerazione del fatto che alla mezzanotte
del 1° dicembre il convoglio «H» avrebbe dovuto già godere della
“protezione” dei bassi fondali del banco Keith (situato sei
miglia a nord del banco Skerki e lungo una trentina con orientamento
nordest-sudovest, presentava scogli affioranti e fondali che in
alcuni punti non superavano i 7-8 metri) e dei tratti già posati
dello sbarramento di mine in corso di realizzazione, Supermarina
decise alle 19.35 di inviare i tre cacciatorpediniere a rinforzare la
scorta del convoglio «B» e non quella del convoglio «H».
Aldo
Cocchia osserva nelle sue memorie che a Messina si trovava in quel
momento (e vi aveva base fin dall'inizio della guerra) la III
Divisione Navale, con gli incrociatori pesanti Trieste
e Gorizia,
che avrebbe potuto essere fatta uscire in mare per fornire appoggio
indiretto ai convogli in caso di attacco navale: i pezzi da 203 mm di
questo incrociatori pesanti avrebbero avuto facilmente ragione,
almeno sulla carta, dei 152 di cui disponevano gli incrociatori
leggeri della Forza Q. Va però notato che in realtà le navi
maggiori italiane, per scarsità numerica e qualitativa dei radar (né
il Trieste
né il Gorizia
ne erano dotati) e carenza di addestramento nel combattimento
notturno, erano fortemente svantaggiate negli scontri notturni contro
quelle britanniche, che di notte erano invece nel loro elemento; e
che nell'unico caso in cui un convoglio italiano protetto da
incrociatori pesanti era stato attaccato nottetempo da una formazione
leggera britannica, l'amaro scontro del convoglio «Duisburg» del 9
novembre 1941, gli incrociatori pesanti assegnati alla scorta
indiretta del convoglio – proprio la III Divisione – si erano
mostrati completamente incapaci di salvarlo dalla distruzione, o di
infliggere il minimo danno agli incrociatori leggeri attaccanti.
Forse furono queste considerazioni a decidere di non far uscire in
mare la III Divisione, forse la sempre più preoccupante situazione
delle riserve di nafta (lo storico James Sadkovich afferma che la
ragione per cui gli incrociatori rimasero in porto fu questa); fatto
sta che la III Divisione rimase a Messina e nemmeno ebbe ordine di
tenersi pronta ad uscire in mare. In effetti alla questione,
sollevata da Cocchia, non si fa alcun accenno nella storia ufficiale
dell'USMM, così che non è neanche dato sapere se l'impiego della
III Divisione venne almeno considerato da Supermarina.
Altra
e forse più fondata critica che Cocchia rivolge nel suo libro è che
Supermarina, pur sapendo fin dal 30 novembre che navi da guerra
britanniche si trovavano a Bona, non ritenne di dovergliene dare
informazione.
Anche
da parte tedesca, a posteriori, vennero indirizzate a Supermarina
critiche per non aver impiegato navi maggiori a protezione del
convoglio; nel già citato promemoria n. 125 fu risposto in proposito
che "Una Divisione Navale dislocata a Cagliari avrebbe permesso
non di impedire l'azione navale, ma di vincolarla con la possibilità
di un incontro all'alba" dal momento che le navi maggiori
italiane difettavano ancora sia nelle strumentazioni (radar, apparati
di avvistamento ottico a grande luce notturna) che nell'addestramento
per il combattimento notturno.
Verso
le tre del pomeriggio del 1° dicembre l'Aeronautica della Sardegna
inviò a bombardare Bona, nel tentativo di neutralizzare le forze
navali ivi avvistate, cinque caccia Reggiane Re 2001 del 22° Gruppo
armati con bombe da 250 kg, al comando del capitano Germano La Ferla,
e dieci bombardieri Savoia Marchetti S.M. 84 dell'89° Gruppo del 32°
Stormo Aerosiluranti, anch'essi armati con bombe. Questi attacchi
risultarono del tutto inefficaci; i Re 2001 effettuarono
bombardamento in picchiata ma non poterono osservarne l'esito perché
gli obiettivi erano completamente coperti da banchi di nubi (nessuna
nave fu colpita), ed altrettanto infruttuoso fu l'attacco degli S.M.
84, tre dei quali (quelli dei capitani Enzo Stefani ed Umberto
Camera, comandanti rispettivamente della 228a
e 229a
Squadriglia, e quello del sottotenente Paolo Cojana) furono abbattuti
dagli Spitfire dell'81st
e 242nd
Squadron della RAF (in particolare dagli aerei del sergente James
Robin Mallinson e del segente maggiore George Alec Coutts;
parteciparono all'azione anche dieci Spitfire statunitensi del 52nd
Fighter Group dell'USAAF, comandati dal colonnello Graham W. West,
che fu però il solo a rivendicare un danneggiamento), mentre altri
tre vennero seriamente danneggiati e dovettero compiere degli
atterraggi di fortuna. I mitraglieri degli S.M. 84 rivendicarono
l'abbattimento
di sei caccia nemici, ma in realtà nessuno Spitfire era andato
perduto. La Forza Q non subì alcun danno.
Alle
16.30 Supermarina chiese a Superaereo di sollecitare il comando del
II. Fliegerkorps tedesco ad attaccare durante la notte gli aeroporti
tra Bona e Bougie, per impedire che gli aerei ivi stanziati potessero
attaccare i convogli in mare; i tedeschi risposero che 18 bombardieri
(dieci Heinkel He 111, sei Ju 88 e due Dornier Do 217) avrebbero
compiuto tali attacchi.
Alle
22.40 del 1° dicembre un altro Ju 88 del 122° Gruppo Ricognizione
Strategica della Luftwaffe avvistò per caso una ventina di miglia a
nord di Biserta (in posizione 37°42' N e 09°45' E, a 60 miglia per
290° da Capo Bon, nel quadratino 9843/03 Est: ossia a circa 75
miglia dalla posizione del convoglio «H») un gruppo di cinque navi
da guerra di medio tonnellaggio e tipologia imprecisata, aventi rotta
stimata 90° (sbagliava di poco: quella reale era 104°) ed alta
velocità, in posizione poi rivelatasi quasi esatta: si trattava
della Forza Q. La radio dell'aereo era però in avaria, così che
l'avvistamento poté essere riferito a Supermarina (mediante
comunicazione telefonica di Superareo, lo Stato Maggiore
dell'Aeronautica) soltanto dopo l'atterraggio, alle 23.30. Poco dopo,
Supermarina venne informata anche dell'intercettazione di un
messaggio diretto ai bengalieri britannici con la richiesta di
smettere di illuminare il convoglio: altro segno che il nemico era
vicino, volendo evitare che le navi italiane potessero avvistare le
sue alla luce dei bengala. Alle 23.40 venne lanciato ai convogli il
segnale di scoperta relativo a questa forza navale.
L'Oberbefehlshaber Süd
chiese persino a Supermarina se le navi avvistate alle 22.40
potessero essere italiane, ma ricevette risposta negativa, dal
momento che le uniche unità italiane in navigazione nelle acque in
cui era avvenuto l'avvistamento erano tre motosiluranti, tra Biserta
e la Galite. Da parte italiana vennero sollecitate informazioni più
precise sulla tipologia delle navi avvistate, chiedendo di comunicare
se si fosse trattato di motosiluranti; l'O.B.S. replicò che l'ora a
cui era avvenuto l'avvistamento rendeva impossibile
un'identificazione più chiara, ma che non si poteva del tutto
escludere che si potesse trattare anche di motosiluranti. Considerate
la rotta e posizione delle unità avvistate, comunque, Supermarina
concluse che dovevano essere nemiche, e quando l'O.B.S. chiese se
poteva attaccarle venne data risposta affermativa, non mancando di
comunicare la rotta e posizione dei convogli «B» e «H» e di
sottolineare la necessità di non attaccarli per errore.
(Diverse
ore dopo più tardi, quando ormai la sorte del convoglio «H» si era
compiuta, il Comando della Kriegsmarine in Italia avrebbe comunicato
a Supermarina che il Comando della Marina tedesca in Tunisia aveva
riferito che "Aereo
comunica: Formazione nemica sarebbe composta, alle ore 01.40, in
37°37'N, 11°15'E, di un incrociatore e cinque cc.tt.").
Alle
23.40 un altro ricognitore tedesco segnalò, senza indicare l'ora
dell'avvistamento, "6
unità leggere Rv. 90° 20 mgl. a Nord di Biserta".
Alle 00.25 l'O.B.S. informò Superaereo che avrebbe attaccato le navi
avvistate a nord di Biserta con con bombardieri durante la notte e
con aerosiluranti all'alba.
Supermarina,
intanto, valutò l'evolversi della situazione: il convoglio «C»,
unico diretto a Tripoli anziché in Tunisia, era troppo lontano dalla
posizione della forza avvistata perché questa costituisse un
pericolo (infatti ad attaccarlo furono inviati aerei e la
ricostituita Forza K da Malta); quanto al convoglio «G», esso non
poté più essere minacciato, perché la minaccia nei suoi confronti
si era già manifestata con successo: alle 21.56, la Giorgio era
stata colpita ed incendiata da un aerosilurante. In quel momento
la Climene la
stava rimorchiando verso Trapani.
I
convogli a rischio erano quindi il «B» e l'«H», e specialmente
quest'ultimo, dato che si trovava in posizione più avanzata, e la
sua rotta lo avrebbe portato con maggior probabilità ad incontrare
le navi britanniche. Nell'ipotesi che queste ultime procedessero a
trenta nodi, l'ora a cui questo sarebbe avvenuto venne stimata, con
notevole precisione, tra le 00.10 e le 00.30 del 2 dicembre. Si
ponderò la possibilità di far tornare indietro i due convogli: per
il «B», che era arretrato di una sessantina di miglia rispetto
all'«H», questo era possibile, anche se non venne ordinato,
preferendo lasciare che fosse il caposcorta a decidere (avendo
ricevuto il segnale di scoperta delle 23.40 ed il messaggio inviato
dal Da Recco
a Supermarina alle 00.30, aveva abbastanza elementi per poter
decidere: e infatti decise a mezzanotte di tornare indietro,
dirigendo prima per Palermo e poi per Trapani); per l'«H», invece,
sembrava già troppo tardi. Gli ordini di dirottamento dei convogli
venivano di solito eseguiti solo 30-45 minuti dopo essere stati
impartiti, a causa dei tempi necessari alla trasmissione e ricezione
degli ordini, ed all'esecuzione delle manovre; di conseguenza, tenuto
conto anche dell'elevata velocità delle navi britanniche (sempre
stimata in 30 nodi), un ordine che il convoglio «H» invertisse la
rotta avrebbe fatto sì che la Forza Q lo raggiungesse proprio mentre
era in corso la manovra di inversione della rotta, quindi in un
momento di massimo disordine, in cui il convoglio sarebbe stato preda
più facile. In ogni caso il contatto tra il convoglio e la forza
nemica sarebbe stato soltanto rimandato di poco, date le posizioni
relative dei due gruppi; dovendo quindi rischiare in ogni caso, si
preferì che il convoglio proseguisse almeno in formazione ordinata e
non vennero dunque ordinati cambiamenti di rotta.
Intanto,
il convoglio «H» navigava incontro al suo destino. Dopo la partenza
da Palermo le navi mercantili si erano disposte in linea di fronte,
tranne il KT 1
che seguiva la Puccini
nella scia: Cocchia gli aveva ordinato di seguire la motonave ed
imitarne ogni manovra, disposizione cui la piccola nave tedesca si
attenne scrupolosamente.
Alcuni
MAS precedevano il convoglio a distanza, pattugliando la sua rotta ed
effettuando ascolto idrofonico per rilevare eventuali sommergibili
nemici; calato il tramonto, tuttavia (al largo di Favignana),
rientrarono alla base. Sempre al tramonto, come sempre, se ne andò
anche la scorta aerea (ultimi apparvero, poco prima del crepuscolo,
alcuni caccia Macchi Mc 202, che rimasero sul cielo del convoglio una
ventina di minuti prima di andarsene).
Nel
tardo pomeriggio (verso le 17 secondo le memorie di Cocchia, ma più
probabilmente dovevano essere le 19/19.30) il Da
Recco intercettò un
messaggio radio con cui Supermarina informava la X Squadriglia
Cacciatorpediniere ed il convoglio «B» dell'avvistamento a Bona di
navi nemiche il 30 novembre, ed ordinava alla X Squadriglia di andare
a rinforzare la scorta del convoglio «B». Non avendo ricevuto alcun
messaggio indirizzato a lui, Cocchia ne trasse l'impressione che
Supermarina, sulla base degli elementi a disposizione, non ritenesse
che il suo convoglio fosse a rischio.
Alle
17.30 il convoglio fu all'altezza di Trapani e da quel porto uscì
l'Aspromonte,
cui Cocchia ordinò di accodarsi all'Aventino,
in modo da assumere una formazione su doppia colonna; al termine di
questa manovra il convoglio era così disposto: i mercantili
procedevano su due colonne parallele, formando i quattro vertici di
un quadrato di lato 800 metri; la colonna di dritta era
costituita da Puccini (in
testa) e KT 1 (in
coda), quella di sinistra da Aventino (in
testa) ed Aspromonte (in
coda). Sui lati, alla stessa altezza dei mercantili di coda ed a 1500
metri di distanza da essi, si trovavano sulla dritta il Camicia
Nera e sulla sinistra
la Clio;
a proravia dritta della Puccini,
a 1700 metri di distanza ed in posizione più avanzata di
circa 800 metri, si trovava la Procione,
ed a proravia sinistra dell'Aventino,
ad eguale distanza, il Da
Recco (Procione e Da
Recco procedevano in
testa al convoglio per difesa antisommergibili, essendo dotati di
ecogoniometro; erano seguiti in colonna rispettivamente da Camicia
Nera e Clio,
a 1600 metri di distanza). Il Folgore procedeva
in coda al convoglio, a mille metri a poppavia
di Aspromonte e KT
1, equidistante dalle due
navi (in posizione idonea per coprire i mercantili con cortine
nebbiogene in caso di inversione di rotta, oltre che per
contrattaccare); questo cacciatorpediniere era munito di uno degli
ultimi ritrovati della tecnologia bellica tedesca, un apparato
«Metox», in grado di rilevare le emissioni dei radar ed allertare
così le navi del convoglio della presenza nelle vicinanze di navi o
aerei muniti di radar. La velocità del convoglio era di dieci nodi,
la rotta di 245° (est/sudest); la navigazione si sarebbe svolta, sia
di giorno che di notte, in base al grafico di marcia previsto dagli
articoli 18 e 19 della D.T. 1S del luglio 1942.
Come
previsto, il convoglio «H» superò il convoglio «G» alle 16.30,
dopo di che quest'ultimo gli si accodò a qualche miglio di distanza;
calato il sole, passarono un paio d'ore piuttosto tranquille. Quando
scese il buio della sera l'orizzonte era coperto da un po' di
foschia, e la luna era nascosta da fitti banchi di nuvole, il che
limitava fortemente la visibilità. Il mare era calmo, la notte buia.
Poco
dopo le otto di sera del 1° dicembre comparvero i primi aerei
avversari, che per le quattro ore successive continuarono a sorvolare
il convoglio illuminandolo, ma senza portare a fondo i loro attacchi.
Nel frattempo, a scopo difensivo, la distanza tra le colonne dei
mercantili era stata raddoppiata, mentre quella tra i mercantili e le
navi scorta era stata ridotta, così che queste ultime potessero più
agevolmente coprire i trasporti con cortine di nebbia. Cocchia
informò Supermarina che il convoglio era stato avvistato da aerei
poco dopo le 20 e che continuava ad essere seguito da ricognitori.
Già
alle 19.56 il Folgore informò
il caposcorta della presenza in zona di alcuni radar, rilevati dal
suo apparato «Metox», comunicando "Siamo stati localizzati da
aereo"; quando Cocchia chiese quale fosse la distanza, la
risposta fu che al momento non era possibile precisarla, ma che
l'aereo era in avvicinamento. Cocchia ordinò a tutte le unità del
convoglio "Tenetevi pronti a far nebbia", e poi continuò a
chiedere aggiornamenti al Folgore,
che precisò che le emissioni radar provenivano da aerei distanti
circa 50 km, i quali avevano localizzato il convoglio e lo avrebbero
raggiunto di lì a otto o dieci minuti, e successivamente che l'aereo
era "sempre sopra di noi". Cocchia diede ordine di iniziare
ad emettere cortine fumogene, mandò tutto il personale al posto di
combattimento ed ordinò alle navi dipendenti di tenersi pronte a
manovrare al suo segnale.
Dalle
20.30 iniziarono a piovere i primi bengala: a lanciarli erano
ricognitori muniti di radar di scoperta navale ASV. Da lì in poi la
luminaria non si spense più, fin quasi a mezzanotte; bengala
continuarono ad accendersi anche a gruppi di 4-5-6 ai lati del
convoglio, mentre il Folgore continuava
a rilevare le emissioni di numerosi radar attorno ad esso. Tuttavia a
questi lanci di bengala non seguì nessun attacco: Cocchia non poteva
saperlo, ma il compito di quegli aerei era semplicemente di rilevare
formazione, rotta e velocità del convoglio per comunicarle alla
Forza Q. Il caposcorta avrebbe poi ricordato che in questo frangente
“Io manovravo di continuo
emettendo cortine di nebbia. Mi aspettavo il lancio di bombe o di
siluri da un momento all'altro
(…) Le siluranti e le navi
mercantili mi assecondavano abbastanza, ma eravamo ben lontani dalle
manovre perfette che avevo realizzato altre volte quando
(…) ero
(…) riuscito ad occultare
completamente i piroscafi che scortavo e a disorientare i velivoli
attaccanti. Ora i nostri movimenti erano slegati, e anche il servizio
delle comunicazioni non funzionava come avrebbe dovuto e come avrei
voluto. L'apparato ultracorte del Puccini aveva funzionamento
irregolare, il piroscafo mi sentiva ad intervalli, ubbidiva agli
ordini male e con ritardo e ciò significava limitare molto la mia
libertà di movimenti”.
C'era
chi se la passava peggio: verso poppa, Cocchia vide altri bengala
accendersi là dove sapeva essere il convoglio «G». Ai bengala
seguirono scie luminose di mitragliere che dalle navi sparavano
contro gli aerei, ed altre che dagli aerei sparavano sulle navi; e
poi una grande fiammata. La Giorgio
era stata colpita, come confermò poco dopo un messaggio del Lampo
intercettato sul Da Recco.
Per lungo tempo le fiamme che si levavano dalla petroliera incendiata
rimasero ben visibili dalle navi del convoglio «H», verso poppa,
sempre più lontane.
Alle
20.45 e poi alle 21.10 la Forza Q venne informata da ricognitori
notturni dell'avvistamento del convoglio «H»; sulla base della
prima segnalazione, alle 21 le navi britanniche, che in quel momento
si trovavano in posizione 37°50' N e 09°00' E (a 22 miglia per 360°
da La Galite), accostarono per 104°, sempre a 27 nodi. Harcourt
stimò che uno dei convogli dell'Asse, e forse anche due, avrebbero
raggiunto a mezzanotte un punto situato a due miglia per 053° da
quello in cui si sarebbe venuta a trovare nello stesso momento la
Forza Q.
Alle
23.03 i bengalieri che fino a quel momento avevano illuminato ad
intermittenza il convoglio ricevettero l'ordine "non illuminate
il nemico".
Alle
23.30 il radar tipo 271 dell'Aurora
rilevò due oggetti circa quattro miglia verso sud; Harcourt ritenne
che si trattasse di due motosiluranti, mentre più probabilmente
erano le torpediniere Partenope
e Perseo,
inviate ad effettuare dragaggio ed ascolto ecogoniometrico lungo la
rotta che avrebbe dovuto essere seguita dai convogli «B» e «H».
Ritenendo che le condizioni fossero tali da impedire un attacco di
MAS, la Forza Q mantenne rotta invariata (104°). Alle 23.37 vennero
avvistati bagliori ad una ventina di miglia di distanza su
rilevamento 078°; al contempo il cielo iniziò ad annuvolarsi, ando
luogo a violenti acquazzoni ad intermittenza. Alle 00.01 del 2
dicembre, in posizione 37°32' N e 10°35' E, la Forza Q assunse
rotta 050° e ridusse la velocità a 25 nodi; un minuto più tardi
avvistò sette bagliori su rilevamento 050°, a quindici miglia di
distanza.
Siccome
i bengala continuavano ad accendersi tutt'intorno in numero mai visto
prima (qualche mese dopo il comandante di uno dei cacciatorpediniere
di scorta al convoglio «B», distante una trentina di miglia,
avrebbe detto a Cocchia di aver contato 248 bengala, mentre di solito
non ne veniva lanciata neanche una cinquantina), tale da far pensare
che si stesse preparando un attacco aereo di intensità inaudita, ed
ormai il convoglio era evidentemente stato scoperto, il comandante
Cocchia decise di rompere il silenzio radio per informare Supermarina
di essere sotto attacco aereo, chiedendo l'intervento della caccia
notturna. Ordinò agli operatori radio della Luftwaffe di rivolgere
analoga richiesta al comando dell'aviazione tedesca della Sicilia.
Anche
un sommergibile, nel frattempo, stava tentando di attaccare il
convoglio «H», della cui presenza era stato informato:
il Seraph (tenente di vascello Norman Limbury
Auchinleck Jewell), inviato insieme al gemello Sibyl nella
zona che i convogli dell'Asse diretti in Tunisia avrebbero dovuto
probabilmente attraversare, avvistò le navi italiane alle 21.55 e si
avvicinò per attaccare, dando inizio ad un inseguimento nel quale fu
notevolmente agevolato dai bengala continuamente lanciati dagli
aerei. Alle 23.39, tuttavia, uno dei bengala cadde proprio dietro il
sommergibile; vedendo una nave della scorta avvicinarsi ad alta
velocità, Jewell credette d'essere stato avvistato e s'immerse alle
23.43. Due cacciatorpediniere passarono sui suoi lati, poi si
riunirono al convoglio.
Alle
23.01, mentre il convoglio imboccava un canale piuttosto ristretto
tra due vaste zone minate, il Da
Recco ricevette un
messaggio di Supermarina con le disposizioni per il pilotaggio che le
torpediniere della scorta avrebbero dovuto effettuare nelle vicinanze
del porto di destinazione. Alle 23.30, sulla base di un messaggio di
Supermarina che ordinava di mandare una torpediniera ad effettuare
dragaggio a proravia del convoglio (questo si stava infatti
avvicinando ad una zona disseminata di campi minati, la cui esatta
posizione non era del tutto certa), il caposcorta Cocchia destinò
la Procione a
questo compito, ordinandole di portarsi "bene di prora" e
di mettere i paramine in mare a mezzanotte.
Pochi
minuti prima di mezzanotte si accese al traverso a dritta del
convoglio una cortina di ben quindici bengala: Cocchia li avrebbe
ricordati come “una
barriera luminosa dalla quale si staccavano grosse gocce di fuoco che
rigavano lentamente l'atmosfera di un giallo rossastro di malaugurio…
formavano uno strano arabesco che gettava tutt'intorno una bieca
illuminazione. Finora non mi era mai capitato i vedere accendere nel
mio cielo contemporaneamente tanti illuminanti, ma posso assicurare
che non indugiai molto nella contemplazione dello spettacolo”.
Presagendo che fossero stati lanciati in preparazione di un pesante
attacco di aerosiluranti, ordinò di manovrare e di emettere nebbia
artificiale, accostando di 90° a sinistra con tutte le navi del
convoglio (manovra che riuscì fino a un certo punto, data la
mancanza di affiatamento e le comunicazioni tutt'altro che ottimali;
nel mentre i mercantili furono occultati abbastanza bene dalle
cortine nebbiogene emesse dalle unità della scorta) e dirigendo così
proprio verso un campo minato italiano; Cocchia contava di tornare
sulla rotta originaria dopo qualche minuto, non appena spentisi i
bengala, ma proprio quando questo era ormai avvenuto e stava per dare
l'ordine di tornare sulla vecchia rotta, a mezzanotte, venne
decifrato il segnale di scoperta della Forza Q trasmesso da
Supermarina alle 23.40, in cui si dava notizia dell'avvistamento di
navi britanniche a nord di Bona, in navigazione verso est ad alta
velocità, da parte dell'aereo tedesco.
Supermarina
aveva ritrasmesso il segnale di scoperta all'aria chiedendo al
Maestrale,
la cui squadriglia si trovava insieme al convoglio «B», di accusare
ricevuta (cosa insolita, in quanto solitamente ai segnali di scoperta
lanciati all'aria non si dava il ricevuto); non vi era analoga
richiesta per il Da Recco,
il che una volta di più indusse Cocchia – perplesso anche per il
ritardo con cui il segnale era stato ritrasmesso rispetto all'orario
dell'avvistamento da parte dell'aereo, non potendo ovviamente sapere
dell'avaria alla radio che aveva impedito ad esso di comunicare
l'avvistamento fino all'atterraggio – a ritenere che l'alto comando
ritenesse che il suo convoglio non fosse in posizione tale da essere
minacciato dalla forza navale avvistata. A maggior ragione il segnale
di scoperta ritrasmesso alle 23.40 suonava strano dopo i messaggi
delle 23.01 e delle 23.30, che gli avevano fatto presumere che
Supermarina ritenesse il convoglio al sicuro da ogni pericolo,
giacché in caso contrario “non
avrebbe perduto del tempo per dirmi cose di secondaria importanza e
(…) non avrebbe impicciato
i movimenti del convoglio
(…) mettendoci fra i piedi
una silurante che, per avere in mare l'apparecchio di dragaggio, non
aveva più tutta la sua libertà di azione”.
Per
chiarire i suoi dubbi, alle 00.01 del 2 dicembre Cocchia chiese
ordini a Supermarina, ma subito dopo decise autonomamente di far
spostare il convoglio di tre miglia verso sud; non di più, perché
sapeva che in zona c'erano vasti campi minati, ma non ne conosceva la
precisa ubicazione (secondo Giorgio Giorgerini, intenzione di Cocchia
era invece di spostare la rotta del convoglio verso est). A tale
scopo, alle 00.05 ordinò a tutte le navi di accostare di 90° a un
tempo sulla sinistra (così assumendo rotta 150°, verso
sud-sud-est); poi, alle 00.17, diede ordine di accostare a un tempo
sulla dritta per riassumere la rotta 245° (ovest-sud-ovest). (Per
altra fonte questa duplice accostata sarebbe stata ordinata per
consentire alle torpediniere della scorta di assumere il pilotaggio
del convoglio in prossimità del porto di arrivo, ma sembra probabile
un errore).
Così
riporta la storia ufficiale dell'USMM, mentre nelle sue memorie
Cocchia afferma di aver ordinato la prima accostata, come detto più
sopra, dopo l'accensione dei bengala e prima di ricevere il segnale
di scoperta della Forza Q, in reazione ad un previsto, ma mai
verificatosi, attacco aereo (per versione ancora differente, avrebbe
chiesto a Supermarina l'autorizzazione a spostare il convoglio di tre
miglia verso sud dopo aver ricevuto il segnale di scoperta, ma poco
dopo avrebbe deciso di farlo senza aspettare la risposta di
Supermarina, essendosi intanto accesi dei bengala verso prua, in modo
da rivolgere la poppa a questa nuova cortina luminosa). Dopo aver
ricevuto il segnale di scoperta, dal momento che la rotta assunta con
l'accostata di 90° a sinistra lo allontanava anche dalla probabile
rotta delle navi nemiche, Cocchia decise di proseguire per un altro
po' in quella direzione, invece di tornare sulla rotta precedente
come aveva pensato di fare poco prima di ricevere il segnale; alle
00.15, ritenendo di non poter proseguire oltre per il rischio di
finire sulle mine, diede ordine di tornare sulla rotta di prima.
Le
due accostate, tuttavia (insieme a quello alla Procione di
portarsi a proravia del convoglio), ebbero l'involontario effetto di
scompaginare la formazione del convoglio: la Puccini non
ricevette il secondo ordine (delle 00.17, l'accostata per tornare
sulla rotta originaria) a causa della sua radio malfunzionante, e
proseguì sulla sua rotta, speronando l'Aspromonte;
nessuna delle due navi riportò danni gravi, ma entrambe si fermarono
e rimasero indietro, la Puccini
traversata rispetto alla rotta 245°, l'Aspromonte
scaduto a sudest del convoglio. Per giunta il KT
1, che era sprovvisto di
radio ed aveva l'ordine di seguire la Puccini ed
imitarla nelle manovre, venne perso di vista dopo le 00.05: perse il
contatto col convoglio e, non sapendo cosa fare, proseguì da solo
nella notte.
Nel
frattempo, a mezzanotte, il Seraph era
riemerso. Alle 00.07, in posizione 37°42' N e 11°03' E, il
sommergibile lanciò tre siluri da 4570 metri, dai tubi
prodieri, contro il mercantile di testa del convoglio, la cui stazza
venne valutata in 5000 tsl; Jewell avrebbe voluto lanciarne sei, ma
vide che i primi due avevano corsa
irregolare e decise quindi di interrompere la salva.
I
siluri non andarono a segno, anche se le navi del convoglio
avvertirono due esplosioni subacquee poco prima della collisione
tra Aspromonte e Puccini:
a bordo si credette si trattasse di bombe. Anche sul Seraph
venne avvertita un'esplosione dopo un minuto e 35 secondi dai lanci,
dopo la quale una delle unità di scorta venne vista accostare verso
il sommergibile; Limbury s'immerse per sfuggire alla reazione della
scorta, e scrisse poi nel giornale di bordo di essere stato
sottoposto a caccia da parte di due cacciatorpediniere, rilevati poco
dopo da due unità minori, una delle quali rimase stazionaria mentre
l'altra attaccò con il lancio di sei bombe di profondità, esplose
vicine ma non abbastanza da causare danni. Il comandante britannico
doveva aver avuto le traveggole, dal momento che non vi fu nessuna
azione antisommergibili da parte della scorta del convoglio «H».
Quando più tardi sarebbe riemerso, avrebbe visto una nave in fiamme
in posizione 37°42' N e 11°03' E ed avrebbe creduto di aver
colpito, senza sapere che in realtà la Forza Q era già passata
all'attacco.
Aldo
Cocchia avrebbe poi ricordato che pur essendo dicembre, non faceva
freddo. Era una notte umida senza luna, con nubi scure sparse (alcune
ore dopo, a cose fatte, avrebbe piovigginato), calma di vento e mare
leggermente increspato.
Dopo
la collisione, il Folgore si
avvicinò alla Puccini per
segnalarle la rotta da assumere, mentre la Clio veniva
inviata ad assistere l'Aspromonte,
il cui comandante aveva comunicato di poter proseguire la navigazione
(Cocchia, nelle sue memorie, afferma invece di aver ordinato alla
Clio
di assistere in particolare la Puccini,
essendo questa rimasta danneggiata nella collisione, ma sembra
probabile un errore); le quattro navi formavano un unico gruppetto
piuttosto compatto, circa 6 km di poppa al Da
Recco, che dopo la
collisione aveva cercato di tenersi in posizione prodiera tra
Aventino
e Puccini
per proteggere con l'ecogoniometro i due trasporti carichi di truppe
da attacchi di sommergibili. Alle 00.34 l'Aspromonte
comunicò alla Clio
di poter proseguire, ed un minuto dopo la torpediniera si venne a
trovare sulla sinistra ed a poppavia dell'Aventino,
che formava la colonna sinistra del convoglio, con rotta 245°.
L'Aventino –
unico mercantile ad aver eseguito correttamente e senza incidenti le
due accostate ordinate –, per l'appunto, seguiva il Da
Recco a meno di un
chilometro di distanza, ed era da esso visibile; la Procione,
che stava per mettere a mare i paramine (divergenti), si trovava
in quel momento circa 2000-3000 metri a proravia del Da
Recco, verso nordovest (per
altra fonte era invece 5500 metri a sud del Da
Recco). Il Camicia
Nera era a metà
strada tra l'Aventino ed
il grosso del convoglio, circa 3 km a nord della Puccini,
mentre il KT 1 si
trovava circa 3,5 miglia a nordovest del Da
Recco. (Secondo fonti
britanniche, il Da Recco,
che procedeva su rotta ovest-sud-ovest, si trovava alla testa di una
sorta di malridotta “colonna” composta da Aventino,
Aspromonte
e Clio,
mentre Puccini
e Folgore
lo seguivano in linea di fronte a circa 6 km di distanza, in linea di
fronte, con rotta sud-sud-ovest. Quando la Forza Q attaccò, con
rotta 45°, il Da Recco
si trovava al suo traverso ma in posizione più arretrata rispetto
alla Procione,
seguito a breve distanza da Aventino,
Clio
ed Aspromonte,
tutti con rotta 45°, mentre Folgore
e Puccini
erano un po' più indietro, con rotta 190° circa).
E
proprio in quel momento di confusione, confermando le peggiori
previsioni di Supermarina, arrivò la Forza Q.
Le
navi britanniche procedevano in linea di fila a 20 nodi: nell'ordine
l'Aurora,
il Sirius,
l'Argonaut,
il Quiberon e
per ultimo il Quentin.
Alle
00.21 il radar dell'Aurora rilevò
degli echi tra 040° e 080°, a distanze comprese tra le tre e le sei
miglia: erano le navi del convoglio «H»; col favore del buio, la
Forza Q continuò l'avvicinamento, serrando le distanze con le sue
vittime e preparandosi ad aprire il fuoco. Harcourt diede ordine di
accostare per 040° e ridurre la velocità a 20 nodi.
Sul
Da Recco
sembrava di essere entrati in una fase di illusoria calma: non
giungevano più messaggi né da Roma né da Biserta, né dagli altri
convogli in mare; non si vedevano più bengala e non c'era più
traccia di aerei. Tutt'intorno il silenzio della notte. Ma
l'equipaggio rimaneva al posto di combattimento generale, con i
cannoni carichi e le caldaie accese e pronte a sviluppare la massima
velocità. Il comandante in seconda, capitano di corvetta Pietro
Riva, aveva preso posto sulla plancia poppiera, tenendosi pronto a
governare da lì se ve ne fosse stato bisogno; sul ponte di comando o
nelle immediate vicinanze si trovavano il comandante Cocchia,
l'ufficiale di rotta Giorgio Ascheri con il suo sottordine Goffredo
Giusfredi, l'ufficiale alle comunicazioni Alfredo Zambrini,
l'ufficiale alle armi subacquee Salvatore Tivegna, il direttore di
tiro Giuseppe Sciangula e l'ufficiale alla cifra Renato Federigi.
Alle
00.30 l'ignaro Cocchia chiese ordini a Supermarina in
relazione all'avvistamento delle 22.40: solo a questo punto
Supermarina si rese conto che il convoglio era in ritardo rispetto
alle sue stime, ma ormai era tardi per fare qualcosa. Il Folgore
rilevò col suo «Metox» le emissioni del radar dell'Aurora;
in quel momento il convoglio si trovava una sessantina di miglia a
nordest di Biserta e 40 miglia a nord di Capo Bon, in posizione
37°40' N e 10°58' E secondo le fonti italiane, 37°39° N e 10°50'
E secondo quelle britanniche. Poco dopo la radio del Da
Recco intercettò e decifrò
un segnale di scoperta lanciato all'aria da un'unità britannica con
gruppo orario 003202; il messaggio, intercettato anche da Supermarina
alle 00.33, annunciava "Avvistato
convoglio 3 miglia per 70° mia posizione lat. 37°41'N, long.
10°51'". Alle 00.36
l'Aurora
avvistò otticamente due navi e manovrò per attaccarle: prima ad
essere avvistata, di prua a sinistra, fu una nave di piccolo
tonnellaggio contro la quale furono puntati i pezzi da 152 mm; subito
dopo venne avvistata un'altra piccola nave a distanza leggermente
maggiore. Alle 00.37 la Forza Q variò la rotta per attaccare questa
seconda nave.
Questa
non era altri che il KT
1, il quale procedendo da
solo nell'oscurità, aveva finito con l'imbattersi per primo proprio
nella Forza Q: alle 00.37 l'Aurora ed
il Sirius aprirono
il fuoco da soli 1700 metri contro la piccola nave tedesca,
che venne subito colpita, ed alle 00.39 si unì al tiro anche
l'Argonaut,
che sparò una bordata e lanciò anche un siluro. Nel giro di tre
minuti tutto era finito: del KT
1 non rimanevano che
rottami, cadaveri, forse qualche naufrago. Non vi sarebbero stati
sopravvissuti.
Alle
00.38 la Forza Q diede inizio ad una lenta accostata sulla dritta,
passando di poppa al KT 1
in affondamento, dopo di che (dopo aver diretto verso sud tra le
00.45 e le 00.50) intraprese un'ancor più lenta accostata sulla
sinistra ed all'1.04 assunse rotta per nordest (tornando su rotta
simile a quella iniziale), avvolgendo l'intero convoglio da sud.
Prima ancora che il KT 1
affondasse, l'Argonaut
ed il Quiberon
avevano già rivolto la loro attenzione ad altri bersagli, sparando
contro un'unità leggera avvistata al traverso a dritta, verso
sudest: probabilmente il Da
Recco o la Procione.
Da
bordo del Da Recco
vennero viste accendersi improvvisamente ad una distanza che Cocchia
stimò di 10 km le vampe delle artiglierie delle navi britanniche che
aprivano il fuoco sul KT 1.
Alle 00.38, subito dopo che la Forza Q aveva iniziato il tiro contro
la piccola nave tedesca, il comandante Cocchia trasmise via radio ad
onde ultracorte a tutte le sue unità l'ordine: «Andate
all'attacco»; l'ordine non era più rivolto solo
a Procione e Camicia
Nera (oltre che al Da
Recco stesso), come
originariamente previsto nell'ordine d'operazione, ma anche
a Folgore e Clio:
vista l'intensità ed il volume del fuoco nemico, Cocchia aveva
compreso infatti che la forza attaccante era composta da numerose
navi, e che pertanto sarebbe stato meglio contrattaccare con la
maggior massa possibile di siluranti per massimizzare le probabilità
di successo. Il Folgore,
inoltre, gli appariva insieme al Camicia
Nera essere l'unità della
scorta in posizione tattica più favorevole per un attacco silurante
contro l'avversario, che si trovava a nord del gruppo principale del
convoglio, dunque non avrebbe avuto senso lasciarlo fuori dal
contrattacco. Ai mercantili, contestualmente, Cocchia ordinò di
invertire la rotta verso nord e di accelerare al massimo, dopo di che
con il Da Recco
accostò per rotta vera 290° (nordovest), verso la posizione in cui
si trovava il Camicia Nera,
aumentando gradualmente la velocità. (Anche qui c'è un'incongruenza
tra i testi dell'USMM e le memorie di Cocchia: in queste ultime, egli
afferma di aver ordinato anche al Folgore
di contrattaccare e di aver lasciato la Clio
a proteggere i mercantili, mentre nei primi si afferma che l'ordine
di contrattaccare fu diretto ad entrambe le unità, ma la Clio
si attenne invece alle disposizioni precedenti – restare con i
mercantili – per iniziativa del suo comandante. Dalla successiva
relazione dell'ammiraglio Gasparri risulta che alle 00.38 il Da
Recco ordinò alla Clio
"Invertite
immediatamente la rotta. Fate nebbia").
La
Forza Q, con percorso curvilineo con cui passò da una rotta verso
sud ad una verso nordest, “avvolse” progressivamente tutto il
convoglio (uniche navi che rimasero fuori dall'area “avvolta”
furono Da Recco
e Procione),
compiendo intorno ad esso un giro completo da destra a sinistra e
vomitando ferro e fuoco contro ogni nave che incontrava.
Dopo
il KT 1,
primo ad essere affondato fu l'Aventino:
cannoneggiato dall'Aurora e
dall'Argonaut e
silurato da quest'ultimo o dal Sirius,
affondò alle 00.55, trascinando con sé quasi un migliaio di uomini.
La
Procione,
che aveva ricevuto l'ordine di contrattacco alle 00.40, perse
parecchio tempo per tagliare i cavi dei paramine, e quando alle 00.53
manovrò per andare all'attacco silurante venne ripetutamente
colpita, subendo seri danni che la costrinsero a ritirarsi (arrancò
poi faticosamente fino a La Goletta).
Il
Camicia Nera
compì due attacchi siluranti alle 00.43 ed alle 00.45, senza
successo, venendo infruttuosamente cannoneggiato all'1.07 per poi
ripiegare all'1.14.
La Puccini,
cannoneggiata da tutte e cinque le navi della Forza Q, venne
immobilizzata all'1.08 ed abbandonata dall'equipaggio e dalle truppe
imbarcate, che perirono in mare a centinaia. Rimasta a galla benché
divorata dagli incendi, sarebbe stata finita il giorno seguente
dal Camicia Nera,
nell'impossibilità di rimorchiarla.
Il Folgore,
andato al contrattacco col cannone e col siluro, venne centrato
ripetutamente dal tiro britannico; mortalmente colpito, si capovolse
ed affondò all'1.16, portando con sé il suo comandante ed oltre
metà dell'equipaggio.
L'Aspromonte,
che in un primo momento sembrava essere riuscito a sottrarsi al
massacro, venne poi raggiunto, cannoneggiato dall'Aurora ed
affondato all'1.29.
Quanto
alla Clio,
alle 00.40 accostò sulla sinistra ed iniziò ad emettere una cortina
fumogena per coprire Aventino
e Puccini,
invano; scambiò a più riprese colpi con le navi britanniche, senza
subire danni e senza infliggerne.
Terminata
la mattanza, la Forza Q accostò a sinistra per rientrare a Bona,
passando a nord di quel che restava del convoglio; il Sirius
sparò alcuni colpi contro un cacciatorpediniere apparso di prua a
sinistra all'1.26.
L'insieme
della battaglia è efficacemente tratteggiato dal comandante della
Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Browne Cunningham, nelle sue
memorie, “A Sailor's Odyssey”: “…per
il nemico fu un olocausto. Ingaggiati a ridotta distanza, quattro
trasporti e tre cacciatorpediniere vennero affondati od incendiati.
Era una scena agghiacciante di navi che esplodevano e s'incendiavano
tra nubi di fumo e vapore; di uomini che si gettavano in mare mentre
le loro navi affondavano; e di automezzi trasportati sul ponte che
scivolavano e cadevano in mare quando le navi si capovolgevano
(…) I nostri sommergibili
l'indomani mattina riferirono di vaste zone coperte da rottami e un
denso strato di olio con numerosi cadaveri indossanti giubbotti
salvagente”.
Quanto
al Da Recco,
aveva messo subito la prua verso le vampe avvistate al momento
dell'apertura del fuoco da parte della Forza Q (distante in quel
momento circa 7 km dal cacciatorpediniere) ed aumentato la velocità
al massimo, trasmettendo intanto a Supermarina, alle 00.40, il
segnale di scoperta della formazione nemica, lanciato sia su onde
ultracorte che con la radio principale; alle 00.42 Cocchia fece
aprire il fuoco verso dritta, contemporaneamente con tiro battente (i
complessi 1 e 3 da 120 mm) e illuminante (il complesso 2), per
«rendere visibile il
bersaglio non solo al Da Recco, ma anche a tutte le siluranti alle
quali avevo dato l'ordine di andare all'attacco».
Non passò molto prima che salve britanniche iniziassero a cadere in
mare su entrambi i lati del cacciatorpediniere, molto vicine:
probabilmente provenivano dall'Argonaut
e dal Quiberon,
che più o meno a quell'ora (00.37-00.38 secondo i rapporti
britannici) spararono contro un'unità avvistata verso sudest; alle
00.43 anche l'Aurora
tirò brevemente con i pezzi secondari da 102 mm contro una nave non
identificata sulla sua dritta, distante circa 5500 metri, che poteva
essere il Da Recco
oppure la Procione.
Alle 00.48 la Clio,
avendo visto una nave accendere i proiettori, chiese al Da
Recco se fosse nemica, ma
questi fu preceduto nella risposta, affermativa, dal Camicia
Nera.
Cocchia
avrebbe poi ricordato: “Il
nemico sparava presto e bene. Tra di noi le sue salve piovevano
fitte, raccolte e ben centrate, meglio che in un tiro diurno. Di
tanto in tanto, ma piuttosto raramente, una serie di illuminanti
sparati dalle navi ci rischiarava a giorno, allora il tiro battente
si infittiva. Non era passato che qualche minuto dall'inizio
dell'azione, nessuno di noi era ancora riuscito ad arrivare al lancio
dei siluri e già, sinistre, alte, si levavano sul mare le fiamme del
primo piroscafo incendiato. Col Da Recco, mentre correvo sulle navi
inglesi, sparai qualche salva facendo punteria sulle vampate che si
accendevano all'orizzonte”.
Il
Da Recco
continuò a sparare per parecchi minuti, poi cessò il fuoco
(“perché, a sparare così,
non avevo nessuna probabilità di colpire il beraglio, mentre ad ogni
colpo, non solo richiamavamo l'attenzione dei britannici su di noi,
ma restavamo tutti abbagliati per un bel pezzo perché purtroppo le
nostre cariche per il tiro notturno avevano una vampa molto più
forte di qulla che avremmo voluto e di quella che avevano
(…) le navi inglesi”)
ed accostò un poco in fuori, salvo riprendere per qualche minuto il
tiro alle 00.55. Alle 00.57 ebbe inizio un'accostata per dirigere
verso est con il proposito di rimettere la prua sulla Forza Q, che
Cocchia intuiva essergli intanto passata di poppa (“originariamente
il convoglio camminava con rotta ponente, la corsa
sul nemico era stata fatta con rotta all'incirca nord, e presi ora ad
accostare per levante per stabilire ad ogni costo il contatto”).
I colpi britannici cadevano spesso molto vicini al Da
Recco, tanto che ad un
certo punto il direttore di tiro Sciangula si rivolse a Cocchia e gli
disse, “con l'aria di
considerare la cosa come liquidata”,
"Ormai ci hanno inquadrati!". Tuttavia, poco dopo le salve
attorno al Da Recco
iniziarono a diventare meno frequenti, per poi cessare del tutto. Ma
nel frattempo un'altra nave aveva preso a bruciare: “Per
un attimo sperammo trattarsi di una delle navi avversarie, ma capimmo
presto che per un altro dei nostri piroscafi la sorte era omai
segnata fatalmente”. Ogni
tanto un aereo sorvolava il Da
Recco a bassa quota, ma le
navi britanniche sembravano invisibili: dapprima erano state visibili
solo le vampe delle loro artiglierie, adesso nemmeno quelle.
Durante
tutta l'azione il Da Recco
si mantenne in contatto con le unità dipendenti, dando e ricevendo
informazioni; tra le 00.46 e le 00.54 ricevette da Camicia
Nera e Folgore
notizia dei loro lanci di siluri, e si diresse allora verso est per
aggirare la Forza Q, intenta a sparare sui mercantili (stava in
quella fase manovrando sulla sinistra del convoglio, con rotta sud),
prendendola alle spalle ed attaccandone l'unità di coda. Alle 00.55,
per evitare di essere bersaglio di fuoco amico (dato che con questa
manovra sarebbe finito approssimativamente sulla rotta che la Forza Q
aveva seguito nella fase iniziale del combattimento), il Da
Recco informò tutte le
unità dipendenti di tale proposito, comunicando al radiotelefono
"Sto aggirando il nemico da ponente; ho aperto il fuoco".
La risposta del Camicia
Nera, che riferì di aver
lanciato tutti i siluri (un minuto prima aveva comunicato di aver
colpito un incrociatore nemico con un siluro), sollevò inizialmente
la speranza che una nave britannica fosse stata affondata, ma sul Da
Recco ci si dovette presto
ricredere dal momento che pur seguendo adesso la rotta seguita dal
nemico fino a poco prima, non era visibile alcun relitto lasciato da
una nave colpita dai siluri del Camicia
Nera, né incendi di navi
britanniche. A bruciare, invece, era il terzo mercantile del
convoglio. La frustrazione di Cocchia è ben espressa da queste
parole: “Non erano passati
che 15 o 20 minuti dall'inizio del combattimento e il nostro
convoglio era già praticamente distrutto senza che noi fossimo
riusciti a riportare alcun successo, eppure ci eravamo gettati
addosso agli inglesi senza un attimo di esitazione o di incertezza.
Il nemico regolava la sua distanza da noi come voleva, e per mezzo
dei suoi perfezionati strumenti, sparava sui piroscafi come in
un'esercitazione!”.
All'una
di notte venne avvistato di prora un cacciatorpediniere non
identificato: sul Da Recco
ci si preparò inizialmente a lanciare i siluri ma subito dopo, nel
dubbio che si trattasse di un'unità italiana (come probabilmente
era, forse la Procione
od il Camicia Nera),
venne dato ai tubi di lancio l'ordine di “fare attenzione”;
all'1.02 venne chiesto al Camicia
Nera dove fosse il nemico,
e questi rispose che si trovava sulla sua dritta, per poi aggiungere
all'1.06 che si trovava a sud della sua posizione e, poco dopo, di
aver perso il contatto.
All'1.05
il Da Recco
informò Supermarina di quanto stava accadendo con un messaggio di
una sola parola ("Combattimento"), e dieci minuti dopo
trasmise sempre a Supermarina un altro brevissimo messaggio,
essenziale ma eloquente: "Piroscafi in fiamme".
All'1.10
il Da Recco
passò nei pressi del punto in cui quindici minuti prima era
affondato l'Aventino,
ed all'1.25 passò vicino alla Puccini
in fiamme con naufraghi in mare, ma non poté fermarsi. All'1.14 il
Camicia Nera
informò il Da Recco
di aver assunto rotta 50°; all'1.21, quando la Clio
aprì il fuoco contro delle navi britanniche che l'avevano presa di
mira da 4500 metri di distanza, Cocchia le chiese dapprima se stesse
sparando e poi, avendo ricevuto risposta affermativa, su quale
rilevamento; la risposta fu 280°.
Dalla
plancia del Da Recco
Cocchia assisté alla fine del Folgore
e tentò vanamente di andare in suo soccorso: fu anzi proprio lo
scambio di colpi tra il cacciatorpediniere di Bettica e la Forza Q a
permettergli di ritrovare le navi britanniche. “Vidi
d'un tratto accendersi proiettili illuminanti in vari punti
dell'orizzonte ed un rapido vivace scambio di codette luminose. (…)
Il Folgore, piccolo,
vecchio cacciatorpediniere, veterano di tante scorte, provato in
mille contingenze, reggeva da solo, con eroismo, che un giorno
apparirà leggendario, tutto il peso del combattimento.
(…) Col Da Recco mi
trovavo piuttosto distante dal luogo dell'azione, ma potei rendermi
conto dell'ultima fase del combattimento attraverso il gioco degli
artifici luminosi largamente impiegati dalle due parti. Non sapevo
quale delle unità italiane fosse impegnata, ma non c'era dubbio che
il combattimento si stava volgendo fra uno dei nostri e tutta la
formazione avversaria. Ero già alla massima forza, puntai dritto sul
centro del combattimento. Mi ci volle un po' di tempo per serrare le
distanze, ma arrivai abbastanza vicino mentre l'azione durava ancora
e forse proprio mentre raggiungeva la sua massima intensità.
Individuai le navi nemiche, mi portai verso la testa della loro
formazione. Volevo stringere la distanza per essere sicuro che i miei
siluri non fallissero il segno, volevo che il peso delle mie armi non
solo valesse ad alleggerire il mio ignoto compagno che combatteva con
tanto impegno, ma che fosse anche decisivo (…)
speravo di riuscire a
colpire una o due navi inglesi e far così pagare caro al nemico lo
scempio che aveva fatto del mio convoglio (…)
bisognava lanciare soltanto
quando la distanza si fosse ridotta al minimo. A quel che sarebbe
potuto succedere dopo il lancio non pensavo affatto”.
Guidato
dai bagliori delle vampate e dagli incendi delle navi, il Da
Recco ritrovò le navi
britanniche all'1.30, quando già la Forza Q si trovava sulla rotta
di rientro: la distanza era adesso di circa 4000 metri; il
cacciatorpediniere stava dirigendo verso nord (o nordest, rotta 60°)
per riagganciare l'avversario, quando avvistò tre sagome oscurate
che ritenne essere incrociatori, intente a sparare intensamente
contro un'altra nave che rispondeva piuttosto vivacemente al fuoco.
Tutte
e quattro le navi avvistate erano vicine tra di loro, e le codette
luminose dei proiettili che piastrellavano sul mare da entrambe le
parti erano chiaramente visibili dal Da
Recco. Questo scontro era
osservato anche dal Camicia
Nera, che si trovava molto
più ad est e che comunicò di seguire la medesima rotta. Cocchia
ritenne che la nave sotto attacco fosse il Folgore,
ma questi a quell'ora era già affondato; più probabilmente si
trattava della Clio.
Ad ogni modo, ordinò di mettere la prua sulle sagome degli
incrociatori, chiaramente visibili, e di tenersi pronti al lancio dei
siluri, segnando sul Panerai l'angolo di mira; il tenente di vascello
Zambrini, che coadiuvava la preparazione al lancio, era accanto a
lui, davanti al portello centrale aperto della plancia. Intenzionato
a massimizzare le probabilità di colpire, Cocchia tentò di serrare
le distanze il più possibile prima di lanciare; secondo il volume
USMM "La difesa del traffico con l'Africa Settentrionale dal 1°
ottobre 1942 alla caduta della Tunisia",
mentre serrava le distanze preparandosi a lanciare i siluri il Da
Recco aprì nuovamente il
fuoco anche con i cannoni, ma nelle sue memorie Cocchia afferma di
non aver aperto il fuoco proprio per non farsi scoprire ed
avvicinarsi indisturbato il più possibile prima di lanciare i
siluri, versione riportata anche dallo storico Giorgio Giorgerini nel
suo "La guerra italiana sul mare". In effetti questo
sembrerebbe più logico.
I
tubi lanciasiluri erano brandeggiati verso il nemico, la distanza era
calata sotto i tremila metri (secondo Giorgio Giorgerini, sotto i
duemila); proprio quando Cocchia stava per dare l'ordine di lancio,
disgrazia volle che il fumaiolo prodiero del Da
Recco iniziasse ad eruttare
fiamme a causa della combustione di residui di nafta rimasti nel
nebbiogeno per l'imperfetta tenuta di una valvola d'intercettazione,
il che lo rese visibilissimo nel buio della notte: subito Sirius,
Quiberon
e Quentin,
da una distanza di circa tremila metri, rivolsero un vero torrente di
fuoco concentrato sulla nave del comandante Cocchia, con conseguenze
catastrofiche. Era l'1.35 del 2 dicembre.
La
parola ad Aldo Cocchia: “Stimai
di essere a 4.000, poi a 3.000, a 2.000 metri. Volli avvicinarmi
ancora di più (…) ed
ancora una volta la fatalità
(…) si accanì contro il
Da Recco. Da un pezzo avevamo smesso l'emissione di cortina di nebbia
e nel nebbiogeno del fumaiolo di prora si era andata accumulando una
certa quantità di nafta. Di colpo il combustibile accumulato prese
fuoco accidentalmente, ed eruppe dal fumaiolo con un'alta colonna di
fiamme che svelò la nostra presenza. Immediatamente una salva di
quattro colpi cadde poco di prora. Accostai per disorientare il tiro
nemico e nello stesso tempo mettermi all'angolo di mira [per
lanciare i siluri], ma la
colonna incandescente che continuava ad uscire dal fumaiolo del Da
Recco era bersaglio fin troppo facile per gli artiglieri britannici.
Dopo pochi secondi dalla prima salva caduta in mare, un'enorme lingua
di fuoco si levò dal castello di prora e si avventò violenta sulla
plancia. Investì, ustionò tutti coloro che si trovavano sul ponte
di comando, i più ne uccise
(…) Dei proiettili
arrivati noi non sentimmo l'urto né il fragore delle esplosioni:
vedemmo soltanto, per un istante, la gigantesca lingua rossa che si
levava dal castello di prora e ci veniva addosso. Nient'altro”.
Investito
dal fuoco concentrato di tre navi (secondo Francesco Mattesini,
queste spararono prima alcuni colpi illuminanti che rischiararono a
dovere il bersaglio e poi passarono al tiro battente), il Da
Recco venne centrato
contemporaneamente da tre proiettili: due di essi penetrarono nel
castello di prua, aprendo grossi squarci nello scafo in prossimità
del complesso prodiero da 120 mm, ma fu il terzo a scatenare
l'inferno. Penetrato dal lato sinistro, circa un metro sopra la linea
di galleggiamento, il colpo scoppiò nel deposito munizioni del
complesso prodiero da 120 mm, facendolo deflagrare. (Giorgio
Giorgerini afferma invece che il Da
Recco fu raggiunto da
quattro colpi, di cui due centrarono il complesso prodiero da 120 e
gli altri due il deposito munizioni prodiero).
Per
quanto il termine “deflagrazione” sia spesso utilizzato,
impropriamente, come se fosse intercambiabile con “esplosione”,
in realtà i due fenomeni sono alquanto diversi. La deflagrazione non
è una detonazione, ma piuttosto una combustione estremamente rapida
e violenta; ha di conseguenza un potere relativamente meno
distruttivo sulle strutture di una nave. Una nave che subisce
un'esplosione nei propri depositi di munzioni spesso affonda in pochi
attimi (questa sarebbe stata la sorte del Da
Recco se le munizioni
fossero esplose), mentre una nave in cui le munizioni dei depositi
deflagrino ha maggiori probabilità di sopravvivere o, quanto meno,
di affondare meno rapidamente. In generale si è notato che il
munizionamento italiano in uso all'epoca aveva la tendenza, se
colpito, a deflagrare, invece che esplodere; quello britannico,
viceversa, più spesso esplodeva.
Non
che queste sottigliezze potessero costituire grande conforto per
l'equipaggio del Da Recco.
Una fiammata di dimensioni terrificanti si levò dal deposito
colpito, uccidendo tutti i serventi del complesso prodiero da 120 mm
ed investendo la sovrastruttura prodiera del Da
Recco: tutti coloro che si
trovavano in plancia rimasero uccisi o gravemente ustionati; tra di
essi anche il comandante Cocchia, che fu anzi tra gli ustionati più
gravi, al viso ed alle mani. Nel volgere di pochi attimi, metà
dell'equipaggio del Da Recco
rimase ucciso o ustionato; ben presto tutta la parte prodiera del
cacciatorpediniere fu in fiamme, anzi arroventata.
Cocchia
spiega quanto avvenne nelle sue memorie: “I
tre ponti che dividevano il deposito munizioni dalla coperta furono
deformati e sfondati dalla violenta deflagrazione delle nostre
cariche, il fuoco invase tutti i locali del sottocastello e
finalmente sbucò all'aria aperta attraverso una specie di colossale
manica a vento creatasi proprio sotto la plancia dove un paio di
lamiere furono divelte dall'istantaneo fortissimo aumento della
pressione interna. Fu poi la nostra stessa velocità a far sì che la
fiamma uscente da tale manica a vento si riversasse intera sulla
plancia. Fra l'accensione della malaugurata nafta nel fumaiolo ed il
momento nel quale fummo investiti dalla lingua di fuoco
(…) passò non più di un
minuto, forse molto meno. Erano le 1.40 del 2 dicembre. Giusto un
mese prima alla stessa ora eravamo stati colpiti da un siluro nella
stessa zona che adesso le fiamme devastavano. Allora, pur nella
violenza dell'attacco, il destino ci era stato amico, ora…”
Con
gli organi di comando e comunicazione fuori uso e la plancia rovente
e circondata dalle fiamme, morti o feriti tutti i suoi ufficiali e
lui stesso gravemente ustionato, Cocchia non ebbe modo sulle prime di
dare nessun ordine, ma il direttore di macchina Petroncelli, rimasto
indenne giù nella sala macchine, capì la situazione e fermò
immediatamente le macchine (era ancora l'1.35), onde evitare che la
corrente d'aria provocata dal moto della nave spingesse le fiamme
verso poppa.
I
lavori svolti a La Spezia sette mesi prima per rimuovere da bordo il
materiale infiammabile risultarono in questo frangente
provvidenziali, ma non era stato possibile eliminare tutto quello che
poteva bruciare: rimanevano in particolare le brande dei marinai ed
il vestiario dell'equipaggio, nonché i documenti delle segreterie di
bordo; gli alloggi dell'equipaggio e dei sottufficiali (con relativi
corredi) ed alcune segreterie si trovavano proprio sottocastello,
nella zona investita in pieno dalla deflagrazione e dal conseguente
incendio, ed inevitabilmente alimentarono le fiamme, come anche i
salvagente, le zattere, i cordami ed altro materiale che si trovava
in coperta. In breve l'incendio raggiunse le casse di nafta e le
riservette munizioni di prua: le prime resistettero alle fiamme, le
seconde iniziarono ad esplodere, ma i loro scoppi non aggravarono più
di tanto una situazione già disperata.
Approfittando
di un momento in cui le fiamme divampavano con minor violenza,
Cocchia scese dalla plancia insieme all'ufficiale alle comunicazioni
Zambrini, ustionato ancor più gravemente di lui (al viso, ad un
piede e soprattutto alle mani, completamente inutilizzabili), ed al
direttore del tiro Sciangula, anch'egli ustionato: dopo la
deflagrazione si era ritrovato sotto i cadaveri di due marinai.
L'ufficiale di rotta Ascheri invece di scendere dalla scaletta saltò
dalla plancia direttamente sul ponte sottostante, ma cadde sulla
schiena ed appoggiò il dorso di entrambe le mani sulla lamiera
arroventata, riportando gravissime ustioni. L'ufficiale alle armi
subacquee Tivegna era morto, “e
come lui la quasi totalità di coloro che si trovavano in plancia,
fedeli compagni di tante navigazioni, di tanti combattimenti”.
Cocchia
e Zambrini si diressero verso la stazione di governo di riserva,
ubicata sulla tuga poppiera, presso il complesso numero 3 da 120 mm.
A centro nave Cocchia incontrò il comandante in seconda Riva, che
avendo il suo posto di combattimento proprio nella tuga poppiera
(precisamente per essere in condizione di assumere il comando se la
plancia fosse stata distrutta) era rimasto illeso: ne era appena
sceso per andare verso prua a verificare cosa fosse successo.
Salito
faticosamente sulla tuga poppiera con l'aiuto di Riva, Cocchia venne
fatto sdraiare su una coperta accanto al complesso numero 3 e
continuò ad impartire gli ordini necessari a salvare la nave finché
fu in grado di farlo.
All'1.26,
intanto, le navi britanniche avevano accostato per ovest-sud-ovest (a
sinistra) per rientrare alla base, passando a nord della zona del
combattimento. Completata la propria opera di distruzione, la Forza Q
si allontanò dal luogo dello scontro, assumendo rotta per Bona.
Proseguì per la sua rotta e si allontanò senza dare il colpo di
grazia all'ormai inerme Da
Recco: “ci
lasciò bruciare, convinto forse che a finirci sarebbe bastato
l'incendio”. Ma il
cacciatorpediniere del comandante Cocchia aveva la pelle dura.
Le
navi di Harcourt non avevano subito alcun danno nel combattimento,
all'infuori di qualche scheggia caduta a bordo (specie sull'Argonaut,
che era stato inquadrato da alcune salve italiane); durante la
navigazione di rientro, invece, avrebbero subito la perdita
del Quentin,
affondato da bombardieri tedeschi Junkers Ju 88 a 50 miglia per 048°
da Cap de Guarde (Algeria) il mattino successivo. Con comprensibile
soddisfazione Harcourt aveva segnalato alla base: "Credo
che abbiamo dato un buon aiuto alla Prima Armata".
La
battaglia del banco di Skerki era finita, ma sul Da
Recco ne infuriava
un'altra, quella contro le fiamme ed il mare.
Il
castello di prua era in preda ad un furioso incendio, che oltre al
deposito munizioni interessava i locali equipaggio e sottufficiali, i
locali diesel, dinamo e turbodinamo e la caldaia 1; la nave imbarcava
parecchia acqua dalle falle aperte dai colpi incassati, mancava la
corrente e la radio era fuori uso. Quasi metà dell'equipaggio era
morto, molti altri erano feriti o ustionati, alcuni uomini erano
caduti in mare ed altri vi si erano tuffati dopo che i loro indumenti
avevano preso fuoco: a bordo rimaneva illeso forse un quinto
dell'equipaggio. Il comandante Cocchia, pur nelle sue gravi
condizioni, cercò di infondere nei sottoposti la sua “volontà
di impedire ad ogni costo la perdita del caccia… e trovai terreno
fertile nell'animo e nelle capacità professionali di tutti i
superstiti e specie di Riva e del capitano Petroncelli”.
Prima che l'aggravarsi del suo stato gli impedisse di esercitare il
comando, ordinò di tentare di spegnere l'incendio utilizzando le
pompe a vapore ancora funzionanti; di allagare il deposito munizioni
centrale, minacciato dall'incendio; di lanciare i siluri di prua, i
cui serbatoi di aria compressa avrebbero potuto scoppiare per effetto
del surriscaldamento provocato dalle fiamme; di mantenere una parte
dell'equipaggio ai posti di combattimento, per essere pronti a
reagire ad un eventuale ritorno offensivo del nemico, e di impiegare
il rimanente personale rimasto indenne e non impegnato nei tentativi
di salvare la nave per mettere in mare la motobarca e recuperare con
essa il maggior numero possibile di naufraghi.
Per
prima cosa si provvide ad estinguere le fiamme che divampavano in
coperta a prua: una volta che fu possibile accedere al ponte di prua,
il direttore di macchina Petroncelli fece infilare le manichette
antincendio nel passaggio delle munizioni del deposito del complesso
numero 1 e riuscì così ad allagare il deposito, il che costituiva
la priorità. Poi, “strappando palmo a palmo la nave al fuoco”,
un gruppo di marinai sempre guidati da Petroncelli riuscì a portare
le manichette sottocastello e ad estinguere le fiamme là sotto.
L'acqua che defluiva dalla zona incendiata era tanto bollente da
scottare chi raggiungeva.
Intanto
il tenente di vascello Zambrini, assistito dal sergente
radiotelegrafista Mario Sforzi (anch'egli ustionato, anche se non in
modo grave), riuscì a mettere in funzione il radiosegnalatore di
riserva situato a poppa, comunicando a Trapani la situazione e la
posizione approssimativa in cui il Da
Recco era fermo (a 60
miglia per 249°, cioè ad ovest/sudovest, di Marettimo) ed
agevolando così le ricerche da parte dei cacciatorpediniere Lampo,
Pigafetta
e Da Noli
e della torpediniera Partenope,
inviate in soccorso del Da
Recco. Cocchia scrisse poi
che “Il comportamento di
Zambrini… fu luminosamente eroico, tutto improntato ad un
sentimento del dovere e ad una dedizione alla propria nave, tali da
suscitare la più viva ammirazione in chiunque. Ferito di quelle
ustioni che dovevano trarlo a morte, soffrendo in modo indicibile,
non dimenticò di essere ufficiale alle comunicazioni e non si
concesse tregua finché non poté assicurarmi che eravamo in contatto
con Trapani e che i nostri messaggi erano stati ricevuti. Mi rimase
poi sempre accanto, come faceva sul ponte di comando, pronto ad
eseguire i miei ordini se io avessi voluto e potuto dargliene”.
Molti
furono gli episodi di eroismo: uno su tutti quello del cuoco
ufficiali, il brindisino Domenico Lacitignola, un civile
militarizzato con il grado di secondo capo furiere. Durante il
combattimento era rimasto al suo posto vicino alla cucina ufficiali;
dopo la deflagrazione del deposito munizioni si accorse che parecchi
uomini erano rimasti intrapPolati
nella centrale di tiro, completamente circondata dalle fiamme, e vi
entrò, caricandosi un marinaio privo di sensi sulle spalle e
portandolo in salvo. Ripeté il gesto altre quattro volte, ogni volta
portando in salvo un compagno ferito o svenuto, dopo di che si gettò
in mare e trasse in salvo due naufraghi prima di esaurire le forze.
Fu decorato con la Medaglia d'Argento al Valor Militare.
Grave
era la situazione per i molti feriti ed ustionati: il Da
Recco non aveva un medico
di bordo, ed i due infermieri che facevano parte dell'equipaggio
erano entrambi rimasti uccisi. L'armadio principale con il materiale
medico si trovava a prua, nei locali devastati dall'incendio; a poppa
c'era una cassetta sussidiaria con materiale di primo soccorso, ma
serviva a ben poco per le decine di ustionati gravi che c'erano sul
cacciatorpediniere devastato. “I
feriti erano così lasciati a loro stessi senz'altro lenimento o
soccorso che qualche parola di conforto di tanto in tanto portata
loro dai pochi uomini incolumi i quali, peraltro, affaccendati
com'erano con l'incendio e per rimettere in funzione l'apparato
motore, non avevano molto tempo da dedicare ai feriti”.
Le
condizioni del comandante Cocchia erano andate aggravandosi: aveva il
viso gonfio e tumefatto, a tal punto da non riuscire neanche più ad
aprire gli occhi e quasi nemmeno a parlare per le labbra anch'esse
gonfiatesi e paralizzatesi, era preda di dolori atroci ed anche le
sue mani erano ormai gonfie, inerti ed inutilizzabili; era convinto
di essere ormai prossimo alla morte. Alla fine, scrisse poi,
“all'ambiguità di un
comandante nominale preferii una situazione chiara”;
fece chiamare il capitano di corvetta Riva, indaffarato a domare
l'incendio a prua, gli fece riassumere la situazione generale e gli
ordinò di assumere il comando, non prima di avergli comunicato la
posizione che la nave aveva quando era stata colpita. Una volta
domato l'incendio, aggiunse, avrebbe dovuto cercare di rimettere in
moto e dirigere verso Trapani, ma non prima di essersi assicurato di
aver recuperato tutti coloro che erano in mare. Lo informò anche che
Zambrini era riuscito a mettersi in contatto radio con Trapani.
Il
comandante in seconda Riva ed il direttore di macchina Petroncelli,
si fecero in quattro per arginare gli incendi, contenere gli
allagamenti, in una parola salvare la nave: e ce la fecero,
nonostante l'enormità dei danni e delle perdite. Entro l'alba
l'incendio a prua fu, se non del tutto estinto, quanto meno sotto
controllo e circoscritto in pochi locali; il Da
Recco aveva però assunto
un notevole appruamento, sia per l'acqua pompata nello scafo per
domare le fiamme che per quella entrata dalle falle aperte dai colpi
andati a segno. Per ripristinare la spinta di galleggiamento si
provvide a prosciugare il deposito munizioni centrale, ormai fuori
pericolo.
I
naufraghi che si trovavano in mare tutt'attorno vennero recuperati;
tra di essi vi era anche il capo segnalatore di seconda classe
Massimo Messina, che era stato sbalzato in mare all'1.30 dallo
spostamento d'aria provocato dalla deflagrazione del deposito
munizioni prodiero del Da
Recco: rimasto
fortunatamente illeso, mentre il cacciatorpediniere incendiato,
spinto dall'abbrivio, aveva proseguito allontanandosi di circa
duecento metri, aveva passato la notte in acqua tra grida di
naufraghi, lamenti di feriti e cadaveri galleggianti, per poi essere
finalmente recuperato alle sei del mattino.
Non
fu altrettanto fortunato il marinaio cannoniere Giuseppe Pianezzola,
appena diciassettenne: ferito e caduto in mare, non venne mai
ritrovato.
All'alba
(per altra fonte, verso le otto del mattino) il Da
Recco fu in grado di
rimettere in moto e riprendere la navigazione con i propri mezzi,
sebbene a velocità ridotta. Lo accompagnavano alcuni aerei tedeschi,
frattanto sopraggiunti.
Al
momento di rimettere in moto Riva si recò da Cocchia e gli diede la
notizia che la nave era salva, chiedendogli nuove istruzioni; Cocchia
ordinò di dirigere verso Trapani a bassa velocità e gli ricordò le
rotte di sicurezza da seguire per passare indenni tra i campi minati
difensivi del settore di Trapani. Ricordò poi: “Non
potevo vedere, ma seguivo e riconoscevo tutti i rumori di bordo con
l'animo teso ed ero, così, al corrente di quel che avveniva per
conoscenza diretta oltre che per le informazioni che di continuo, per
quanto avessi ceduto il comando, mi venivano a dare Riva o
Petroncelli. Quando mettemmo in moto dimenticai per un attimo le
sofferenze e perfino lo strazio che aveva prodotto nel mio animo la
perdita di tante vite umane ed elevai il pensiero al Signore per
ringraziarlo di avermi concesso di salvare la nave che la Patria mi
aveva affidata”.
.jpg)
Il
Da
Recco danneggiato
il mattino del 2 dicembre 1942 dirige a lento moto su Trapani in una
foto scattata dal Camicia
Nera,
sulla sinistra spunta la prua del Pigafetta
(sopra: dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe
Navigatori”; sotto: g.c. STORIA militare)
Supermarina
aveva messo le mani avanti: fin dalla sera del 1° dicembre, dopo
aver ricevuto notizia dal Da
Recco dell'avvistamento
(poco dopo le 20) e pedinamento del convoglio da parte di ricognitori
avversari, aveva disposto che la nave soccorso Capri
(sottotenente di vascello Oscar Sacchi), uscita da Trapani alle
13.40, seguisse a distanza il convoglio, che la nave soccorso Laurana
uscisse da Palermo (cosa che poté fare solo a mezzanotte, causa un
allarme aereo che provocò l'annebbiamento del porto mentre si
apprestava ad uscire), e che un rimorchiatore fosse tenuto pronto a
Marettimo.
Ricevuto
all'1.15 del 2 dicembre il messaggio del Da
Recco "Piroscafi in
fiamme", Supermarina aveva ordinato ai cacciatorpediniere
Antonio Da Noli
(capitano di fregata Pio Valdambrini) e Antonio
Pigafetta (capitano di
vascello Rodolfo Del Minio) di uscire da Trapani appena pronti (ciò
poté avvenire alle sei di quel mattino), inviandoli sul luogo del
disastro insieme a ricognitori che avrebbero avuto il duplice compito
di cercare i naufraghi e di avvistare eventuali unità nemiche
dirette ad intercettare le navi soccorritrici. Anche la motosilurante
MS
32,
che si trovava al largo della Galite, ed i MAS
563
e 576
parteciparono ai soccorsi.
Prima
nave a giungere, o per meglio dire a tornare, sul luogo della
battaglia fu il Camicia
Nera, che dopo essersi
ritirato verso nordovest al termine dello scontro alle 3.15 decise di
tornare indietro per salvare i naufraghi e prestare aiuto alle navi
danneggiate; verso le 7.40, guidato da un ricognitore, raggiunse il
punto in cui era affondato l'Aspromonte,
iniziando a recuperarne i naufraghi dalle zattere e dalle Lance,
e mentre era in corso questa opera di soccorso sopraggiunse il Lampo
(capitano di corvetta Antonio Cuzzaniti), che aveva intercettato una
richiesta urgente di assistenza da parte del Da
Recco alle 7.30 (in quel
momento il Lampo
stava scortando la danneggiata Giorgio
che, a rimorchio della Climene,
procedeva faticosamente verso Trapani) ed aveva deciso di andare in
suo aiuto.
Al
Lampo
il Camicia Nera
ordinò infatti di raggiungere il Da
Recco e riferire sulla
situazione; così il Lampo
fece, e raggiunto il cacciatorpediniere devastato, iniziò a
trasbordarne i feriti gravi.
Anche
la torpediniera Partenope
(capitano di corvetta Gustavo Lovatelli), in mare per un rastrello
antisommergibili sulla rotta Trapani-Biserta insieme alla gemella
Perseo
(tenente di vascello Saverio Marotta), aveva intercettato un
messaggio del Da Recco
in cui si riferiva della grave situazione del cacciatorpediniere (già
nella notte aveva osservato bagliori all'orizzonte ed intuito che era
in corso un combattimento), ed il suo comandante aveva pertanto
deciso alle 8.30 di raggiungere il luogo della battaglia per andare
in suo soccorso.
Successivamente
arrivarono nei pressi del Da
Recco anche Pigafetta
e Da Noli,
e Lampo
e Camicia Nera
si posero agli ordini del comandante Del Minio del Pigafetta,
il più alto in grado tra i presenti. Assunta quindi la direzione dei
soccorsi, Del Minio ordinò al Lampo,
non appena avesse finito di prendere a bordo i feriti gravi, di
proteggre il malconcio Da
Recco mentre il Pigafetta
si preparava a rimorchiarlo di poppa (il Lampo
iniziò allora ad evoluire intorno alle due navi emettendo nebbia
artificiale ed azionando l'ecogoniometro per rilevare eventuali
sommergibili); e dispose che tutti i feriti del Da
Recco venissero portati sul
Da Noli,
in quanto questa unità aveva a bordo il medico della XV Squadriglia
Cacciatorpediniere. Successivamente, essendo in arrivo la nave
soccorso Capri,
Del Minio ordinò che il Da
Noli trasbordasse i feriti
su di essa e poi si ricongiungesse con il gruppo Pigafetta-Da
Recco per rinforzarne la
scorta. Il Camicia Nera
venne lasciato invece sul posto per continuare il recupero dei
naufraghi.
Tra
i feriti trasbordati sul Da
Noli, una sessantina, vi
era anche il comandante Cocchia: al momento del suo sbarco
l'equipaggio del Da Recco
si radunò attorno al barcarizzo e rispose in coro al grido di “Viva
il re” che Cocchia fece dare a Riva, non essendo più in grado di
darlo lui stesso. Poi dalla folla si levò un grido di “evviva al
comandante”, e tutti risposero ad alta voce. Nondimeno, rifletté
Cocchia, “la mia vicenda
di uomo di mare, di combattente, di comandante era conclusa…”.
Alle
9.50 il rimorchio era pronto ed il Pigafetta
diresse per Trapani trainando il Da
Recco, scortato dal Lampo
cui poi si unirono anche i MAS
563
e 576.
Il Da Noli,
trasbordati 40 ustionati sulla Capri
(che più tardi li trasbordò a sua volta sulla nave ospedale
Toscana, dirottata nella zona del combattimento per cercarvi
naufraghi durante una navigazione di trasferimento da Napoli a
Taranto), raggiunse il gruppo del Da
Recco alle 11.24, assumendo
la sua posizione di scorta, ma mezz'ora dopo se ne andò, per ordine
superiore, per raggiungere la Puccini
che ancora galleggiava, assistita dal Camicia
Nera. Verso le 15 si
aggregò al gruppo anche la Clio,
che dopo la fine del combattimento era capitata nei pressi della
Giorgio
e ne aveva assunto la scorta per ordine del Lampo;
direttasi a Trapani dopo che la petroliera era stata portata ad
incagliare in costa, avvistò il Da
Recco a rimorchio del
Pigafetta,
scortato dal Lampo,
e si unì ad essi.
A
rimorchio del Pigafetta,
il Da Recco
raggiunse finalmente Trapani verso le sei di sera (per altra fonte,
le 22) di quel tragico 2 dicembre. A bordo, nelle viscere della nave,
ardevano ancora alcuni focolai d'incendio.
Il
malconcio Da
Recco
attorniato da Pigafetta
(a sinistra) e Lampo
(a destra) in due foto scattate dal Camicia
Nera
il mattino del 2 dicembre 1942 (dalla pagina Facebook
“Cacciatorpediniere classe Navigatori”)
%20con%20Lampo%20e%20Pigafetta%20mattino%202-12-42%20(da%20pagina%20FB%20Ct%20classe%20Navigatori).jpg) |
Il
Da
Recco,
visibilmente appruato, tra Pigafetta
(a destra) e Lampo
il mattino del 2 dicembre (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere
classe Navigatori”) |
.jpg) |
(da
“La guerra italiana sul mare” di Giorgio Giorgerini) |
Le
perdite umane nella battaglia del banco di Skerki, da parte
italo-tedesca, furono terribili: in tutto persero la vita 2200
uomini, ossia 1527 dei 1766 soldati imbarcati su Aventino e Puccini,
124 uomini del Folgore,
118 uomini del Da
Recco, 41 uomini
dell'Aspromonte (iscritto
nei ruoli del naviglio ausiliario dello Stato), tre della Procione
e circa 400 tra marittimi civili o militarizzati dei mercantili e
personale tedesco del KT
1. Tra tutte le battaglie
navali combattute nel Mediterraneo durante il conflitto, solo quella
di Capo Matapan sarebbe risultata più sanguinosa.
Tra
l'equipaggio del Da Recco,
persero la vita nel combattimento o per le ferite cinque ufficiali,
15 sottufficiali e 98 tra sottocapi e marinai: probabilmente il Da
Recco detiene il poco
invidiabile primato di nave da guerra italiana che ebbe le maggiori
perdite tra il proprio equipaggio – quasi la metà, ed oltre la
metà se si considerano le perdite complessive, comprensive anche
delle decine di feriti e ustionati – senza affondare. Un'altra
sessantina di membri dell'equipaggio rimasero seriamente feriti o
ustionati.
La
maggior parte dei morti del Da
Recco non poté nemmeno
essere identificata, perché resa irriconoscibile dall'azione
distruttrice del fuoco: furono dichiarati dispersi. I corpi rimasti
senza nome vennero sepolti nel cimitero di Trapani, dov'erano state
sbarcate le vittime dello scontro, e dove in epoca successiva vennero
trasferiti nell'ossario comune; alcuni di quelli identificati
poterono essere successivamente trasferiti nei loro paesi natali,
come nel caso del marinaio cannoniere Antonio Giannattasio, i cui
resti vennero traslati nel sacrario militare del cimitero di
Bisceglie su richiesta della famiglia nel maggio 1968.
I caduti tra l'equipaggio del Da
Recco:
Alfredo Armoni, marinaio, da Prolungo
(deceduto)
Pietro Artoni, marinaio, da Borgoforte
(disperso)
Giuseppe Balzano, sergente
carpentiere, da La Maddalena (disperso)
Alberto Barbara, marinaio
radiotelegrafista, da Trapani (disperso)
Giovanni Barlassina, marinaio
elettricista, da Sesto San Giovanni (disperso)
Luigi Batisti, sottocapo silurista, a
Reggello (deceduto)
Zergo Beghetto, marinaio cannoniere,
da Villanova del Ghebbio (disperso)
Geremia Benedetti, marinaio
cannoniere, da Gussago (disperso)
Sergio Bernasconi, marinaio fuochista,
da Milano (disperso)
Guido Berton, sottocapo
radiotelegrafista, da Caerano di San Marco (disperso)
Luigi Bodei, marinaio fuochista, da
Villa Carcina (disperso)
Trento
Calarco, sergente cannoniere, da Roma (disperso)
Aniello Calentano, marinaio, da Massa
Lubrense (disperso)
Giovanni Cambio, marinaio, da
Fontegreca (disperso)
Gennaro Carpagnano, marinaio S.D.T.,
da Barletta
(disperso)
Ettore Carraro, marinaio cannoniere,
da Mogliano Veneto (disperso)
Albano Casagni, marinaio fuochista, da
Livorno (disperso)
Francesco Casamassima, marinaio
elettricista, da Ribera (deceduto)
Ettore Casenghi, marinaio cannoniere,
da Citerna (disperso)
Aldo Casson, marinaio, da Chioggia
(disperso)
Felice Catania, marinaio cannoniere,
da Trapani (deceduto)
Francesco Catapano, marinaio
cannoniere, da San Giuseppe Vesuviano (disperso)
Giordano Cecconi (Covacich), marinaio
cannoniere, da Parenzo (disperso)
Giovanni Celona, marinaio, da Messina
(disperso)
Bruno Cilia, sergente motorista, da
Venezia (disperso)
Domenico Cioe, marinaio cannoniere, da
Vico nel Lazio (deceduto)
Giampaolo Coato, aspirante
guardiamarina, da Milano (disperso)
Luigi Battista Cornaro, marinaio
fuochista, da Nembro (disperso)
Carmelo Cosoli, marinaio fuochista, da
Muggia (disperso)
Carmelo Crea, sergente S.D.T., da
Motta San Giovanni (disperso)
Clemente Crisci, marinaio cannoniere,
da San Felice a Cancello (disperso)
Nicola Criscitello, marinaio
cannoniere, da Afragola (disperso)
Umberto Cursi, capo S.D.T. di terza
classe, da Firenze (disperso)
Adriano Defabiani, marinaio
elettricista, da Vercelli (deceduto)
Angelo Del Barbara, marinaio
fuochista, da Adro (disperso)
Silvio Del
Greco,
sottocapo segnalatore, da Alatri (disperso)
Giovanni Della Cioppa, sergente
cannoniere, da Bellona (disperso)
Giuseppe Di Fiore, marinaio
elettricista, da Caronia (deceduto)
Raffaele Di Lella, marinaio
segnalatore, da Campobasso (deceduto)
Armando Doni, marinaio silurista, da
Sesto San Giovanni (deceduto)
Giovanni Fancellu, marinaio, da Genova
(deceduto)
Renato Federigi, sottotenente
commissario, da La Spezia (disperso)
Ferruccio Fenoglio, marinaio
fuochista, da Torino (deceduto)
Angelo Ferrari, marinaio segnalatore,
da Pegognaga (disperso)
Aureliano Ferrari, marinaio S.D.T., da
Iseo (disperso)
Antonio Ficara, marinaio cannoniere,
da Taurianova (disperso)
Luciano Franco Carlevero, marinaio
motorista, da Torino (disperso)
Anacleto Galdenzi, marinaio fuochista,
da Ostra Vetere (disperso)
Ulderico Gasperini, sergente
cannoniere, da Canale Monteranno (deceduto)
Manlio Giacopinelli, marinaio
fuochista, da La Spezia (disperso)
Pasquale Gialluisi, capo
radiotelegrafista di terza classe, da Manduria (disperso)
Antonio Giannattasio, marinaio
cannoniere, da Bisceglie (deceduto)
Antonio Giannuzzi, sottocapo
elettricista, da Cursi (disperso)
Rosario Giunta, marinaio, da Reggio
Calabria (disperso)
Goffredo Giusfredi, guardiamarina, da
Bari (disperso)
Giuseppe Greco, marinaio S.D.T., da
Biancavilla (disperso)
Domenico Guarnieri, marinaio
fuochista, da Roccella Ionica (disperso)
Edoardo Istruiti, sottocapo
radiotelegrafista, da Genova (disperso)
Armando Landrisci, sottocapo, da Vico
Equense (disperso)
Antonio Laprovitera, secondo capo
furiere, da Cariati (disperso)
Massimo Maddalena, marinaio
cannoniere, da Supino (disperso)
Francesco Malatesta, secondo capo
meccanico, da Massa Lubrense (deceduto)
Paolo Mallarini, marinaio nocchiere,
da Mallare (deceduto)
Franco Ireneo Mattarucco, sottocapo
motorista, da Treviso (disperso)
Ciro Mazzella, marinaio, da Ischia
(disperso)
Saverio Memmolo, sottocapo cannoniere,
da Mirabella Eclano (disperso)
Ennio Morichi, marinaio cannoniere, da
Foligno (disperso)
Carmelo Napolitano, sottocapo
cannoniere, da Riesi (disperso)
Francesco Nastasi, marinaio fuochista,
da Milazzo (deceduto)
Antonio Nasti, marinaio cannoniere, da
Pozzuoli (disperso)
Giorgio Natale, sergente elettricista,
da Vitulazio (disperso)
Mario Novotny, marinaio S.D.T., da
Postumia Grotte (deceduto)
Giulio Nuzzo, sottocapo S.D.T., da
Neviano (disperso)
Francesco Parodi, marinaio fuochista,
da Ceranesi (deceduto)
Ugo Paron, marinaio elettricista, da
Rivignano (disperso)
Faustino Pederzini, marinaio
fuochista, da Marcheno (deceduto)
Tullio Pesenti Barili, marinaio
fuochista, da Milano (disperso)
Fernando Petrillo, marinaio S.D.T., da
Pietraroja (deceduto)
Domenico Petrone, sottocapo nocchiere,
da Sant'Antimo (disperso)
Giuseppe Pianezzola, marinaio
cannoniere, da Bassano del Grappa (disperso)
Giovanni Piergallina, marinaio
silurista, da Fermo (disperso)
Agostino Pietrini, marinaio
elettricista, da Montegabbione (deceduto)
Alberto Pofi, marinaio S.D.T., da
Anangi (disperso)
Giuseppe Poliseri, marinaio, da
Favignana (disperso)
Giuseppe Politi, marinaio cannoniere,
da Lecce (disperso)
Luigi Pontiggia, marinaio
torpediniere, da Orsenigo (disperso)
Luciano Ponzone, marinaio
elettricista, da Valenza (disperso)
Biagio Priori, marinaio furiere, da
Cremona (deceduto)
Sebastiano Raimondo, sottocapo
meccanico, da Acireale (disperso)
Martino Redaelli, marinaio fuochista,
da Treviglio (disperso)
Renato Remic, marinaio
cannoniere, da Trieste (disperso)
Vito
Riccardi, capo segnalatore di terza classe, da Ruvo di Puglia
(disperso)
Giusto
Riosa, marinaio fuochista, da Trieste (disperso)
Bernardino
Rocchi, marinaio nocchiere, da Marta (deceduto)
Vincenzo
Romagnuolo, marinaio nocchiere, da Torre Del Greco (disperso)
Antonio Rosati, secondo capo
cannoniere, da Viterbo (disperso)
Antonio Rossi, marinaio cannoniere, da
Gonzaga (disperso)
Armando Ruffoli, sottocapo S.D.T., da
Arezzo (disperso)
Mario Ruggero, marinaio motorista, da
Meta (disperso)
Carmelo Santo, sottocapo cannoniere,
da Gallipoli (disperso)
Mario Sassu, sottocapo furiere, da
Sorso (disperso)
Raffaele Sauli, marinaio
radiotelegrafista, da Pozzuoli (disperso)
Ramiro Scalmati, marinaio fuochista,
da Ancona (disperso)
Angelo Scotellaro, sottocapo
cannoniere, da Ortelle (disperso)
Dario Sforza, marinaio S.D.T., da Bari
(deceduto)
Raffaele Stasio, marinaio fuochista,
da Cava de' Tirreni (disperso)
Dino Tanghetti, marinaio cannoniere,
da Portoferraio (deceduto)
Salvatore Tivegna, tenente di
vascello, da La Spezia (deceduto)
Alfredo Tosi, marinaio fuochista, da
Boretto (disperso)
Gennaro Troia, marinaio, da Porto
Torres (disperso)
Antonio Vanni, marinaio, da Terracina
(disperso)
Antonio Vedani, capo nocchiere di
terza classe, da Varese (disperso)
Donato Verrico, marinaio
radiotelegrafista, da Santi Cosma e Damiano (deceduto per le ferite
il 6.12.1942)
Pierino Versi, sergente infermiere,
nato in Svizzera (disperso)
Mario Vitti, sottocapo furiere, da
Pola
(deceduto per le ferite l'1.1.43)
Carmine Zaccaria, marinaio cannoniere,
da Napoli (deceduto)
Alfredo Zambrini, tenente di vascello,
da Firenze (deceduto per le ferite il 14.12.1942)
Roberto Zonta, marinaio, da Mason
Vicentino (disperso)
.jpg) |
Il
marinaio cannoniere Giuseppe Pianezzola, disperso nello scontro del 2
dicembre 1942 (da www.icsm.it) |
%20con%20Ottavio%20Minieri%20(morto%20su%20Uragano)%20(Comune%20di%20Pignataro).JPG) |
Il
sergente elettricista Giorgio Natale (a sinistra), disperso il 2
dicembre 1942, insieme al sottocapo cannoniere Ottavio Minieri,
disperso due mesi dopo nell’affondamento della torpediniera Uragano
(Comune di Pignataro) |
.JPG) |
Lapide
in memoria di Alberto Barbara nel cimitero di Trapani (g.c. Giuseppe
Romano) |
La
motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare conferita alla
memoria del tenente di vascello Alfredo Zambrini, nato a Firenze il
17 aprile 1918:
"Ufficiale
alle comunicazioni di Squadriglia Ct. che, in scontro notturno con
preponderanti forze avversarie si era lanciato all'attacco con
spirito aggressivo e tenacia combattiva degna delle migliori
tradizioni navali, coadiuvava come sempre il proprio Comandante
dimostrando notevoli doti di serenità, coraggio e sprezzo del
pericolo.
Colpita l'unità, benché gravemente ustionato, si
preoccupava sopratutto di ristabilire le comunicazioni con i mezzi di
soccorso, vincendo con fermezza e virilità le sofferenze dalle quali
era tormentato.
In ospedale, conscio della imminente fine
l'affrontava eroicamente manifestando la sicurezza nella vittoria
delle armi italiane ed inneggiando alla Patria alla quale donava con
entusiasmo la giovane vita.
(Mediterraneo Centrale, 2 dicembre
1942)"
.jpg) |
Il
tenente di vascello Alfredo Zambrini, nato a Firenze il 17 aprile
1918. Entrato nell'Accademia Navale di Livorno nel 1936, fu nominato
guardiamarina nel 1939 e promosso a sottotenente di vascello nel
giugno 1940; imbarcato allo scoppio della guerra sull'incrociatore
pesante Pola, passò nell'ottobre 1940 sulla torpediniera
Partenope e nel marzo 1941 sul Da Recco, ricoprendo
dapprima l'incarico di ufficiale di rotta e poi quello di ufficiale
alle comunicazioni, venendo promosso a tenente di vascello nel luglio
1942. Tra l'agosto 1941 ed il febbraio 1942 fu decorato di tre Croci
di Guerra al Valor Militare. Rimasto mortalmente ustionato nello
scontro del 2 dicembre 1942, morì nell'ospedale di Torrebianca
dodici giorni più tardi. Fu decorato alla memoria con la Medaglia
d'Oro al Valor Militare. |
La
motivazione della Medaglia d'Oro al Valor Militare conferita al
capitano di vascello Aldo Cocchia, nato a Napoli il 30 agosto 1900:
"Comandante
di Cacciatorpediniere e Capo Scorta di un convoglio che, nottetempo,
attraversava una zona di mare fortemente insidiata, accortosi
dell'avvicinarsi di unità navali nemiche soverchianti per numero,
tonnellaggio e mezzi tecnici, si lanciava immediatamente all'attacco,
disponendo altresì per la protezione delle navi del convoglio.
Apprezzata prontamente la situazione, iniziava un ‘audace manovra
di aggiramento dell'avversario svolgendo tre distinte azioni di fuoco
per tentare di agganciarlo, distrarre il suo tiro dalle unità del
convoglio e poterlo battere da posizione favorevole anche al lancio
dei siluri. Durante la terza azione di fuoco alcune salve avversarie
centravano la sua unità, arrestandola e provocando un violento
incendio dentro e fuori il deposito munizioni prodiero, la cui
vampata ustionava gravemente e carbonizzava quasi tutti i presenti
sul ponte di comando.
Pur menomato fisicamente per le ustioni
gravissime alla testa ed alle mani, manteneva il comando della sua
nave per oltre due ore, svolgendo efficace azione per tentarne il
salvataggio. Anche quando le sue condizioni fisiche, impedendogli
l'uso della vista, lo costringevano a passare il comando al suo
secondo, manteneva la direzione delle operazioni di salvataggio, con
alto senso di responsabilità e con stoica noncuranza delle atroci
sofferenze, riuscendo a mantenere a galla la sua nave, che altrimenti
sarebbe perduta con il suo equipaggio.
(Banco Skerki, Canale di
Sicilia, notte sul 2 dicembre 1942)"
.jpg) |
Aldo
Cocchia nel dopoguerra in divisa da ammiraglio, il volto segnato
dalle cicatrici delle ustioni (da www.marina.difesa.it) |
La
motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita alla
memoria del tenente di vascello Salvatore Tivegna, nato a La Spezia
il 9 dicembre 1917:
"Ufficiale
T. di cacciatorpediniere impegnato in scontro notturno con
preponderanti forze navali nemiche, manteneva contegno calmo e sereno
coadiuvando efficacemente il comandante nello approntamento
dell'attacco silurante. Colpita gravemente l'unità dal tiro nemico,
rimaneva al proprio posto di combattimento finché investito dalle
fiamme cadeva da prode.
(Mediterraneo
centrale, 2 dicembre 1942)"
La
motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita alla
memoria del secondo capo meccanico Francesco Malatesta, nato a
Massalubrense il 17 giugno 1916:
"Nell'occasione
di uno scontro notturno con forze navali nemiche, si prodigava come
sempre con intelligente slancio ed iniziativa nel servizio
dell'apparato motore spinto alla massima andatura. Avendo visto alte
fiamme uscire dal fumaiolo e ritenendo trattarsi di incendio in
caldaia, raggiungeva di corsa
il locale per prestare la sua opera. Nell'attraversare una zona
colpita dal tiro nemico ed invasa dal fuoco cadeva da prode.
Bell'esempio
di entusiasmo e di valore.
(Mediterraneo
centrale, 2 dicembre 1942)"
La
motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al
capitano di corvetta Pietro Riva, nato a Reggio Emilia il 2 novembre
1906:
"Comandante
in 2a
di ct., impegnato in combattimento contro preponderanti forze navali
nemiche, assolveva con capacità e ardimento la sua opera,
contribuendo efficacemente a portare l'unità all'attacco. Quando la
nave fu colpita dal tiro avversario che provocava violento incendio
nel deposito munizioni prodiero e il ferimento della maggior parte
degli ufficiali e dell'equipaggio, rimasto gravemente ustionato il
comandante, assumeva il comando dell'unità e si prodigava con
energia e fermezza per estinguere le fiamme, scongiurando il pericolo
di esplosione del deposito colpito. Recuperati i superstiti in mare e
soccorsi i feriti, dirigeva con una sola macchina efficiente verso la
base metropolitana più vicina, che riusciva a raggiungere a
rimorchio di altra unità, dando prova di elevate doti militari e di
perizia professionale.
(Canale
di Sicilia, 2 dicembre 1942)"
La
motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al
capitano del Genio Navale Cesare
Petroncelli, nato a
Francavilla al Mare il 4 gennaio 1911:
"Capo
servizio G.N. di CT. impegnato in aspro combattimento notturno contro
preponderanti forze navali, svolgeva come sempre con serenità e
capacità il proprio servizio all'apparato motore spinto alla massima
andatura. Colpita gravemente l'unità dal tiro nemico e sviluppatosi
violento incendio dentro ed intorno al deposito munizioni prodiero,
trascinava con l'esempio il personale nelle lunghe operazioni di
estinzione e di esaurimento, sprezzando ogni pericolo, preoccupato
solo della salvezza della nave. Ammirevole esempio di elevate qualità
militari e professionali.
(Mediterraneo
Centrale, 2 dicembre 1942)"
La
motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al
secondo capo furiere Domenico Lacitignola, nato a Brindisi il 20
gennaio 1914:
"Calmo
e sereno al proprio posto durante aspro combattimento notturno contro
forze navali preponderanti, rimasta la propria unità gravemente
danneggiata dal tiro nemico, si lanciava per cinque volte, con grande
sprezzo del pericolo, nella zona prodiera invasa da fiamme e da fumo
e recuperava personale ferito e svenuto. Si gettava poi due volte in
mare salvando due naufraghi; continuava quindi a prodigarsi nelle
rischiose operazioni di salvataggio dell'unità. Luminoso esempio di
virtù militari e di valore.
(Mediterraneo
Centrale, 2 dicembre 1942)"
La
motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al
secondo capo radiotelegrafista Tommaso Lo Faro, nato a Bagnara
Calabra il 18 agosto 1915:
"Sottufficiale
radiotelegrafista lungamente imbarcato su cacciatorpediniere adibito
a servizi di scorta convogli, dimostrava – in numerosi scontri
bellici – solide qualità militari ed elevato sentimento del
dovere. Nel corso di violento combattimento notturno contro
preponderanti forze navali avversarie, disimpegnava con calma e
serenità il proprio servizio assicurando il collegamento Rt. con le
altre unità della formazione e con i comandi a terra. Gravemente
ustionato dalle fiamme sprigionatesi dal deposito munizioni prodiero
deflagrato per effetto del tiro nemico, era – con il suo contegno
calmo e virile – esempio e sprone per parigrado ed inferiori.
(Mediterraneo
Centrale, 2 dicembre 1942)"
La
motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita al
sottocapo meccanico Luigi Di Pietro, nato a Pettorano sul Gizio il 20
gennaio 1914:
"Nell'occasione
di aspro combattimento contro forze navali preponderanti manteneva
contegno calmo e sereno al proprio posto di combattimento. Benché
gravemente ustionato dalle fiamme provocate dal tiro nemico, si
offriva volontariamente per cooperare nelle rischiose operazioni di
salvataggio dell'unità. Luminoso esempio di belle virtù militari e
forte animo.
(Mediterraneo
Centrale, 2 dicembre 1942)"
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita alla
memoria del sottocapo meccanico Sebastiano Raimondi, nato ad Acireale
il 31 marzo 1921:
"Nell'occasione
di scontro notturno con forze navali nemiche, si prodigava, con
slancio, nel servizio dell'apparato motore spinto alla massima
andatura. Avendo visto alte fiamme uscire dal fumaiolo e ritenendo
trattarsi di incendio in caldaia, raggiungeva di cOrsa
il locale per prestare la sua opera. Nell'attraversare una zona
colpita dal tiro nemico, veniva investito dalle fiamme e scompariva
in mare.
(Mediterraneo
centrale, 2 dicembre 1942)"
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al
sottotenente di vascello Giorgio Ascheri:
"Ufficiale
di rotta di ct. impegnato in aspro combattimento notturno contro
preponderanti forze navali, manteneva contegno calmo e sereno
coadiuvando efficacemente il comandante nella manovra di attacco.
Gravemente ustionato e gettato in mare dalle esplosioni provocate dal
tiro nemico, dava esempio di forza d'animo e di altruismo ai compagni
naufraghi. (Mediterraneo Centrale, 2 dicembre 1942)"
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al
sottotenente di vascello Giuseppe Sciangula, nato a Porto Empedocle
il 1° gennaio 1918:
"Direttore
del tiro di cacciatorpediniere impegnato in aspro combattimento
notturno contro preponderanti forze navali assolveva il proprio
compito con grande serenità e capacità coadiuvando efficacemente il
comandante nello sviluppo della manovra controffensiva. Gravemente
ustionato dalle esplosioni provocate dal tiro nemico, ava esempio di
fermezza e altruismo.
(Mediterraneo
Centrale, 2 dicembre 1942)"
.JPG)
Sopra,
Giuseppe Sciangula in divisa da cadetto e sotto, a bordo del Da
Recco
(famiglia Di Betta-Sciangula via www.salvofuca.blogspot.com),
sul
quale fu direttore di tiro con il grado di sottotenente
di vascello. Nato a Porto Empedocle l'11 gennaio 1918, figlio
primogenito (ebbe sette tra fratelli e sorelle) di un armatore di
pescherecci ed insegnante di tecnica marinara al locale Istituto
tecnico nautico, dopo aver conseguito il diploma tecnico commerciale
entrò all'Accademia Navale di Livorno il 20 ottobre 1937 e ne uscì
l'11 dicembre 1940 con il grado di guardiamarina, dopo aver compiuto
crociere d'addestramento sulle navi scuola Amerigo Vespucci
(luglio-settembre 1938) e Cristoforo Colombo (giugno-settembre 1939).
Già dal 14 giugno 1940 fu imbarcato sulla corazzata Giulio
Cesare,
partecipando alla battaglia di Punta Stilo; vi rimase fino al 31
ottobre 1941, per poi essere promosso sottotenente di vascello e
passare sul cacciatorpediniere Strale
con l'incarico di direttore di tiro. Durante un attacco aereo contro
un convoglio scortato dallo Strale
riuscì ad abbattere ben sei aerei, guadagnandosi la Croce di Guerra
al Valor Militare e l'ammirazione dell'equipaggio; il 29 gennaio 1942
passò sulla corazzata Littorio,
rimanendovi fino al 6 maggio dello stesso anno, quando fu trasferito
sul Da
Recco
sempre come direttore di tiro. Gravemente ustionato nella notte del 2
dicembre 1942, dopo la lunga convalescenza (durante la quale fu
promosso a tenente di vascello il 16 marzo 1943) riprese servizio il
28 febbraio 1944, a disposizione prima ad Augusta e poi a Taranto,
per poi divenire aiutante maggiore all'Accademia Navale
(temporaneamente trasferita a Brindisi, essendo Livorno in territorio
occupato) il 20 marzo dello stesso anno. Tornò in mare dopo la fine
della guerra, il 1° luglio 1945, come comandante in seconda della
corvetta Danaide; fu poi imbarcato su Colombo (dicembre 1946-maggio
1947) e Vespucci (maggio 1947-luglio 1948), quindi assegnato
all'Accademia Navale a Livorno (luglio 1948-maggio 1949) per poi
tornare in mare con l'incrociatore Giuseppe
Garibaldi
(maggio-luglio 1949) e sui dragamine (luglio-ottobre 1949).
Dall'ottobre 1949 all'aprile 1951 prestò servizio presso Mariscuole
Taranto, dopo di che fu nuovamente imbarcato sulla Vespucci
dall'aprile all'ottobre 1951, quando ottenne il suo primo comando: la
corvetta Pomona. Nel marzo 1952 divenne comandante di una squadriglia
di motosiluranti a Brindisi, e dopo la promozione a capitano di
corvetta nel dicembre dello stesso anno, nel settembre 1953 assunse
il comando del dragamine Ciliegio. Dopo aver alternato periodi
all'Accademia come ufficiale di terza classe ed imbarchi su varie
unità (Danaide, Vespucci, l'incrociatore Raimondo
Montecuccoli,
la nave scuola Palinuro ed il dragamine StOrione)
nel luglio 1959 fu assegnato allo Stato Maggiore della Marina, a
Roma; nell'ottobre 1959 fu promosso a capitano di fregata e nel
gennaio 1964 a capitano di vascello. Non si sposò mai (soleva dire
di essere sposato con la Marina) e dopo vari altri comandi lasciò il
servizio attivo alla fine del 1969. Posto a disposizione con il grado
di contrammiraglio nel gennaio 1971, fu collocato in ausiliaria
cinque anni dopo e posto in congedo assoluto nel gennaio 1991, con
il grado di ammiraglio di divisione. Dopo aver lasciato il servizio
attivo fu presidente delle sezioni della natia Porto Empedocle
dell'Associazione Nazionale Combattenti e Reduci e dell'Associazione
Mutilati e Invalidi di Guerra, nonché della Pro Loco e della scuola
velica; fu presidente del Rotary Club di Agrigento. Morì il 9 giugno
1992.
.JPG)
La
motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al
sergente radiotelegrafista Mario Sforzi, nato a Firenze il 20 gennaio
1916:
"Nell'occasione
di uno scontro notturno contro forze navali preponderanti, assolveva
con calma e serenità il proprio servizio alle comunicazioni Rt.
Seriamente ustionato dalle fiamme provocate dal tiro nemico manteneva
contegno fermo e virile preoccupandosi solo di stabilire un
collegamento con i mezzi di soccorso. Rifiutava poi di trasbordare
con i feriti e rimaneva a bordo per assicurare il servizio Rt.
(Mediterraneo
Centrale, 2 dicembre 1942)"
La
Forza Q ritenne correttamente di aver affondato cinque navi, anche se
sbagliò leggermente nella loro identificazione, ritenendo che si
trattasse di tre mercantili e due navi scorta invece che, com'era in
realtà, quattro mercantili ed una nave scorta. A permettere ai
britannici di accertare con maggior precisione i risultati del loro
attacco fu, come al solito, “ULTRA”, che il 2 dicembre aveva
intercettato un nuovo messaggio – ormai superfluo – sulla scorta
del quale aveva informato i Comandi britannici che «Puccini
(2423 tsl), Aventino (3794 tsl), Gualdi (3289 tsl) e KT 1 dovevano
partire da Palermo alle 6.30 del 1° dicembre, velocità 9 nodi,
venendo raggiunti dall'Aspromonte (976 tsl) al largo di Trapani,
procedendo poi verso porti tunisini, arrivando alle 6 del 2 (…) La
destinazione di queste navi “dipende dalla situazione”, ma è
probabile che Giorgio e Gualdi siano diretti a Tunisi, ed il resto a
Biserta». Il 4 dicembre
“ULTRA” riferì, sulla scorta di nuove intercettazioni, che «Il
Gualdi è stato affondato ed il Puccini ed un altro piroscafo sono
stati incendiati durante lo scontro della notte tra l'1 e il 2.
L'unica nave di questo convoglio che risulta essere arrivata in
Tunisia è la torpediniera Procione»,
il che non era del tutto vero: il Gualdi
era affondato il 1° dicembre, sì, ma nel porto di Palermo, per
un'esplosione accidentale che aveva coinvolto il suo carico di
carburante. I decrittatori britannici, non al corrente della sua
mancata partenza e dell'incidente, avevano evidentemente collegato un
messaggio relativo alla sua perdita al combattimento che aveva
coinvolto il convoglio di cui secondo le informazioni in loro
possesso avrebbe dovuto far parte, ed erano giunti ad una conclusione
errata. Il 5 dicembre “ULTRA” aggiunse altre notizie, pur
perseverando nell'includere erroneamente il Gualdi
tra le vittime dello scontro del banco di Skerki: «È
adesso noto che del convoglio attaccato dalla Forza Q durante la
notte tra l'1 e il 2 dicembre, Gualdi, Puccini, Aventino, KT 1 e
Aspromonte sono stati tutti affondati».
.jpg) |
Devastazione
in coperta a sinistra sul Da Recco, in un’immagine scattata
il mattino del 2 dicembre (Francesco Mattesini/www.academia.edu) |
Dopo
riparazioni provvisorie a Trapani che richiesero una ventina di
giorni, al fine di rimetterlo in condizione di navigare, il Da
Recco si trasferì a
Palermo, dove ricevette ulteriori riparazioni; poi raggiunse con i
suoi mezzi Taranto, dove fu sottoposto a lavori più estesi in
Arsenale che si protrassero dal 9 gennaio al 26 giugno 1943. Rientrò
in servizio, al comando del capitano di fregata Gaetano Tortora e poi
del capitano di vascello Rodolfo Del Minio, soltanto ad inizio luglio
1943.
Nel
corso di questi lavori venne anche modificato l'armamento del Da
Recco: l'impianto
lanciasiluri poppiero venne sbarcato e sostituito con due mitragliere
contraeree pesanti Breda Mod. 1939 da 37/54 mm (altra fonte data a
questi lavori anche la sostituzione delle poco efficaci mitragliere
da 13,2 mm con 9 mitragliere singole da 20 mm), e vennero eliminati i
paramine tipo C, inutilizzabili perché limitavano troppo la
manovrabilità.
Per
i molti uomini del Da Recco
rimasti ustionati, l'arrivo a Trapani costituì soltanto l'inizio di
una lunga odissea, di ospedale in ospedale. Aldo Cocchia, in
"Convogli", descrive molto approfonditamente la sua. Dopo
l'arrivo in porto, nel tardo pomeriggio del 2 dicembre, tutti i
feriti furono portati all'ospedale trapanese di Torrebianca, un
nosocomio “di prima linea”: per via della sua posizione vicino a
Trapani, porto più vicino per chi proveniva dalle acque della
Tunisia e doveva sbarcare feriti e naufraghi, qui finivano tutti i
marinai e gli avieri superstiti dei continui scontri aeronavali che
infuriavano nel Canale di Sicilia, quei pochi che il mare non
inghiottiva. Molti morivano, i meno gravi venivano curati e dimessi,
i più gravi – quelli che sopravvivevano – trasferiti in
strutture meglio attrezzate. Arrivavano pazienti con ustioni,
fratture, intossicazione da nafta, cancrene, ferite macerate da ore
od anche giorni di permanenza in acqua: “in
quell'ospedale secondario affacciato sul Canale di Sicilia arrivavano
carni straziate quali nemmeno la più macabra fantasia riuscirebbe a
immaginare”.
Costruito
alla fine degli anni Trenta come sanatorio per malati di tubercolosi,
Torrebianca era un edificio moderno, arioso, lucente; era situato
alle falde del monte San Giuliano, a circa cento metri sul livello
del mare ed a 5-6 km dall'abitato di Trapani, con la facciata
principale rivolta verso sud. Il suo impiego come tubercolosario era
durato poco, allo scoppio della guerra era stato requisito dalla
Marina e trasformato in ospedale «secondario» (da un punto di vista
prettamente amministrativo: nei fatti era tutt'altro che secondario)
con capacità di 350 posti, diretto da un colonnello medico della
riserva (nel dicembre 1942, il colonnello medico Fiorito) coadiuvato
da alcuni medici richiamati, “fra
i quali qualche buon professionista”,
e degli infermieri che invece Cocchia descrive in termini ben poco
lusinghieri: “…fino a
pochi giorni innanzi erano stati ottimi contadini o sobri pescatori o
perfino astuti negozianti di ferramenta… uno stuolo di pseudo
infermieri ignoranti, villani e incapaci… zappatori camuffati da
infermieri”. Completava
il tutto uno sparuto manipolo di suore, mentre del tutto mancanti
erano le infermiere volontarie della Croce Rossa.
Tra
il tardo pomeriggio e la sera del 2 dicembre 1942 l'ospedale di
Torrebianca fu investito da un vero tsunami sanitario: i sessanta
ustionati del Da Recco
– quasi tutti con ustioni a viso e mani – e centinaia di
naufraghi del Folgore
e dei mercantili affondati nella battaglia arrivarono nel giro di
poche ore; tutti i letti disponibili furono occupati, molti dovettero
essere sistemati alla meglio su giacigli improvvisati nelle corsie,
il personale dell'ospedale dovette farsi in quattro per prestare le
migliori cure possibili a tutti. “Non
si udivano lamenti, né pianti o gemiti, tanto meno imprecazioni;
gravava sull'edificio un silenzio denso di dolore”.
Cocchia
e Zambrini raggiunsero l'ospedale insieme: era stato Zambrini, dopo
essere rimasto accanto al suo comandante per tutta la notte, a
chiedere di essere messo sulla stessa ambulanza quando sbarcarono sul
molo, ed una volta giunto in ospedale chiese e ottenne di essere
sistemato nella stessa camera. Anche Sciangula e tanti sottufficiali
e marinai avrebbero voluto restare con Cocchia, “quasi
per mantenere integra, anche in ospedale, l'entità Da Recco”,
ma non poterono essere accontentati; furono sistemati in stanze e
corsie adiacenti, rimasero in contatto per tramite dei medici e degli
infermieri.
C'era
tempo, adesso, per ripensare a quel che era successo: a come si era
svolto il combattimento, a cos'altro si sarebbe potuto fare, ai
compagni caduti: “Tivegna,
Federigi, Giusfredi, miei ufficiali che mi erano stati accanto
durante tutto il combattimento; Gialluisi, capo posto
radiotelegrafista che era già stato con me in Africa e che fino in
ultimo aveva assicurato il funzionamento dei suoi apparati; Versi,
sergente infermiere, che aveva rifiutato lo sbarco pur di restare sul
Da Recco; nostromo Vedani, capo elettricista, fedele compagno di
oltre cinque anni della mia errabonda vita, che mi avevi seguito col
tuo affetto e con le tue cure in Spagna, in Africa, sul Torelli in
Atlntico, in Francia, in Egeo, in Grecia… che indovinavi il mio
pensiero, che avevi rifiutata la licenza, che pur ti spettava, per
non privarmi dei tuoi servigi durante la navigazione, tu che poco
prima del combattimento mi eri venuto accanto perché io potevo aver
bisogno di te e non mi avevi più abbandonato… e voi tutti compagni
che il destino aveva falciato al vostro posto di combattimento, ora
eravate tutti, vivi, nel mio ricordo, e la vostra presenza era
dolore, dolore infinito”.
Il pensiero di quel che era successo e di cosa si sarebbe potuto fare
di diverso faceva più male del dolore fisico.
Zambrini,
dal letto accanto, rievocava a sua volta gli eventi della notte, i
compagni che non c'erano più; faceva domande, poi sprofondava nel
delirio, credeva di essere in Mar Nero. Le ustioni al suo viso erano
analoghe a quelle di Cocchia, ma le mani erano in condizioni molto
peggiori delle sue: quando era giunto in ospedale erano già in
cancrena, ma i medici non vollero amputarle, sperando di riuscire a
salvarle almeno in parte. Invece l'infezione si estese, le sue
condizioni si aggravarono; divenne irrequieto, in un'occasione si
alzò dal letto ed in preda al delirio, raggiunse un'altra camera
dove minacciò un paziente con la mano steccata prima di essere
faticosamente ricondotto a letto. Alla fine venne portato in una
camera separata e si procedette ad amputargli una mano, ma era troppo
tardi; rinsavì, ci fu un illusorio miglioramento di qualche ora, poi
la situazione precipitò. Una suora avrebbe raccontato in seguito a
Cocchia dei suoi ultimi momenti: “Era
tornato in sé, aveva pregato, aveva atteso serenamente la fine”.
Morì il 14 dicembre, all'età di 24 anni.
Altro
duro colpo fu la morte del sottocapo furiere Mario Vitti, spentosi il
1° gennaio 1943. Così lo avrebbe ricordato Cocchia: “Durante
il combattimento mi era stato sempre accanto sul ponte di comando,
sereno, imperturbabile; aveva riportato ustioni al viso ed alle mani,
era stato ricoverato a Torrebianca contemporaneamente a me e a tanti
altri e aveva superato la prima crisi e la nefrosi. Poi gli era
mancata la vitalità: si era spento pian piano, incapace di mangiare,
di bere, di reagire in qualsiasi modo alle distruzioni che il fuoco e
il male avevano operate nel suo organismo”.
Non aveva ancora compiuto vent'anni.
Nel
dicembre 1942, a capo del reparto di chiurgia dell'ospedale di
Torrebianca c'era il professor Spinelli, direttore dell'ospedale
civile di Reggio Calabria, richiamato con il grado di maggiore
medico; lo affiancavano come assistenti il tenente medico Spina, in
tempo di pace assistente in una clinica chirurgica a Roma, ed il
capitano medico De Gasperi, unico ufficiale in servizio permanente
effettivo di tutto l'ospedale. Il maggiore Spinelli, buon chirurgo,
passava quasi tutto il suo tempo in sala operatoria, lasciando la
direzione dei reparti ai due sottoposti; non molto tempo dopo
l'arrivo dei feriti del Da
Recco, però, avrebbe
lasciato per sempre l'ospedale a causa di problemi cardiaci, ed anche
il capitano De Gasperi sarebbe andato in licenza per la grave
malattia della moglie, lasciando il tenente di complemento Spina a
gestire da solo tutto il reparto.
Proprio
pochi giorni dopo il 2 dicembre, in considerazione del sovraccarico
di pazienti causato dallo scontro del banco di Skerki, alcune donne
del posto, dopo aver seguito i corsi da infermiera, si offrirono per
prestare servizio nell'ospedale; tra di essi la duchessa Notarbartolo
di Villarosa, moglie dell'ammiraglio Luigi Notarbartolo, comandante
militare marittimo di Trapani. Si occupavano principalmente di
eseguire le medicazioni e pulire le ferite, ma portavano anche un po'
di conforto ai pazienti. La duchessa Notarbartolo aveva tre figli
sotto le armi, tutti e tre ufficiali: due in Marina, il terzo
nell'Esercito (in artiglieria); uno era stato ferito, due erano
prigionieri.
Sempre
nei giorni immediatamente successivi alla battaglia, due marinai del
Da Recco
vennero distaccati presso l'ospedale di Torrebianca per coadiuvare il
personale ospedaliero nell'assistenza ai compagni feriti.
L'ospedale
disponeva di attrezzature medico-chirurgiche moderne ed efficienti,
ma la stessa cura non era stata riposta nelle dotazioni più
basilari: cuscini e materassi, ripieni di paglia od erba, erano
consunti, duri e spigolosi, problema non di poco conto per feriti
gravi, con fratture od ustioni, allettati e costretti all'immobilità
per lunghi periodi. In ogni stanza vi erano lavandini e rubinetti a
profusione, ma mancava l'acqua corrente: era necessario andarla a
prelevare in cortile con delle brocche.
Un
altro problema sorse per la questione dello zucchero. Molti degli
ustionati del Da Recco
furono colti da nefrosi, che i medici curarono somministrando una
dieta interamente a base di liquidi, e più precisamente di latte e
spremute d'arancia, che dovevano essere ben zuccherate: ma mentre di
latte ed arance non vi era carenza, lo zucchero sembrava essere
indisponibile. Alle proteste rivolte da Cocchia la direzione
dell'ospedale rispose che di zucchero non ve n'era; era allora
intervenuto il secondo del Da
Recco, capitano di corvetta
Riva, che si era recato personalmente al commissariato per chiedere
perché lo zucchero necessario per i pazienti non venisse fornito
all'ospedale. Scoprì che di zucchero ce n'era in abbondanza, che al
commissariato non sapevano niente della diatriba in corso e che
avevano sempre fornito a Torrebianca tutto lo zucchero richiesto. Si
attivò personalmente l'ammiraglio Notarbartolo, e da quel momento i
degenti dell'ospedale ebbero sempre tutto lo zucchero che vollero.
Altro
inconveniente non trascurabile era costituito dalla vicinanza
dell'ospedale alla base aerea tedesca di Trapani Milo, distante meno
di un chilometro dalle strutture di Torrebianca. L'aeroporto veniva
bombardato dalla RAF tutte le notti, ed il conseguente trambusto
impediva ai pazienti di riposare come avrebbero voluto e dovuto; se
non altro, a differenza di quanti molti avevano paventato non capitò
mai che qualche pilota poco scrupoloso lasciasse cadere una bomba
sull'ospedale. In un'occasione alcune bombe caddero a 200-300 metri
dall'edificio, mandando i vetri in frantumi e facendo mancare la
corrente per oltre ventiquattr'ore; in un'altra un proiettile
contraereo tedesco da 88 mm colpì una camera, ma non esplose ed i
danni furono così molto limitati.
Per
settimane Cocchia giacque tra la vita e la morte; immobile nel letto,
“supino, con la testa
interamente fasciata con bende imbevute di acido tannico, gli occhi
chiusi, la bocca tumefatta, le mani bendate e steccate; l'arteria
temporale che mi martellava come una campana dentro il cranio ed era
l'unica cosa che mi dicesse che io vivevo ancora: avrei creduto
altrimentii di essere già in qualche luogo di espiazione”.
Gli occhi rimanevano sempre chiusi, le mani continuavano a
sanguinare, le ustioni al volto producevano ininterrottamente
abbondanti secrezioni, ed a tutto questo si univano febbre a 39,
extrasistole, nefrosi; ogni giorno bisognava pulire le ferite e
cambiare le bende. Nella stanza, gli avrebbero raccontato in seguito,
aleggiava odore di morte, di carne in disfacimento.
Le
sue condizioni iniziarono a migliorare dopo circa un mese, e verso la
fine del gennaio 1943, riassorbito il gonfiore delle palpebre,
Cocchia iniziò gradatamente a riacquistare la vista, anche se ci
sarebbe voluto ancora molto tempo prima di tornare a vedere come
prima. Sempre nella seconda metà di gennaio arrivò a Torrebianca il
nuovo responsabile della chirurgia, professor Billi: questi sospese
il trattamento delle ustioni a base di euclorina e pomata all'ossido
di zinco fino ad allora seguito e curò invece le piaghe ancora
aperte con sulfamidici. Questo cambiamento portò subito risultati
positivi; la febbre che per settimane era stata sui 39 gradi scese
notevolmente, e diminuirono fortemente le secrezioni dalle numerose
ustioni non ancora rimarginatesi. A fine gennaio, dopo quasi due mesi
a letto, Cocchia fu in grado di alzarsi per la prima volta, ma dopo
una così prolungata immobilità forzata i muscoli si erano
atrofizzati e dopo soli tre passi si accasciò sulla poltrona accanto
al letto, “esausto come
dopo la più improba delle fatiche”.
Ciononostante, riacquistò gradualmente la mobilità perduta, e dopo
alcuni giorni, con l'aiuto del marinaio del Da
Recco Luigi Pinna – uno
dei due distaccati presso l'ospedale di Torrebianca per aiutare il
personale nell'assistenza ai feriti, divenuto praticamente infermiere
personale di Cocchia – fu in grado di percorrere le decine di metri
che separavano la sua camera dalla cappella dell'ospedale.
Tornato
in grado di muoversi, la priorità per Cocchia divenne quella di
lasciare Torrebianca, cui lo legavano ormai troppe tristi memorie;
già da tempo il Ministero della Marina aveva predisposto per lui il
trasferimento in un altro ospedale dove avrebbe potuto essere più
vicino alla famiglia (inizialmente si era pensato all'ospedale di
Marina di Massa) e dopo lungaggini burocratiche che fecero perdere
diversi giorni, il 13 febbraio 1943 partì da Trapani su un aereo da
trasporto tedesco, diretto a Napoli. Atterrato all'aeroporto di
Capodichino, proseguì in automobile verso Roma, dove quella sera
stessa venne ricoverato all'ospedale "Cesare
Battisti",
anch'esso, come Torrebianca, ottenuto dalla conversione di un
sanatorio antitubercolare.
Nella
stanza del nuovo ospedale Cocchia aveva ben due specchi, ma vi fece
posizionare davanti delle piante per non rischiare di vedervisi: a
Trapani gli era capitato di vedersi allo specchio, ed era rimasto
inorridito dall'aspetto del suo volto sfigurato dalle ustioni; proibì
ad amici e parenti di venire a fargli visita, sentendosi “così
immondo e ripugnante che non potevo concepire che qualcuno mi vedesse
in quello stato. Volevo vivere solo, disperatamente solo”.
Un sentimento, come avrebbe scoperto nei mesi a venire, condiviso
dalla quasi totalità di coloro che avevano subito gravi ustioni al
viso. Non poté tuttavia impedire al padre, alla moglie ed ai figli
di venirlo a trovare, e superato questo primo impatto si abituò a
ricevere visite anche dagli altri
parenti.
L'ospedale
"Cesare Battisti",
gestito dalla Croce Rossa e requisito dalla Marina all'inizio della
guerra, aveva sede in una villa al centro di un vasto giardino, sul
colle di Monteverde; era ottimamente attrezzato ed ospitava circa 150
pazienti, la maggioranza dei quali erano malati invece che feriti. I
medici erano professionisti richiamati dall'Esercito, e collegamento
con la Marina era il tenente colonnello medico Giuseppe Pezzi;
c'erano anche, a differenza che a Torrebianca, le crocerossine, la
cui instancabile dedizione a lenire le sofferenze dei ricoverati
sarebbe stata ricordata da Cocchia con estrema gratitudine. Qui ai
pazienti non mancava nulla; l'ospedale era dotato persino di un
teatro, nel quale più volte alla settimana andavano in scena le
compagnie teatrali di Roma o quelle più modeste dei dopolavori:
un utile diversivo per chi era costretto ad una
lunga degenza.
Cocchia
passò tre mesi al "Cesare Battisti", durante le quali le
sue condizioni migliorarono notevolmente grazie alle cure prestate
personalmente dal chirurgo dell'ospedale, dottor Enrico Giupponi;
guarirono finalmente le piaghe alle mani, che rimasero però inerti e
prive di mobilità (solo dopo ripetuti interventi di chirurgia
plastica Cocchia sarebbe riuscito a riacquistarne almeno in parte
l'uso). Qualche giorno dopo il suo arrivo lo raggiunse al "Cesare
Battisti" anche il sottotenente di vascello
Ascheri, l'ufficiale di rotta del Da
Recco, trasferito da
Trapani a Napoli in nave ospedale e poi da lì a Roma in treno: le
sue mani erano ancora in condizioni disastrose, paralizzate, coperte
di piaghe ed ancora sanguinanti. Ci sarebbero voluti ancora diversi
mesi e numerosi interventi di chirurgia plastica prima che Ascheri
tornasse in grado di usare, almeno parzialmente, le mani.
Le
ultime piaghe di Cocchia guarirono finalmente nell'aprile 1943; da
quel momento le bende non erano più necessarie, ma ancora per molto
tempo Cocchia si sarebbe fatto fasciare parzialmente la testa ogni
volta che usciva o riceveva visite da parte di estranei, per timore
di mostrare il suo volto deturpato dalle ustioni.
La
Pasqua del 1943 Cocchia poté passarla a casa, con la famiglia; dopo
di che sia lui che Ascheri vennero trasferiti da Roma al Centro
Mutilati di Milano, dove il chirurgo Gustavo Sanvenero Rosselli, che
dirigeva il reparto mutilati del viso, si dedicò personalmente a
mitigare le distruzioni che il fuoco aveva operato sui loro volti e
sulle loro mani.
Mai
la guerra, avrebbe scritto Cocchia, gli aveva mostrato i suoi orrori
“con
così brutale evidenza”
come al Centro Mutilati; nemmeno a Torrebianca, dove pure affluivano
di continuo naufraghi, ustionati, morti e moribondi dalla “prima
linea” del Canale di Sicilia. Al Centro affluivano mutilati da
tutti i fronti della guerra: molti in particolare i reduci dalla
tragica ritirata di Russia, che per effetto del congelamento avevano
perso piedi o gambe. I 150 pazienti del reparto mutilati del viso,
dove fu ricoverato Cocchia, erano invece in maggioranza aviatori e
marinai: tra gli altri Cocchia conobbe un capitano paracadutista,
rimasto ustionato al volto ed alle mani nel tentativo di salvare i
suoi uomini rimasti intrappolati
su un aereo incendiatosi durante un'esercitazione.
A
fronte di tanta sofferenza, il Centro era una struttura che assolveva
pienamente alle sue esigenze; anch'esso frutto di riconversione di un
edificio adibito ad altro scopo e requisito allo scoppio della guerra
(prima era un ricovero per anziani invalidi), era modernamente
attrezzato e vi lavoravano medici esperti – tutti professionisti di
fama, richiamati per la guerra – e le migliori crocerossine che
Cocchia avesse mai conosciuto. “Corsie
razionali, sale operatorie e di medicazione perfettamente arredate,
impianti per raggi X, per elettroterapia, per massaggi, una buona
officina ortopedica (…)
una vasta sala di riunione
con un ben fornito spaccio per i soldati e la mensa per gli ufficiali
dotata perfino di biliardo e di poltrone di cuoio. Le cucine ampie e
spaziose (…) tutto
in ordine, tutto moderno, tutto buono. Nella chiesa (…)
officiava un cappellano,
anch'egli mutilato di guerra; al cinema c'erano quasi tutte le sere
buoni spettacoli…”. Il
Centro avrebbe potuto ospitare senza problemi un migliaio di
pazienti, ma di norma il numero dei ricoverati si aggirava intorno ai
700.
Sotto
gli interventi del dottor Sanvenero, a poco a poco Cocchia riuscì a
riacquistare un volto umano, e poté smettere la pratica di fasciarsi
la testa per non attirare su di sé gli sguardi indiscreti dei
passanti. Ad Ascheri, per ricostruire le mani completamente spellate
dalle ustioni, Sanvenero praticò una “tasca” nell'addome nella
quale, una per volta, infilò le mani; nel giro di un mese circa il
derma addominale si trasferì sul dorso delle mani, che furono poi
separate dall'addome tagliando i bordi della “tasca”.
Proprio
quando la situazione sembrava finalmente avviata ad un lento ma
continuo miglioramento, si abbatterono su Milano i devastanti
bombardamenti dell'agosto 1943. La prima di quelle quattro
incursioni, quella della notte tra il 7 e l'8 agosto, lasciò il
Centro Mutilati quasi del tutto indenne; meno bene andò con la
seconda, quella della notte tra il 12 ed il 13 agosto, il più
pesante bombardamento subito da Milano nel corso dell'intero
conflitto. Quella notte, quasi cinquecento bombardieri britannici
sganciarono sul capoluogo lombardo l'impressionante quantità di 1252
tonnellate di bombe, tra dirompenti ed incendiarie, seminando ovunque
morte e devastazione: Cocchia, che con i pazienti ed il personale del
Centro Mutilati si trovava nei rifugi antiaerei della struttura,
avrebbe così ricordato quei momenti: “Nei
rifugi era un continuo tremare di pareti e soffitti, si udiva il
sibilo delle bombe che cadevano vicine e si aveva l'impressione che
da un momento all'altro su di noi tutto dovesse crollare. Il fuoco
della difesa contraerea lo si intese per i primi minuti dell'azione,
poi tacque e cominciò invece allora il crepitio delle mitragliere
degli aerei che si abbassavano impunemente
(…) Dopo 55 minuti di
bombardamento la città offriva uno spettacolo veramente
impressionante; fiamme altissime si levavano da ogni parte, una nube
di fumo nera, densa, spessa, circondava le cose, si alzava in cumuli
verso il cielo. Da un vicino stabilimento in fiamme partivano di
tanto in tanto esplosioni e allora lingue di fuoco più vivido
uscivano dal caseggiato; ad ogni poco il rombo di un'esplosione di
bomba a scoppio ritardato; da qualsiasi parte si guardasse, un mare
di fiamme”.
A
fronte di tanta distruzione, i danni subiti dal Centro Mutilati
furono ancora relativamente limitati: spezzoni incendiari appiccarono
incendi che distrussero alcune camere, ma furono domati prima di
degenerare; bombe cadute vicine avevano mandato in frantumi i vetri,
aperto crepe nei muri e fatto cadere qualche parete divisoria, ma
tutto sommato gli edifici erano ancora agibili. Le successive
incursioni del 13/14 e del 15/16 agosto, però, completarono l'opera:
soprattutto la seconda, nella quale alcune bombe dirompenti colpirono
in pieno la chiesa, distrussero un reparto ufficiali e danneggiarono
gravemente altri edifici, mentre le fiamme appiccate dagli spezzoni
incendiari, caduti un po' dappertutto, distrussero un'intera ala e
provocarono gravi danni nelle altre.
Non
ci furono vittime – i rifugi antiaerei ressero tutti tranne uno,
che conteneva soltanto due uomini i quali riuscirono a mettersi in
salvo – ma la vastità dei danni rese inevitabile lo sgombero del
Centro Mutilati. I pazienti che non necessitavano di cure immediate
furono mandati a casa in licenza, quelli gravi furono trasferiti
all'ospedale militare di Baggio che era rimasto indenne, mentre il
grosso degli altri fu trasferito a Lecco, dove era stata aperta da
qualche tempo una sede distaccata del Centro Mutilati in una scuola
professionale requisita.
Tra
coloro che finirono a Lecco vi fu anche Aldo Cocchia, che traccia
nelle sue memorie una descrizione particolarmente vivida della fuga
in massa dei milanesi provocata dai bombardamenti: “In
quel mattino del 16 agosto 1943 pareva di assistere a Milano ad uno
dei grandi esodi biblici. Fiumane di gente lasciavano la città,
sconvolta e pericolosa, si avviavano verso la periferia alla ricerca
di una casa, di un buco, di un fienile, di un ricovero qualsiasi. Per
le strade voragini scavate dalle bombe, alberi divelti, grovigli di
fili di rame, condutture elettriche, tubolature di piombo e
dappertutto macerie, enormi cumuli di macerie. La folla procedeva
come poteva, con i mezzi che aveva trovato. Pochi camion e
automobili, alcuni carri a trazione animale, molte carrettelle a
mano. Ma la gran massa procedeva a piedi, stanca, esausta, attonita,
con impressi sul viso i segni dello sconforto, quasi per gli uomini
fosse troppo grave il peso della tragedia che si era abbattuta su di
essi. Andavano come spinti dalla fatalità, trascinandosi dietro le
poche robe salvate dallo sfacelo: qualche coperta, raramente un
materasso, piccole valige infilate in un bastone retto ai capi da due
persone. Andavano, la maggior parte non sapeva dove, si sarebbero
fermati quando non avessero più potuto camminare o quando si fosse
fermato il treno che avrebbero cercato di prendere. La ferrovia Nord
era interrotta fra Milano e la Bovisa, e la gran massa era alla
Bovisa che si dirigeva nella speranza di poter trovare un treno che
li portasse altrove. Decisi di andare lì anch'io. Riuscii ad avere
dall'ospedale una carretta da battaglione con un mulo, ci caricai
sopra tutto quel che avevo, compresa una radio, e Pinna con le sue
valige e sul tutto io che avevo in quei giorni il viso fasciato per
una recente operazione. Per la strada ci chiesero subito di poter
montare. Feci salire quanti fu possibile, donne con bambini, uomini
malandati e tutti con i loro fagotti, con la loro miseria. Se non
fossimo stati in piena tragedia, lo spettacolo della mia carretta
sarebbe apparso certo uno dei più umoristici”.
Il
trasferimento da Milano a Lecco segnò un vistoso passo indietro per
Cocchia e gli altri pazienti del Centro Mutilati. L'edificio
scolastico in cui il Centro era adesso alloggiato era del tutto
inadeguato alla bisogna: i servizi igienici, pensati per studenti che
dovevano rimanere nella scuola solo poche ore al giorno, erano del
tutto insufficienti per le esigenze delle centinaia di pazienti
ricoverati stabilmente in un ospedale; per trenta ufficiali c'era un
solo rubinetto, nelle latrine, ed un'unica doccia. “I
gabinetti non c'era bisogno di cercarli, si individuavano facilmente
perché il… profumo indirizzava opportunamente fin da una
cinquantina di metri di distanza”.
Gli ufficiali erano sistemati in dodici per camera, senza distinzione
di grado o di quadro clinico, mentre i soldati se la passavano
decisamente peggio, ammassati nei corridoi. Una scuola che in tempo
di pace ospitava non più di 200 studenti era diventata così un
ospedale con 500 pazienti. Mancavano del tutto sale operatorie e di
medicazione ed altre attrezzature essenziali; le medicazioni venivano
effettuate su un tavolino sistemato in una delle aule, senza nemmeno
un lavandino. Le crocerossine, ligie al dovere, avevano seguito i
pazienti nella nuova sistemazione ed erano alloggiate dove avevano
potuto trovare posto, il che le obbligava a percorrere decine di km a
piedi o in bicicletta ogni giorno per recarsi al lavoro; ma nella
disastrosa situazione della nuova sede, “neanche
la loro abnegazione e la loro capacità organizzativa potevano fare
niente”.
Fu
avanzata l'idea di requisire un albergo a Lecco od in altra località
del lago, il che sarebbe stata la soluzione più logica, ma venne
obiettato che non si potevano mandar via i clienti dagli alberghi
solo per sistemare un po' meglio i pazienti (!). (Cocchia osserva con
giustificata acredine che dopo l'armistizio, non appena i comandi
tedeschi decisero di requisire gli alberghi per sistemarvi i loro
feriti, gli alberghi vennero sgomberati in due ore).
Il
professor Sanvenero fece quel che poté, facendo portare a Lecco
lettini e materiale medico, facendo stendere linee elettriche e
riuscendo a realizzare una rudimentale sala operatoria, ma diversi
ufficiali preferirono farsi ricoverare in altre cliniche o
direttamente a casa propria piuttosto che affrontare il disordine e
la sporcizia di Lecco. Tra questi anche Cocchia, che su proposta di
Sanvenero venne ospitato nella casa di cura privata che questi aveva
a Milano (la questione delle spese, lasciata per il momento in
sospeso, venne regolata molto tempo dopo con il sottosegretario di
Stato per la Marina), danneggiata anch'essa dai bombardamenti ma
molto meno del Centro Mutilati, dove poté continuare le operazioni
di chirurgia plastica.
Rimasto
in Lombardia, dove vivevano la moglie ed i figli, anche dopo
l'armistizio, che lo lasciò affranto e disilluso, Cocchia trascorse
il Natale del 1943 in famiglia, per la prima volta da otto anni (dal
1935 in poi si era sempre trovato in mare od oltremare in quella
giornata). Non tornò più in servizio attivo sulle navi della Regia
Marina, passando il resto della guerra di ospedale in ospedale,
sottoponendosi ad innumerevoli interventi chirurgici nel tentativo di
mitigare i danni causati dal fuoco sul suo volto e sulle sue mani.
Questi interventi migliorarono sensibilmente la sua situazione, ma
rimase comunque sfigurato fino alla fine dei suoi giorni.
Giuseppe
Sciangula, il direttore di tiro del Da
Recco, rimase ricoverato a
Torrebianca fino al 27 maggio 1943. Era gravemente ustionato sia al
viso (la pelle delle palpebre si era “fusa” con quella
soprastante gli occhi, impedendogli per mesi di chiuderli e
costringendolo a dormire ad occhi aperti) sia alle mani, che erano
parse così compromesse che i medici di Torrebianca avevano deciso di
amputarle, ottenendo allo scopo l'autorizzazione scritta del padre;
in seguito alla morte di Zambrini dopo l'amputazione di una mano,
tuttavia, la decisione venne riconsiderata ed alla fine entrambe le
mani vennero salvate. Dopo le dimissioni da Torrebianca, Sciangula
raggiunse la famiglia sfollata a Siculiana, proseguendo le cure
all'ospedale di Agrigento; le ustioni sul dorso delle mani non erano
ancora rimarginate, ma riuscì a riacquisirne gradualmente l'uso,
mentre un intervento di chirurgia plastica effettuato a Roma gli
permise di tornare a chiudere gli occhi. Quando gli Alleati
sbarcarono in Sicilia, rimproverò aspramente i parenti che avevano
accolto le truppe statunitensi (all'epoca ancora nemiche) a suon di
applausi (“state
applaudendo il nemico che mi ha ridotto così”),
dopo di che si mise in divisa ed andò a consegnarsi agli occupanti,
i quali tuttavia decisero di rilasciarlo immediatamente, avendo
apprezzato il suo gesto. Gli proposero anzi di assumere il comando
del porto di Porto Empedocle, ma ottennero il suo rifiuto, essendo
l'Italia ancora in guerra contro gli Alleati e configurandosi quindi
una tale attività come collaborazione con il nemico. Accettò in
seguito, dietro insistenza degli statunitensi e per
il bene della popolazione
civile, di occuparsi della distribuzione di cibo e bevande alla
popolazione.
.JPG)
Sopra,
Giuseppe Sciangula in ospedale dopo lo scontro del 2 dicembre 1942;
sotto, nel dopoguerra (a destra) (Famiglia Di Betta-Sciangula, via
www.salvofuca.blogspot.com)
%20(Fam%20Di%20Betta-Sciangula%20via%20salvofuca.blogspot.com).JPG)
Il
6 dicembre 1942 il comandante in capo delle Forze Navali, ammiraglio
Angelo Iachino, emise un ordine del giorno in cui elogiava la
condotta della scorta del convoglio "H": “Nella
notte del due dicembre un nostro convoglio scortato da poche
siluranti, è stato attaccato da una forza navale preponderante
composta da tre incrociatori e vari CC.TT. Per quanto il nemico non
abbia confessato tutte le perdite sofferte in questa battaglia, certo
è che esse sono state gravi e nettamente superiori alle nostre
[da parte italiana Folgore
e Camicia Nera
avevano rivendicato siluri a segno su almeno due incrociatori, solo
nel dopoguerra si venne a sapere che nessuno dei lanci aveva avuto
successo]. Ma,
indipendentemente dai risultati pur tanto brillanti di questo
combattimento, quello che è più importante rilevare e più degno di
ammirazione da parte nostra, è stato il comportamento di tutte le
nostre unità durante la violenta e rapida azione notturna. I CC.TT.
Da Recco, Camicia Nera e Folgore si sono lanciati all'attacco senza
contare le forze nemiche e la loro superiorità, con slancio e
tenacia combattiva degna delle migliori tradizioni navali”.
Al
di là delle belle parole, ad ogni modo, le perdite erano state
pesanti e rimanevano dei punti poco chiari, ragion per cui il Comando
in Capo della flotta dispose un'inchiesta sugli eventi della notte
del 2 dicembre 1942, incaricandone l'ammiraglio Angelo Parona,
comandante della III Divisione Navale. Questi si recò a Trapani dove
esaminò il Da Recco
(sul quale trovò intatti carta nautica, brogliaccio di navigazione e
registri radiotelegrafici, tutti necessari alla sua indagine) ed andò
anche all'ospedale di Torrebianca per parlare direttamente con il
comandante Cocchia, ma questi era ancora in gravi condizioni, e non
appena iniziò ad esporre l'accaduto si eccitò a tal punto che i
sanitari dovettero chiedere all'ammiraglio di non porre altre
domande. Anche senza la testimonianza di Cocchia, Parona riuscì a
ricostruire accuratamente gli eventi di quella tragica notte, e
presentò ai suoi superiori una relazione che lo stesso Cocchia
definì in seguito chiara ed esauriente; tuttavia le alte sfere non
ne furono pienamente soddisfatte ed incaricarono il contrammiraglio
Lorenzo Gasparri, comandante del Gruppo Cacciatorpediniere di
Squadra, di “ampliarla”. Anche Gasparri andò da Cocchia per
avere da lui le informazioni necessarie a colmare le lacune presenti
nella relazione di Parona; nel frattempo le condizioni del comandante
del Da Recco
erano migliorate, e Cocchia fu in grado di esporre nel dettaglio
tutti gli episodi della fatale notte.
Gasparri
non riuscì ad ultimare il suo lavoro, perché il 28 marzo 1943 perse
la vita nell'esplosione della motonave Caterina
Costa, carica di carburante
e munizioni, saltata in aria nel porto di Napoli; il 12 marzo,
tuttavia, aveva già inviato una prima relazione a Supermarina, nella
quale esprimeva il seguente giudizio sull'operato del Da
Recco: "Era
l'Unità Capo Scorta. Il suo comportamento è pure molto lodevole, ma
non appare diritto, lineare, senza mende come quello del Folgore e
del Camicia Nera. Si può in primo luogo rilevare che il suo
Comandante non ha mostrato un eccessivo spirito di iniziativa. Al
segnale delle 150801 con il quale il Supermarina ordinava al Gruppo
“Maestrale” di rinforzare la scorta del convoglio “Sirio”
“contro eventuale provenienza da Bona dove stamane erano presenti
alcuni cc.tt.” non è stata data importanza. Il Comandante ha anzi
pensato che Supermarina giudicasse minacciato in base alle notizie in
suo possesso, solo il convoglio più arretrato e che non vi fosse
quindi pericolo per lui. La stessa cosa ha pensato nel ricevere poco
prima di mezzanotte il segnale di scoperta delle 2344 con il quale
Supermarina comunicava l'avvistamento fatto alle 2240 da un aereo del
C.A.T. di 5 unità imprecisate, procedenti ad alta velocità verso
levante, e nel constatare che di questo segnale veniva chiesto il
ricevuto al Maestrale e non al Da Recco".
Ciò aveva spinto il comandante Cocchia, "dal
carattere militarmente duro e ostinato nel seguire rigidamente le
proprie consegne", a
ritenere che Supermarina giudicasse il suo convoglio come meno
minacciato ed a proseguire dunque per la sua rotta, pur chiedendo
ordini che non erano però arrivati in tempo. Lo sparpagliamento del
convoglio al momento dell'attacco della Forza Q, causato dalla
collisione tra Aspromonte
e Puccini,
aveva fatto sì che sulle prime Cocchia non avesse potuto rendersi
conto di dove fossero esattamente le navi britanniche; dopo aver
ordinato alle unità della scorta di andare all'attacco e di coprire
i mercantili con cortine nebbiogene, in una situazione confusa anche
dai bengala e proiettili illuminanti, il Da
Recco si era diretto “non
nella direzione “presunta” del nemico, ma nella direzione
“esatta” delle vampate dei cannoni nemici”, senza però
riuscire ad avvistare la Forza Q nella sua corsa
verso ovest. Aveva allora deciso di accostare verso est per prendere
l'avversario alle spalle mentre era impegnato a fare fuoco sui
mercantili, regolandosi dirigendo verso i bagliori di alcuni incendi
in lontananza. Alle 00.33 aveva avvistato le sagome di tre navi che
sembravano intente a sparare nella direzione opposta alla sua, e si
era diretto verso di esse per attaccarle; prima di poter lanciare,
tuttavia, era stato investito dal loro tiro venendo subito messo
fuori combattimento. Secondo Gasparri Cocchia aveva "mostrato
poco spirito d'iniziativa nella fase pretattica e forse poca
prontezza nei primi momenti dello scontro",
ma la sua successiva, sebbene sfortunata, manovra d'attacco contro la
Forza Q era stata encomiabile, ed il comandante del Da
Recco aveva pienamente
meritato la Medaglia d'Oro al Valor Militare.
Il
17 marzo 1943 una lettera di Supermarina a Maristat offriva la
seguente valutazione dell'operato della Forza Q nella battaglia
notturna: "Da quanto si
è potuto rilevare il nemico ha fatto un esteso ma in generale rapido
e fugace impiego dei suoi proiettori. Se ne potrebbe dedurre che li
ha impiegati solo come mezzo di riconoscimento delle unità che
scopriva con i suoi mezzi ottici o elettro-magnetici. Non si è
notato infatti che abbia fatto uso di se- gnali di riconoscimento o
di mischia, mentre per il proprio tiro si è valso in genere
dell'ausilio dei proiettori illuminanti e dei bengala aerei. Questo
impiego dei proiettori come mezzo di rapido riconoscimento delle
unità avvistate in mare, specie in situazioni confuse, sembra
meritevole di esame. Il proiettore infatti presenta sui segnali di
riconoscimento e di mischia da noi previsti i vantaggi di permettere
un più rapido e sicuro riconoscimento e di ostacolare all'Unità
avvistata l'impiego delle sue armi, conservando quindi a sé la
priorità nell'offesa. Presenta in contrapposto lo svantaggio di
essere visibile a grandissima distanza ma in caso di abbondanza di
luci e di artifizi che rendono palese in ampia zona il luogo degli
incontri stessi. Una volta di più si è rivelata la superiorità
tecnica ed addestrativa nemica negli scontri notturni. Il tiro nemico
è sempre apparso rapido, preciso, concentrato ed ha in brevissimo
tempo determinato effetti iniziali alle nostre Unità. Efficace è
sempre stato il suo tiro illuminante. A distanze ravvicinate, il
nemico ha fatto uso delle proprie mitragliere con effetti materiali e
morali che non debbono essere stati lievi. Contro l'Aventino e il
Puccini sembra anche aver fatto efficace impiego dei siluri. Non
altrettanto efficace appare l'impiego delle nostre armi".
L'efficiente
ricognizione svolta dagli aerei di base a Malta aveva permesso alla
Forza Q di rintracciare agevolmente il convoglio, anche con l'aiuto
del radar, sebbene lo stesso Harcourt si fosse lamentato circa la
scarsa efficienza di tale strumento: "È stato deludente che il
radar tipo 271 non rilevasse il convoglio ad una distanza maggiore di
6 mi- glia, ma a causa dei piovaschi lo schermo forniva dati
confusi". Una volta avvistato il convoglio la Forza Q aveva
manovrato in modo da avvolgerne la testa da ovest verso est, aprendo
il fuoco da ridotta distanza e con grande precisione, affondando od
immobilizzando rapidamente tre mercantili su quattro ed affondando
poi anche il quarto (l'Aspromonte)
che inizialmente era riuscito ad allontanarsi.
Venne
rilevato che le navi britanniche avevano impiegato efficacemente
contro le quelle italiane le loro mitragliere quadrinate “pom-pom”
da 40 mm, mentre le mitragliere da 20 mm di cui erano dotate le unità
italiane erano risultate di ben poca utilità nella mischia. Altra
peculiarità delle navi britanniche era quella di utilizzare
proiettili aventi codette luminose di colore diverso (rosso, verde,
giallo, azzurrognolo) per ogni nave, il che permetteva di capire se
più navi stavano sparando contro uno stesso bersaglio; ed il
mantenimento della linea di fila durante tutta l'azione aveva
permesso ai britannici di non accendere i fanali di mischia, che
avrebbero agevolato la loro individuazione da parte delle navi
italiane. In generale l'andamento disastroso dello scontro della
notte del 2 dicembre riconfermava le gravi lacune della Marina
italiana nel combattimento notturno: ancora mancavano efficienti
radar (il "Gufo", primo radar di fabbricazione italiana,
era di prestazioni piuttosto modeste, e solo poche navi erano dotate
di radar di questo tipo o di fabbricazione tedesca), strumenti ottici
a grande luce notturna, e persino un numero adeguante di binocoli di
buona qualità da distribuire alle vedette.
Luglio-Settembre
1943
Tornato
finalmente in servizio in luglio, dopo sette mesi di lavori, il Da Recco viene
impiegato in esercitazioni a Taranto e nella scorta di unità
impegnate nella posa di campi minati in Mar Ionio.
Agosto
1943
Riceve
un radar EC.3 ter "Gufo". (Per altra fonte, il radar
sarebbe stato installato nel giugno 1943, al termine dei lavori di
riparazione effettuati a Taranto in seguito allo scontro del 2
dicembre 1942). Successivamente tale radar sarebbe stato sbarcato
perché il suo peso provocava problemi di stabilità.
15
agosto 1943
Il
Da Recco
diventa caposquadriglia della XV Squadriglia Cacciatorpediniere,
avente base a Taranto e formata dal gemello Pigafetta,
dal ben più moderno Granatiere
e dai cacciatorpediniere ex francesi FR
23 e
FR
31. Il
Da Recco
ed i due FR sono gli unici cacciatorpediniere operativi in Mar Ionio;
Pigafetta
e Granatiere
si trovano ai lavori, il primo a Fiume
ed il secondo a Taranto.
(Nella
prima metà dell'anno, mentre si trovava ai lavori, il Da
Recco era stato rimasto
inquadrato nella XVI Squadriglia Cacciatorpediniere che nel gennaio
1943 comprendeva Da Recco,
Vivaldi,
Malocello
e Premuda,
ed in aprile Da Recco,
Zeno
e Da Noli,
inquadrata nel Gruppo Cacciatorpediniere di Squadra).
21
agosto 1943
Il
Da Recco,
insieme all'FR
23
(sono gli unici due cacciatorpediniere in condizioni di efficienza
presenti a Taranto, e comunque definiti “appena efficienti” dagli
storici Erminio Bagnasco ed Augusto De Toro), agli incrociatori
leggeri Luigi Cadorna,
Scipione
Africano
e Pompeo
Magno
del Gruppo incrociatori leggeri ed alle corazzate Duilio
e Doria
della V Divisione Navale, partecipa ad un'esercitazione di
navigazione in formazione in mare aperto.
Si
tratta della prima uscita in mare di Duilio
e Doria
dalla fine dell'anno precedente, quando sono state poste in ridotta
disponibilità a Taranto con equipaggi ridotti per via della critica
situazione della nafta, della carenza di personale per armare le
siluranti e della superiorità aerea Alleata che rende sempre più
difficile l'impiego delle navi maggiori: la decisione di riattivare
le due corazzate è stata presa in giugno, in seguito alla conquista
britannica di Pantelleria e delle Pelagie, preludio all'invasione
della Sicilia.
.jpg) |
Il Da Recco nel 1943, visibile il radar “Gufo” (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
26
agosto 1943
Il
Da Recco
scorta la Duilio
in altre due uscite in mare per esercitazione, una durante la
giornata ed una durante la notte tra il 26 ed il 27 agosto.
27
agosto 1943
Il
Da Recco
scorta la Doria
durante due uscite in mare per esercitazione, nel pomeriggio e nella
sera.
8
settembre 1943
Il
Da Recco
(capitano di vascello Rodolfo Del Minio) si trova a Taranto quando
viene data la notizia della firma dell'armistizio tra l'Italia e gli
Alleati.
A
Taranto, oltre al Da Recco,
si trovano i cacciatorpediniere Granatiere
(ai lavori), FR
23 e
FR
31,
alcune torpediniere, la V Divisione dell'ammiraglio Alberto Da Zara,
con le corazzate Duilio
(nave ammiraglia) ed Andrea
Doria, ed il Gruppo
incrociatori leggeri del contrammiraglio Giovanni Galati, con
l'attempato Luigi Cadorna
ed i nuovissimi Pompeo
Magno
e Scipione
Africano.
Gli equipaggi delle navi, dopo l'annuncio dell'armistizio, rimangono
«muti e disciplinati,
fiduciosi nelle decisioni che avrebbero preso i loro comandanti».
9
settembre 1943
In
mattinata l'ammiraglio Da Zara
convoca i comandanti delle unità dipendenti per discutere il da
farsi; l'opinione prevalente è quella di autoaffondare le navi, ma
mentre la riunione è in corso, alle 9.20 (6.42 per altra fonte),
arriva via radio da Supermarina l'ordine di partire per Malta. Dopo
aver chiesto il parere del comandante in capo del Dipartimento
Militare Marittimo dello Ionio e del comandante militare marittimo di
Taranto, ammiragli Bruto Brivonesi e Giuseppe Fioravanzo, Da Zara
decide
di obbedire, confortato dalla precisazione, nel messaggio che ordina
di andare a Malta, che le clausole armistiziali escludono comunque la
cessione delle navi e l'abbassamento della bandiera. Rimane invece
contrario alla partenza il contrammiraglio Galati, che viene sbarcato
e messo agli arresti.
Il
Da Recco,
che non fa parte organicamente delle forze navali alle dipendenze di
Da Zara,
vi viene aggregato in vista della partenza per Malta; nelle
intenzioni dell'ammiraglio questa dovrebbe avvenire alle 17, per
lasciare ai comandanti subordinati il tempo necessario a spiegare
agli equipaggi la nuova situazione, ma quando Marina Taranto lo
informa che una squadra navale Alleata è in arrivo a Taranto con un
convoglio di truppe da sbarco (la Forza Z, incaricata dell'operazione
"Slapstick", l'occupazione di Taranto), Da Zara
decide
di affrettare la partenza.
Le
prime navi italiane iniziano a lasciare le boe in Mar Grande alle
16.18, ed alle 17 sono tutte fuori dall'ancoraggio (compongono la
formazione Da Recco,
Duilio,
Doria,
Cadorna
e Pompeo Magno, mentre lo Scipione
Africano
ha ricevuto ordine di andare a Pescara, dove assumerà la scorta
della corvetta Baionetta,
avente a bordo la famiglia reale fuggita da Roma, e le altre
siluranti rimangono a Taranto per vari motivi: l'FR
23 per ragioni di
opportunità politica, in quanto si ritiene a ragione che la Francia
Libera ne pretenderebbe l'immediata restituzione); accostano quindi
verso nordovest per imboccare le rotte di sicurezza costiere del lato
di Metaponto e della Calabria ed uscire dal Golfo di Taranto.
La
Forza Z, proveniente dal lato pugliese del Golfo, è visibile verso
sud: ne fanno parte gli incrociatori leggeri britannici Aurora
(commodoro William Gladstone Agnew), Penelope,
Sirius
e Dido,
l'incrociatore leggero statunitense Boise
ed il posamine veloce britannico Welshman,
partiti da Biserta alle 15.45 dell'8 settembre con truppe (della 1a
Divisione Aviotrasportata britannica), rifornimenti e veicoli da
sbarcare a Taranto, e la Forza Z del viceammiraglio Arthur John
Power, congiuntasi ad essi in mare aperto alle 6.30 del 9 dopo essere
partita da Malta alle 22 dell'8 con le corazzate britanniche Howe
(nave ammiraglia di Power) e King
George
V
ed i cacciatorpediniere Jervis,
Wishart,
Panther,
Paladin,
Pathfinder
e Penn.
Alle 13.15 si sono uniti alla squadra anche i cacciatorpediniere di
scorta Aldenham,
Croome,
Hurworth
e Kanaris
(quest'ultimo greco) partiti anch'essi da Malta con a bordo personale
incaricato di occuparsi delle operazioni portuali una volta arrivati
a Taranto.
In
seguito all'avvistamento delle navi italiane, la King
George V
(capitano di vascello Thomas Edgard Halsey) con i cacciatorpediniere
Panther,
Pathfinder
e Penn
si separa dal resto del gruppo per scortare a Malta le navi di Da
Zara.
Alle
18.56 quattro cacciabombardieri tedeschi attaccano in picchiata la
Duilio
al largo della costa orientale della Calabria, ma grazie alla sua
pronta accostata a sinistra le bombe cadono in mare senza fare danni,
dopo di che gli aerei si allontanano indenni verso la Calabria,
vanamente inseguiti dal tiro contraereo di tutte le navi. Alcune
bombe cadono in mare a 70-80 metri dal Da
Recco.
Le
navi di Da
Zara
seguono le rotte costiere fino a sera, poi dirigono su Malta. Le
segue a distanza la King
George V
con Panther,
Pathfinder
e Penn,
cui successivamente si uniscono i dragamine di squadra Hazard,
Hebe
e Sharpshooter
ed il dragamine costiero BYMS
2012,
anch'essi partiti da Malta.
.jpg) |
Il Da Recco in navigazione verso Malta (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori” |
10 settembre 1943
Alle
6.45 viene avvistato in ricognitore britannico, che inizia a seguire
a distanza le navi italiane, ed alle 9.30 viene avvistato a nordest
di Capo Passero il cacciatorpediniere britannico Hursley,
incaricato di guidare gli ex nemici lungo la rotta di sicurezza per
Malta, che dopo aver effettuato il segnale di riconoscimento si
posiziona di prua alle navi di Da
Zara.
Verso le undici, a sud di Capo Passero, la King
George V
con i relativi cacciatorpediniere si unisce alla formazione, ed a
mezzogiorno sopraggiungono otto aerei da caccia britannici, che
sorvolano la formazione italiana per un po'.
Alle
16.25 otto motosiluranti britanniche prendono posizione sui fianchi
della formazione, ed alle 16.55 il cacciatorpediniere britannico
viene sostituito da un'unità di pilotaggio: Malta, ormai, è in
vista. La scorta delle navi italiane viene rinforzata dalle corvette
Bergamot,
Pentstemon
e Vetch
e dal piropeschereccio armato antisommergibili Beryl.
La
formazione si dirige verso un punto a sudest di Malta, dove imbocca
il canale dragato che segue la costa sudorientale dell'isola e porta
alla Valletta; giunte davanti a La Valletta, le navi italiane fermano
le macchine. Il capitano di fregata Maurice James Ross della Royal
Navy, accompagnato da tre ufficiali ed alcuni marinai armati, sale
sulla Duilio,
dopo di che le navi rimettono in moto, superano La Valletta con rotta
verso nordovest ed entrano nella baia di Madliena, dove danno fondo
alle 19.15 (17.50 per altra fonte), disponendosi in linea di fronte
tra Madliena Tower (dove getta l'ancora il Da
Recco, più sottocosta e
più vicino all'omonima torre rispetto alle altre navi) e lo scoglio
di Qawra, formando una linea orientata approssimativamente da
nordovest a sudest parallelamente alla costa: da nord (Qawra) verso
sud (Madliena Tower) ci sono Duilio,
Doria,
Cadorna,
Pompeo
Magno
e Da Recco.
Il
capitano di fregata Ross porta una lettera in italiano a firma del
capo di Stato Maggiore dell'ammiraglio Arthur Power, comandante della
base di Malta, capitano di vascello Edwards; in essa si annuncia che
Ross è stato nominato ufficiale di guardia sulla Duilio
e che le navi italiane dovranno subire l'asportazione degli
otturatori dei cannoni (tranne quelli contraerei) e l'inutilizzazione
degli apparati radio e degli aerei imbarcati, e prendere a bordo
militari britannici incaricati della sorveglianza. Per i rifornimenti
di viveri e nafta, Da
Zara dovrà rivolgersi a Ross, che inoltrerà le sue richieste.
Drappelli
di marinai britannici armati salgono a bordo delle navi italiane non
appena queste hanno finito di ormeggiarsi, provvedendo a dare
esecuzione agli ordini di Edwards: vengono rimosse le valvole degli
apparati radio, gli acciarini dei siluri e gli otturatori di tutte le
artiglierie non contraeree. Gli ufficiali italiani protestano
dichiarando tale comportamento come in contrasto con le condizioni
dell'armistizio, ma la risposta è “Noi stiamo solo obbedendo a
degli ordini”; più di qualcuno vorrebbe reagire autoaffondando le
navi, ma l'ammiraglio Da Zara
riesce a calmare gli animi e decide di prendere tempo per meglio
valutare l'evolversi degli eventi.
Il
Da Recco
e le altre navi del gruppo di Da Zara
sono le prime navi italiane ad arrivare a Malta dopo l'armistizio;
nei giorni successivi vi affluirà progressivamente la quasi totalità
della flotta italiana, a partire dalla squadra da battaglia partita
da La Spezia e Genova, che arriverà nell'isola il mattino dell'11
settembre, dopo aver subito due giorni prima la tragica perdita della
corazzata Roma,
nave ammiraglia, affondata da aerei tedeschi al largo delle Bocche di
Bonifacio.
Nel
pomeriggio dello stesso giorno l'ammiraglio Da Zara,
in qualità di ufficiale italiano più alto in grado, viene convocato
dal comandante della Mediterranean Fleet, ammiraglio Andrew Browne
Cunningham, frattanto giunto a Malta. Questi esprime apprezzamento
per la leale esecuzione delle clausole armistiziali e rincrescimento
per la perdita della Roma; quindi chiede a Da Zara
se
conosca le clausole dell'armistizio e, ricevuta risposta negativa,
gli offre il documento in italiano perché lo legga. Indi spiega che
darà quanto prima ordine di ritirare i marinai britannici di guardia
dalle navi italiane, mentre il disarmo delle navi, da effettuare
sotto la responsabilità dei comandi di bordo, dovrà avvenire con lo
sbarco di toppe, acciarini, inneschi e cariche di distruzione nelle
località di dislocazione delle navi; saranno reimbarcate in caso di
trasferimento. Un ufficiale britannico potrà di quando in quando
recarsi a bordo per una visita di controllo. Infine, annuncia che
l'indomani pomeriggio le corazzate della IX Divisione (Italia
e Vittorio Veneto,
arrivate con il gruppo di La Spezia), quattro incrociatori e sei
cacciatorpediniere italiani dovranno trasferirsi ad Alessandria
d'Egitto, al fine di decongestionare il porto di Malta (ormai
sovraffollato da unità italiane di ogni tipo e dimensione qui
affluite nei giorni successivi all'armistizio, in gran parte
concentrate in ancoraggi esposti e privi di adeguate difese antiaeree
ed antisommergibili, pur avendo i britannici rinforzato le prime con
il trasferimento di alcuni cannoni mobili Bofors da 40 mm, ed inviato
alcune unità leggere a compiere pattugliamenti antisom nelle acque a
nordovest di Malta: permane il rischio di attacchi tedeschi);
navigheranno insieme alla squadra dell'ammiraglio Arthur William La
Touche Bisset, comandante la 3a Divisione
del 1st Battle
Squadron. Non vi saranno ufficiali britannici sulle navi italiane,
salvo un ufficiale di collegamento che prenderà imbarco
sull'incrociatore Eugenio di
Savoia.
Successivamente
la partenza viene rinviata al 14 settembre. Il Da
Recco viene aggregato al
gruppo che dovrà andare ad Alessandria.
Il
Da Recco
in navigazione a Malta il 10 settembre 1943: ben visibile il radar
“Gufo” (Coll. Erminio Bagnasco)
12
settembre 1943
Tra
il tardo pomeriggio e la sera il Da
Recco si rifornisce di
carburante alla Valletta in vista della partenza per l'Egitto, dopo
di che si porta a Marsa Scirocco;
fanno lo stesso, a turno, gli altri cacciatorpediniere destinati a
partire per Alessandria: Artigliere,
Grecale,
Legionario
(che non deve andare ad Alessandria bensì ad Algeri, dove dovrà
imbarcare delle truppe statunitensi da portare in Corsica) e per
ultimo il Velite,
che conclude a notte inoltrata.
%20verso%20Malta%2010-9-43%20con%20davanti%20ct%20inglese-Doria-Duilio-Cadorna-Pompeo%20(NHHC).jpg) |
Navi italiane in navigazione verso Malta il 10 settembre 1943: in testa un cacciatorpediniere britannico, seguito nell’ordine da Duilio, Doria, Cadorna, Pompeo Magno e per ultimo dal Da Recco, che risulta dunque essere l’unità più vicina nella foto (Naval History and Heritage Command) |
13
settembre 1943
Le
navi in procinto di partire per l'Egitto sbarcano alcuni feriti e
malati che vengono ricoverati sulla nave soccorso italiana Laurana,
internata a Malta fin dal maggio precedente, quando è stata
catturata da cacciatorpediniere britannici nelle acque della Tunisia.
%20a%20Malta%20allafondadavantiaFortMadliena%20mattino11-9-43%20con%20EugenioDuilioDoriaCadornaPompeo%20e2tp(SM).png) |
Navi italiane alla fonda davanti a Fort Madliena (Malta) il mattino dell'11 settembre 1943: il Da Recco è l’unità più lontana, mentre avvicinandosi al fotografo sono visibili due torpediniere, il Pompeo Magno, il Cadorna, la Doria, la Duilio e l'Eugenio (g.c. STORIA militare) |
14
settembre 1943
Alle
8.30 il Da Recco
lascia Malta insieme ai cacciatorpediniere Artigliere,
Grecale e Velite,
alle corazzate Vittorio
Veneto ed Italia
(nave di bandiera dell'ammiraglio Enrico Accorretti, comandante della
IX Divisione) ed agli incrociatori leggeri Luigi
Cadorna, Raimondo
Montecuccoli, Eugenio
di Savoia (nave di
bandiera dell'ammiraglio Romeo Oliva, comandante della VII Divisione
cui è stato aggregato anche il Cadorna,
e dell'intera formazione in quanto più anziano di Accorretti)
ed Emanuele Filiberto
Duca d'Aosta, per
trasferirsi ad Alessandria d'Egitto.
Le
navi italiane sono scortate dalla Forza Z britannica, composta dalle
corazzate Howe (nave
di bandiera dell'ammiraglio Bisset) e King
George V,
da sei cacciatorpediniere della 8th
Destroyer Flotilla (i britannici Fury, Faulknor, Echo ed Intrepid ed
il greco Vasilissa
Olga)
e da numerosi aerei.
(Il
14 settembre 1943 il secondo capo cannoniere del Da
Recco Luigi Scialdone, di
25 anni, da Napoli, muore in territorio metropolitano, cioè in
Italia, in circostanze che non è stato possibile accertare. Un altro
membro dell'equipaggio, il ventenne sottocapo meccanico Giuseppe
Leuci, da Lecce, risulterebbe essere morto in prigionia a Stettino il
30 agosto 1944, per bombardamento aereo. Probabilmente entrambi si
trovavano in licenza all'epoca dell'armistizio e rimasero l'uno
ucciso e l'altro catturato negli scontri che portarono
all'occupazione tedesca dell'Italia).
%20(AWM).JPG) |
Navi italiane in trasferimento da Malta ad Alessandria, settembre 1943: da sinistra a destra Italia, Vittorio Veneto, Montecuccoli, Eugenio, Da Recco, Duca d’Aosta; la foto è scattata dalla King George V (Australian War Memorial) |
16
settembre 1943
Il Da
Recco e le altre navi
giungono ad Alessandria alle otto del mattino e danno fondo nella
rada esterna (Mex Anchorage), dove rimarranno per un mese; corazzate
ed incrociatori si ancorano nella rada di Mex, i cacciatorpediniere
ad El Kot. L'ammiraglio John Cunningham, comandante in capo della
Levant Station e cugino del comandante della Mediterranean Fleet, si
reca incontro alle navi italiane a bordo del dragamine d'altura
Derby.
Subito
dopo l'arrivo l'ammiraglio Oliva, comandante della formazione, viene
convocato a bordo della Howe
dall'ammiraglio John Cunningham, che alla presenza di altri ammiragli
(tra cui il contrammiraglio Allan Poland,
comandante della base di Alessandria) gli comunica le disposizioni
per il disarmo delle navi italiane giunte ad Alessandria, decise dai
governi Alleati. Sono disposizioni molto più severe di quelle in
vigore per le navi rimaste a Malta: esse comprendono, tra l'altro, lo
sbarco di tutte le munizioni ad eccezione di quelle delle mitragliere
contraeree (durante la permanenza ad Alessandria, anzi, le navi
italiane entreranno in porto, a turno e per il tempo strettamente
necessario, soltanto per compiere questa operazione), la rimozione di
otturatori e strumenti di punteria, l'imbarco su ogni nave di una
nutrita guardia armata britannica (quelle destinate alle corazzate ed
agli incrociatori sono costituite da personale prelevato dagli
equipaggi della King
George V e
della Howe,
quelle da imbarcare sui cacciatorpediniere da personale dell'arsenale
di Alessandria), ed il divieto assoluto di comunicazione tra una nave
e l'altra. Dopo aver protestato verbalmente, l'indomani l'ammiraglio
Oliva invierà a (John) Cunningham anche una protesta scritta;
inutilmente.
Le
navi italiane passano ad Alessandria esattamente un mese, pesante
soprattutto sul piano morale: sia per la totale inattività e le
citate restrizioni imposte dai britannici, che per il divieto
assoluto di scendere a terra e per il clima caldo ed umido, unito al
mare quasi sempre agitato che impedisce anche, salvo che in poche
sporadiche occasioni, di permettere ai marinai di fare un bagno
attorno alle navi. Anche i rifornimenti, specialmente quelli di
acqua, sono difficoltosi. Particolarmente fastidiosa è la stretta
sorveglianza cui sono sottoposte le navi all'ancora, con motovedette
in pattugliamento «che col
loro contegno rude e inflessibile di fronte ad ogni più piccola
irregolarità (ritardo fortuito di qualche imbarcazione nel tornare a
bordo, occasionale ritardo nell'alzare tutte le imbarcazioni al
tramonto, qualche luce visibile dall'esterno durante la notte, ecc.)
davano agli equipaggi la sensazione di essere ingiustamente trattati
da prigionieri».
Per
cercare di risollevare il morale degli equipaggi e tenere gli uomini
occupati, oltre alle esercitazioni di bordo vengono organizzate
regate, scuole professionali, lezioni di italiano e di inglese, gare
interne di posto di lavaggio e di pulizia, gare di nuoto (quando le
condizioni del mare lo consentono), proiezioni cinematografiche,
concerti da parte di improvvisate orchestrine, spettacoli di varietà
e financo rappresentazioni di commedie scritte da qualche ufficiale o
sottufficiale. Per mantenere il contatto diretto tra i comandanti e
la truppa, l'ammiraglio Oliva compie frequenti visite sui
cacciatorpediniere e sugli incrociatori della VII Divisione, mentre
Accorretti fa lo stesso sulle navi della IX Divisione, occasioni
sfruttate anche per parlare con gli equipaggi; su disposizione di
Oliva, i comandanti invitano gli ufficiali a stare frequentemente in
mezzo ai loro uomini. Nel complesso, queste misure sembrano avere
efficacia, riducendo al minimo le mancanze disciplinari gravi; su
ottomila uomini che compongono gli equipaggi delle navi internate ad
Alessandria, si verificano soltanto quattro infrazioni di entità
tale da costituire reato (un caso di insubordinazione e tre di
tentata diserzione, in cui altrettanti marinai si gettano in mare e
raggiungono terra a nuoto, venendo però subito arrestati dalla
polizia egiziana).
21
settembre 1943
Il
Da Recco
e la Vittorio Veneto
si ormeggiano temporaneamente all'interno del porto di Alessandria
per agevolare lo sbarco delle munizioni. Ricevono poi provviste per
un mese.
5
ottobre 1943
L'ammiraglio
Oliva riceve un telegramma dell'ammiraglio De Courten risalente al 1°
ottobre, con qui questi comunica che a breve gli incrociatori ed i
cacciatorpediniere potranno rientrare a Taranto, mentre le corazzate
della IX Divisione dovranno restare ad Alessandria. Dopo aver
informato i sottoposti di questa notizia, Oliva incontra l'ammiraglio
Allan Poland,
comandante della base di Alessandria, per concordare le modalità di
rimpatrio di incrociatori e cacciatorpediniere; nei giorni successivi
si procede al reimbarco delle munizioni ed alla rimessa a posto degli
otturatori e degli strumenti di punteria.
16
ottobre 1943
Dopo
un mese di internamento nella base egiziana, il Da
Recco, gli altri
cacciatorpediniere e gli incrociatori della VII Divisione lasciano
finalmente Alessandria per fare ritorno in Italia.
La
decisione di rimpatriare le navi italiane è stata presa in seguito
alla dichiarazione di Guerra del governo Badoglio alla Germania,
avvenuta il 13 ottobre, che ha reso l'Italia un Paese cobelligerante
con gli Alleati; i comandi britannici ritengono perciò che sia
“desiderabile che le navi italiane siano in una base dalla quale
possono operare”. Inoltre la rada di Mex è troppo esposta, ed il
porto di Alessandria troppo affollato, perché le navi italiane vi
rimangano durante l'inverno.
Prima
della partenza 880 uomini sono prelevati da ciascuna delle due
corazzate e trasferiti sugli incrociatori e sui cacciatorpediniere
per mezzo dei traghetti turchi Tuzla e Darica; l'operazione viene
ultimata alle 15, dopo di che le navi iniziano a muovere. Italia
e Vittorio Veneto,
con a bordo personale sufficiente a navigare a 20 nodi, escono dal
Grand Pass alle 18.15 e fanno rotta per Port Said, scortate dai
cacciatorpediniere Wilton,
Lamerton,
Themistocles
e Kanaris
(i primi due britannici, gli ultimi due greci): non torneranno in
Italia, ma saranno invece internate ai Laghi Amari, dove rimarranno
fino alla fine della guerra.
Montecuccoli,
Cadorna,
Duca d'Aosta
ed Eugenio di Savoia
lasciano Alessandria (l'ultimo degli incrociatori esce in mare alle
16) scortati da Da Recco,
Artigliere,
Grecale
e Velite,
diretti a Taranto. Su ciascuna nave italiana si trova un ufficiale di
collegamento britannico con relativa squadra per le comunicazioni,
oltre al personale in eccesso sbarcato da Italia
e Vittorio Veneto
dirette verso l'internamento.
Novembre
1943
Il Da
Recco ed il Grecale
scortano da Taranto ad Alessandria (dove giungono il 22 novembre) la
nave cisterna Dafila e
la nave appoggio (ex incrociatore ausiliario) Lazzaro
Mocenigo,
quest'ultima diretta ad Haifa per fungere da nave appoggio per i
sommergibili italiani colà dislocati. La Mocenigo ha
a rimorchio un bersaglio galleggiante da usare per esercitazioni in
Palestina, ma tra Malta e Bengasi il cavo di rimorchio si spezza ed
il bersaglio rimane alla deriva, diventando un pericolo per la
navigazione.
30
novembre 1943
Da
Recco e Grecale
salpano da Haifa alle 15 scortando la Mocenigo,
avente a rimorchio il sommergibile Marcantonio
Bragadin
(tenente di vascello Augusto Marraccini), immobilizzato da un'avaria
ai motori e diretto in Italia per esservi posto in disarmo.
2
dicembre 1943
Il
piccolo convoglio arriva ad Alessandria alle 15.20.
6
dicembre 1943
Da
Recco, Grecale,
Mocenigo
con a rimorchio il Bragadin
più un altro sommergibile, il Filippo
Corridoni,
lasciano Alessandria alle 9 diretti a Taranto.
8
dicembre 1943
In
seguito alla rottura del cavo di rimorchio, il convoglio viene
dirottato a Tobruk, dove arriva alle 11.40 (o 15.30).
Dicembre
1943
Il
capitano di vascello Del Minio lascia il comando del Da
Recco.
Fine
1943-Inizio 1944
Il
Da Recco
svolge attività di scorta a convogli Alleati e trasporto di
personale e materiali ai Laghi Amari, dove sono internate le
corazzate Italia
e Vittorio Veneto.
Il
Da Recco,
insieme ad altre unità, in due foto a colori scattate probabilmente
durante la cobelligeranza (Coll. Anthony Simeone, via pagina Facebook
“Cacciatorpediniere classe Navigatori”)
5
febbraio-26 ottobre 1944
Sottoposto
ad un periodo di grandi lavori in Arsenale a Taranto.
31
luglio 1944
Il
capo nocchiere di prima classe del Da
Recco Raffaele De Costanzo,
43 anni, da Napoli, muore in territorio metropolitano.
4
agosto 1944
Il
marinaio nocchiere del Da
Recco Luigi Costa, 21 anni,
da Palermo, muore in territorio metropolitano.
Novembre
1944-Maggio 1945
Nuovamente
adibito al collegamento con le corazzate internate ai Laghi Amari
(trasportando personale e materiali), facendo base a Taranto, fino
alla fine della guerra.
.jpg) |
Il Nicoloso Da Recco alla Valletta il 2 novembre 1945, con la colorazione in uso durante la cobelligeranza e nell’immediato dopoguerra (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
25
settembre 1945-7 febbraio 1946
Impiegato
nel trasporto rapido di personale e materiali, dapprima tra Taranto e
Napoli e successivamente tra Catania e Malta, per ovviare alla
disastrosa situazione dei collegamenti via terra nell'immediato
dopoguerra, causata dalle distruzioni belliche, ed al quasi totale
annientamento della flotta mercantile.
Al
termine di questo periodo, nel 1946, fa ritorno a Taranto, dove viene
ormeggiato alla banchina torpediniere; ormai anziano e logorato
dall'intensissimo servizio bellico, non rivedrà più il mare aperto.
Il
Da
Recco,
a destra, ormeggiato a Taranto nel 1946-1947 insieme ai più moderni
cacciatorpediniere Carabiniere,
Mitragliere
ed Artigliere
(da sinistra a destra) (sopra: da pagina Facebook “Cacciatorpediniere
classe Navigatori”; sotto: g.c. Stefano Cioglia, via
www.naviearmatori.net)
 |
Il
Da
Recco
(primo a sinistra) ormeggiato alla banchina torpediniere di Taranto
nell’inverno 1946-1947, insieme a (da sinistra a destra) la
torpediniera Calliope,
i cacciatorpediniere Artigliere,
Oriani,
Carabiniere
e Legionario
e la torpediniera di scorta Aliseo
(da www.naviearmatori.net) |
1947
Nel
trattato di pace tra l'Italia e gli Alleati stipulato a Parigi il 10
febbraio, il Da
Recco viene incluso
nell'"Elenco delle navi che l'Italia potrà conservare"
(Allegato XII): è così uno dei soli cinque cacciatorpediniere (gli
altri sono Grecale,
Granatiere, Carabiniere ed Augusto Riboty,
quest'ultimo assegnato all'Unione Sovietica ma rifiutato perché
troppo vecchio ed usurato) lasciati all'Italia dal trattato di pace.
Altri sei (Fuciliere, Mitragliere, Velite, Legionario, Camicia
Nera, Alfredo
Oriani) devono essere
invece ceduti a Francia ed Unione Sovietica; queste undici unità
sono tutto ciò che rimane dei 71 cacciatorpediniere che la Regia
Marina ha avuto in servizio durante il conflitto.
In
mediocri condizioni, il Da
Recco verrà ben presto
posto in disarmo.
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Particolare del Da Recco a Taranto nel 1947 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
.jpg) |
Ormeggiato alla banchina torpediniere di Taranto, con dietro Artigliere, Mitragliere e Carabiniere, in una foto del 20 agosto 1947 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere classe Navigatori”) |
1°
marzo 1948-30 novembre 1950
È
sede del Comando Dragaggio.
1°
gennaio 1951
Diventa
nave ammiraglia della I Divisione Navale (Siluranti), sempre con sede
a Taranto, fino ad agosto.
Il
Da
Recco
ormeggiato alla banchina torpediniere di Taranto il 1o
agosto 1951, tra la torpediniera Calliope
e la cannoniera Illiria
(g.c. Giorgio Parodi e Stefano Cioglia, via www.naviearmatori.net)
8.jpg) |
Il
Da Recco nel 1953 (dalla pagina Facebook “Cacciatorpediniere
classe Navigatori”) |
15
luglio 1954
Posto
in disarmo in attesa di radiazione.
30
luglio 1954
Radiato
dai ruoli del naviglio militare con decreto del presidente della
Repubblica. (Altra fonte data la radiazione
stessa al 15 luglio, oppure al 30 giugno).
Scartato
un piano per farne una nave museo, l'ultimo dei Navigatori viene
successivamente avviato alla demolizione.
.png) |
In
disarmo a Taranto nel dopoguerra (da “Convogli” di Aldo Cocchia) |
La
ruota del timone del Da
Recco è oggi conservata
alla Mostra Storica dell'Arsenale di Taranto; la bandiera di
combattimento è conservata al Sacrario delle Bandiere al Vittoriano,
a Roma.
Il R. Cacciatorpediniere Nicoloso
Da Recco
2 dicembre 1942: invito al ricordo
1o
dicembre 1942, il regio cacciatorpediniere Da
Recco
Struggle for the Middle Sea
La battaglia del banco di Skerki sul World Naval Ships Forums
I cacciatorpediniere classe Navigatori su Regia Marina Italiana
Pagina Facebook dedicata ai cacciatorpediniere classe Navigatori
Album fotografico di immagini del Da
Recco
Alfredo Zambrini sul sito della Marina Militare
Aldo Cocchia sul sito della Marina Militare
Un grande personaggio empedoclino: Giuseppe Sciangula
Il convoglio H sul sito dell'ANMI di Carrara
Decorazioni di Massimo Messina, imbarcato sul Da
Recco
Notte 2 dicembre 1942
Addio TN Oceania
Il marinaio Giuseppe Pianezzola, morto sul Da
Recco
Spoils of War: The Fate of Enemy Fleets after the Two World Wars
L'episodio del 21 giugno 1942 sul forum RAF Commands
The Last Torpedo Flyers: The True Story of Arthur Aldridge, Hero of the Skies
La storia di Reg Dickinson
Notizia su “La Stampa” del 7 settembre 1931
Filmato dell'Istituto Luce che mostra il Da
Recco alle prove di
velocità
Un altro filmato dell'Istituto Luce ritraente il Da
Recco