domenica 10 agosto 2025

DM 36 Equità

L'Equità (g.c. Mauro Millefiorini)

Motoveliero da carico (nave goletta) di 408,91 tsl, 320,59 tsn e 700 tpl, lungo 42,48 metri, largo 8,95 e pescante 5,16, requisito come dragamine ausiliario. Di proprietà di Giuseppe Tomei di Viareggio, iscritto con matricola 673 al Compartimento Marittimo di Viareggio, nominativo di chiamata radio IMQP.


Breve e parziale cronologia.

21 maggio 1918
Varato dai cantieri Emilio Picchiotti di Viareggio (il volume "La flotta scomparsa" di Flavio Serafini parla dei cantieri Giobatta Codecasa, ma dai Lloyd's Registers risulta come costruttore il cantiere Picchiotti), originariamente come veliero “puro”, senza motore; scafo in legno, stazza lorda 422 tsl e netta 405,8 tsn, lungo 39,36 metri, largo 8,45 e pescante 5,07.
Suo primo proprietario, ed al contempo comandante, è il capitano Giuseppe Tomei fu Francesco, di Viareggio, detto “Beppe di Ceccotto”.

Il varo dell'Equità (Coll. Enrico Tomei, da “La flotta scomparsa” di Flavio Serafini)

22 novembre 1918
Noleggiato, od acquistato, da una ditta siciliana ed armato da un equipaggio siciliano, l'Equità parte da Viareggio per un porto della Sicilia, con a bordo 18 tonnellate di marmi e 150 tonnellate di sabbia impiegata come zavorra. Il vecchio capitano marittimo viareggino Raffaello Martinelli annota nel suo diario: “...il veliero avrà la portata in peso di tonn. 800, la di cui quarta parte almeno sono 200 che gli occorrono di zavorra e se non basta, deriva dall'alberatura per essere troppo grossa ed alta da servire ad un veliero dello stesso tipo di portata a mille tonnellate e più… Questo è il primo spardeck che hanno costruito a Viareggio”.
1924
Acquistato dai Fratelli Pantanella di Roma, rimanendo però in gestione a Giuseppe Tomei (dal Lloyd's Registers risulterebbe che già nel 1923 l'Equità era passato nelle mani di A. Pantanella). Comandante F. Buonaccorsi (od il padrone marittimo Giuseppe Buonaccorsi, che secondo "La flotta scomparsa" di Flavio Serafini avrebbe comandato la nave dal 1919 al 1930, con Narciso Malfatti come secondo), nominativo di chiamata PBNC, iscritto con matricola 33 al Compartimento Marittimo di Roma. Compie scali a Bona.
16 novembre 1924
Verso le dieci del mattino, mentre l'Equità, al comando del padrone marittimo Giuseppe Buonaccorsi, si trova in navigazione con mure a sinistra con tempo minaccioso da nord e mare grosso da nordest in posizione 39°57' N e 04°42' E, il comandante Buonaccorsi ordina di ammainare il controfiocco; il quarantunenne marinaio viareggino Attilio Bandoni si reca ad eseguire l'ordine ma, mentre si trova a cavalcioni della ringhiera del carabottino di prua, perde l'equilibrio e cade in mare. Il secondo di bordo Narciso Malfatti ed il marinaio Emilio Maffei, che si trovano vicino, lanciano subito l'allarme, e tutto l'equipaggio franco di guardia si precipita in coperta, gettando in mare salvagenti ed altri oggetti che possano fungere da galleggianti; al contempo il comandante Buonaccorsi fa controbracciare a collo ed ammainare la lancia, con a bordo il secondo Malfatti e tre marinai. Bandoni viene visto emergere nella scia di poppa, a poca distanza, ma evidentemente già esausto; ad intervalli scompare alla vista e, quando la lancia che ha subito puntato su di lui è ormai giunta a poca distanza, scompare definitivamente sotto la superficie. Dopo due ore di inutili ricerche, mentre il tempo si fa più minaccioso, la lancia viene ripresa a bordo e l'Equità riprende mestamente la navigazione.
1925
Il nominativo di chiamata diventa NOBA.
Maggio 1930
Risultano proprietari di 16 carati dell'Equità Giuseppe Tomei fu Francesco, Luigi Guido di Giuseppe e Raffaello Gemignani di Paolo.
1931-1934
L'Equità, adibito a viaggi per Valencia, è al comando del padrone marittimo Raffaello Gemignani.
1936-1937
È comandante dell'Equità il capitano di gran cabotaggio Luigi Guido Tomei.

Il capitano di gran cabotaggio Luigi Guido Tomei (1879-1976), nipote di Ceccotto Tomei (Coll. Beppone Tomei, da “La flotta scomparsa” di Flavio Serafini)


Febbraio 1937
La proprietà dell'Equità risulta divisa tra il padrone marittimo Francesco Tomei di Enrico (dieci carati), Giuseppe Tomei fu Francesco (otto carati), il capitano di gran cabotaggio Guido Tomei (tre carati) e Salvatore Cardella (tre carati). La nave è adibita al trasporto di laterizi da Marsiglia ad Haifa, al comando del padrone marittimo Francesco Tomei detto “Cecco”.
Durante un viaggio estivo ad Haifa, della durata di 25 giorni, “Cecco” Tomei porta con sé a bordo la moglie Rosa Belluomini ed i figli Fabio ed Enrico (il secondo, da adulto, diverrà a sua volta comandante e pilota del porto di Brindisi).
Marzo 1937
L'Equità viene dotato di motore diesel FIAT a quattro cilindri da 36 HP nominali, diventando un motoveliero. Vengono modificate la stiva, ricavandovi il locale motore, ed anche gli alloggi, per consentire la realizzazione dell'osteriggio, del cofano motore e dell'alloggio dei motoristi. L'alloggio del comandante viene leggermente ridotto, mentre viene ampliato quello dell'equipaggio.
In conseguenza delle modifiche, lo scafo viene leggermente allungato ed allargato, ma stazza lorda e netta calano a 409 tsl e 321 tsn.
Nella saletta poppiera è posto un manifesto pubblicitario della FIAT, con lo slogan “Fiat in cielo, in terra ed in mare”, cui il comandante fa aggiungere: “ed a bordo dell'Equità”.
1940
Il comandante dell'Equità risulta essere G. Buonaccorsi.
3 dicembre 1940
I Cantieri Riuniti del Tirreno ricevono l'ordine di trasformare in dragamine magnetici, equipaggiati con apparato per dragaggio magnetico tipo «CAM» (composto da due elettromagneti orizzontali incrociati percorsi da corrente continua il cui senso può periodicamente essere invertito), tre grossi motovelieri: uno è l'Equità (gli altri due sono Guglielmo Marconi e Vanna Galleano). I lavori di trasformazione dovranno richiedere dieci giorni a nave.
Non risulta però che l'Equità sia stato requisito fino a quasi un anno più tardi (vedi sotto), ed appare dunque probabile che la sua trasformazione sia stata in realtà rimandata. Il volume "Il dragaggio" dell'Ufficio Storico della Marina Militare si dilunga infatti sui ritardi nell'allestimento dei dragamine magnetici causati tra l'altro dalla difficoltà di reperire lamiere necessarie per la realizzazione dei nuclei magnetici dell'apparato «CAM».
25 novembre 1941
Requisito a Durazzo dalla Regia Marina ed iscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato dalle otto del mattino, con sigla DM 36. (All'epoca ne è primo ufficiale Aristotile Vassalle).
Gennaio 1942
Proseguono i problemi nell'approvvigionamento del materiale ferroso necessario alla realizzazione degli apparati «CAM» con cui equipaggiare i dragamine ausiliari: in una lettera di Marinarmi a Maristat datata 9 gennaio 1942, si fa presente che la riduzione delle quote mensili di materie prime stabilite dal Sottosegretariato di Stato per le fabbricazioni di guerra (Fabbriguerra) comporteranno l'impossibilità di realizzare i primi apparati prima di sei mesi. Maristat si attiva allora presso il Comando Supremo per ottenere un'assegnazione straordinaria dei materiali necessari, data la grande importanza attribuita all'approntamento di dragamine magnetici, e riesce infine ad ottenere una pronta fornitura del materiale ferroso richiesto da Fabbriguerra. I lavori di trasformazione si svolgeranno in cantieri genovesi.
Febbraio 1942
A fine febbraio l'approntamento dell'Equità come dragamine con apparato «CAM 41» (versione migliorata del «CAM», frattanto ribattezzato «CAM 40», rispetto al quale ai due elettromagneti orizzontali è stato aggiunto anche un terzo elettromagnete verticale) viene previsto entro quattro mesi (giugno 1942), ma sorge un nuovo problema nella mancanza di rame e mica; viene deciso di recuperare dei materiali dagli apparati di altri due dragamine ausiliari, Sivigliano ed Eritrea, diventati inutilizzabili, ma anche in questo caso l'approntamento non sarebbe possibile prima di sei mesi. Data la richiesta di navi di piccolo tonnellaggio, che non possono essere lasciate inattive, nel frattempo l'Equità ed un altro motoveliero in attesa di trasformazione in dragamine, l'Eolos, vengono messi temporaneamente a disposizione di Marina Messina, per essere impiegati nel trasporto di materiali a Pantelleria e Lampedusa.
30 marzo 1942
Derequisito e radiato dai ruoli del naviglio ausiliario dello Stato.
1942
Comproprietari dell'Equità risultano essere, in questa epoca, Luigi Guido Tomei fu Giuseppe (7,44 carati), Francesco Tomei di Enrico (9 carati), Giuseppe Tomei di Luigi Guido (1 carato), Dania Tomei in De Ranieri (1,78 carati), Caterina Tomei in Banchelli (1,78 carati) e Salvatore Cardella fu Angelo (3 carati).
16 luglio 1942
Nuovamente requisito dalla Regia Marina, stavolta ad Olbia, e reiscritto nel ruolo del naviglio ausiliario dello Stato come dragamine magnetico con sigla DM 36.
Agosto 1942
Ad inizio agosto, l'Equità risulta non ancora approntato come dragamine, e non è neanche possibile stabilire con certezza una data in cui sarà pronto a causa della mancanza di legname ed anche di manodopera, impegnata in lavori urgenti di riparazione di navi mercantili danneggiate (non risulta nemmeno possibile ottenere da Fabbriguerra delle variazioni dell'orario di lavoro e del riposo festivo).

L'Equità in attesa di caricare laterizi a Marsiglia; l’albero di mezzana, in corso di riattrezzatura, è privo di alberetto (da “La flotta scomparsa” di Flavio Serafini)

Bombe su Genova

La sorte dell'Equità è per certi versi emblematica del mutare dei tempi: il bel “barcobestia”, tra gli ultimi figli di un'epoca eroica, quella della vela, che al momento della sua costruzione era ormai tramontata, rimase vittima di una minaccia che fino pochi anni prima che scendesse in mare nemmeno esisteva: l'aereo.
Nell'ottobre 1942 l'Equità si trovava a Genova. Il capoluogo ligure, duramente colpito da bombardamento navale del 9 febbraio 1941, aveva di converso subito pochi danni ad opera dell'offesa aerea: il Bomber Command della Royal Air Force, unico reparto aereo britannico che, facendo decollare i suoi bombardieri dalle basi dell'Inghilterra, fosse in grado di raggiungere il Nord Italia (all'epoca ben al di fuori del raggio d'operazione dei velivoli britannici di base a Malta od in Nordafrica), aveva compiuto alcune incursioni nel giugno 1940, subito dopo l'entrata in guerra, e poche altre nell'autunno di quello stesso anno, nel settembre del 1941 e nell'aprile 1942. Questi attacchi, sferrati con pochi bombardieri (al più una quarantina, ma spesso neanche una decina), avevano causato modesti danni e poche vittime, ma la musica stava per cambiare.
L'arrivo al comando del Bomber Command del maresciallo dell'aria Arthur Harris, nel febbraio 1942, aveva segnato un netto cambio di passo nella strategia d'impiego dei bombardieri strategici britannici. In passato questi avevano condotto bombardamenti “mirati”, con un numero relativamente limitato di velivoli (di solito nell'ordine delle decine), puntando a colpire stabilimenti industriali, infrastrutture ed altri obiettivi strategici, ma un esame delle incursioni condotte nel primo biennio di guerra – il “rapporto Butt” del 18 agosto 1941 – aveva rivelato che questi attacchi di preciso avevano ben poco: dato che gli attacchi si svolgevano di notte (onde sfruttare il favore del buio: la RAF evitava le incursioni di giorno perché esponevano i bombardieri a perdite eccessive ad opera di caccia e contraerea), soltanto un terzo dei bombardieri sganciava il proprio carico in un raggio di cinque miglia dal bersaglio. Dinanzi al fallimento dei bombardamenti di precisione, Harris decise di abbandonare questa tattica per puntare invece sul bombardamento indiscriminato di vaste zone cittadine, detto «area bombing»: lo scopo di questi attacchi non sarebbe stato più di colpire direttamente le aree industriali, ma di privarle della manodopera inducendola a sfollare dalle città, distruggendone le case e la rete energetica, paralizzando i trasporti pubblici e spargendo il terrore, andando altresì ad indebolire il fronte interno fiaccando il morale della popolazione civile e costringendo il nemico a dirottare risorse preziose verso la gestione di masse di sfollati e senzatetto. Le direttive prevedevano che un edificio che risaltava particolarmente sul panorama urbano, dunque facilmente riconoscibile, venisse scelto come “punto di mira”, dopo di che i bombardieri avrebbero dovuto sganciare in un raggio tre miglia da esso, senza mirare a niente in particolare. Il numero dei bombardieri impiegati in una singola incursione venne fortemente incrementato, ed il loro carico venne modificato incrementando sensibilmente la percentuale di bombe incendiarie, al fine di scatenare vasti incendi che avrebbero aggravato i danni causati dalle bombe.

Dopo aver impiegato per la prima volta l'«area bombing» sulla Germania nella primavera-estate del 1942, con l'arrivo dell'autunno ed il peggiorare delle condizioni meteorologiche sulla Germania il Bomber Command rivolse le sue attenzioni all'Italia. Venne pianificato un ciclo di bombardamenti indiscriminati sulle tre grandi città del “triangolo industriale”, cuore industriale dell'Italia e dunque obiettivo primario per minarne lo sforzo bellico: Milano, Torino ed appunto Genova. Proprio a quest'ultima toccò il dubbio onore di diventare il primo bersaglio; l'attacco sarebbe stato condotto simultaneamente all'avvio, in Nordafrica, dell'offensiva che avrebbe portato alla battaglia di El Alamein.
La sera del 22 ottobre 1942, ben 112 bombardieri quadrimotori Avro Lancaster decollarono dalle loro basi in Inghilterra diretti verso il capoluogo ligure. Attraversato il Canale della Manica, sorvolata la Francia occupata e superate le Alpi, cento degli aerei (gli altri si erano persi per strada, come spesso accadeva) giunsero sul loro obiettivo: come punto di mira era stata scelta la centralissima Piazza De Ferrari. I cento bombardieri aprirono i loro ventri, e 179 tonnellate di bombe e spezzoni incendiari piovvero sulla Superba: furono colpiti il centro storico, i quartieri orientali, il porto ed i cantieri navali; tra gli edifici danneggiati la stazione ferroviaria di Genova Brignole, l'ospedale Pammatone, le chiese di Sant'Agostino, San Silvestro e Santa Maria della Passione, il porticato medievale di Sottoripa, Palazzo San Giorgio, Palazzo Spinola (sede della Prefettura), Palazzo Tursi (sede del Comune) ed il Palazzo Ducale.
L'incursione, giudicata dai britannici molto ben riuscita (grazie anche al cielo sereno ed alla luce lunare), si protrasse dalle 21.25 del 22 ottobre alle tre di notte del 23, ma lo sgancio delle bombe fu concentrato nell'arco di 50 minuti. Questo bombardamento vide per la prima volta in Italia l'impiego su larga scala di spezzoni incendiari, come già avvenuto in Germania; questa scioccante novità aggravò, come desiderato dagli attaccanti, i danni causati dalle bombe (alcuni incendi ardevano ancora a ventiquattr'ore dall'incursione) e destò profonda impressione nella popolazione genovese. La violenza dell'attacco fu tale da indurre, l'indomani mattina, Vittorio Emanuele III e la regina Elena a recarsi in visita alla città colpita: il re visitò i quartieri più colpiti, mentre la regina fece visita ai feriti negli ospedali.
Il numero delle vittime civili fu relativamente contenuto se rapportato alla vastità dei danni materiali: 39 morti; questo, ed il bilancio relativamente basso anche nelle incursioni successive (tranne che in quella del 23 ottobre, dove però a fare strage non furono le bombe ma la calca provocata dal panico sulla scalinata d'accesso di un rifugio antiaereo presso la galleria delle Grazie), Genova lo dovette alla presenza in città – come in molti altri centri liguri, stretti tra il mare e le montagne – di numerose gallerie, che si trasformarono in ottimi e resistenti rifugi antiaerei, molto migliori degli scantinati adattati alla bisogna, sempre esposti al rischio di trasformarsi in trappole in caso di crollo dell'edificio soprastante, che costituivano il grosso dei rifugi nelle città dell'entroterra.

Relativamente limitati furono anche i danni al naviglio, non essendo questo stato deliberatamente bersagliato dall'incursione: fu danneggiato il dragamine ausiliario B 212 Angelina (un piropeschereccio requisito) ed affondati il motoveliero da carico Antonietta Madre C., il piroscafetto passeggeri Arco Azzurro e tre grossi motovelieri requisiti ed impiegati come dragamine ausiliari: il DM 21 Pietrino, il DM 35 Aeolus ed appunto il DM 36 Equità, che colpito ed incendiato da bombe e spezzoni, affondò nelle acque del porto.

È opportuno notare che il Pietrino ad inizio agosto 1942 si trovava nella medesima situazione dell'Equità, e che all'epoca dell'affondamento non aveva ancora ricevuto il suo apparato «CAM»: il volume USMM "Il dragaggio" non specifica se l'Equità avesse già ricevuto il suo, ma le parallele vicende del Pietrino e la sua presenza a Genova (dove si svolgevano i lavori di trasformazione), porto lontano dalla zona “calda” del Mediterraneo centrale, al momento della perdita inducono a sospettare che anche l'Equità fosse fermo a Genova in attesa del completamento dei lavori di trasformazione quando andò perduto.

Non risulterebbero esservi state vittime tra l'equipaggio.

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